
Indipendentemente dall’attenzione che Esther Stocker pone in un particolare approfondimento della sua ricerca artistica, alla base delle sue opere, installative e non, c’è sempre il tema cardine attorno al quale ruota tutta la sua produzione: la percezione.
Invariabilmente, in un ambiente interno, finanche anonimo (come può essere la stazione della metropolitana Vittorio Emanuele), o esterno (vedasi la facciata della stazione ferroviaria di Uno Port), lo spettatore è chiamato a osservare con maggiore attenzione ciò che ha di fronte o che lo avvolge, affinché riesca a riconoscere e, soprattutto, a individuare, dove si è verificato un improvviso, e non pianificato, scarto; a intercettare quell’elemento che in qualche modo interrompe una serie, disturba una linearità, devia una rettilinea, avvia una lieve nuova traiettoria. Quell’errore che, però, non è avvertito come un fallimentare sbaglio, ma accolto come una sorprendente incognita, foriera di imprevedibili (perfino infinite) nuove possibilità. Così, ogni volta che si ha a che fare con le opere di Esther Stocker (Silandro, 1974), non è possibile passare oltre in modo indifferente, perché ciò che di primo acchito si mostra ordinato e regolare, ti risucchia, dato che non è tutto così ordinato e regolare. E sei nella trappola.

Ti ritrovi impegnato nella caccia della devianza, che avverti essere presente da qualche parte e che, a quel punto, non puoi più ignorare. E tutto questo si scopre nella imponente installazione nel grande ambiente della Tenuta dello Scompiglio. Curata da Angel Moya Garcia, con “Analisi dell’errore”, l’artista crea una straordinaria macchina in cui lo spettatore si lascia avvolgere, delicatamente abbracciare, condurre in una dimensione sospesa, pressoché onirica, in cui ogni cosa è lasciata fuori: tempo, rumore, affanni, coordinate. Un po’ è come entrare in quegli ambienti che molti di noi hanno immaginato guardando, gli ormai datati, telefilm Star Trek in cui la fantasmagorica Enterprise era in viaggio per tutto l’universo, “verso nuovi mondi”. Quei nuovi mondi che Melvin Lewis Prueitt creò nell’iconica sigla di Quark.

Così, quelle linee che si innalzano o si inabissano, prendono corpo nella nivea installazione dello Scompiglio. Un ordinato intrico di linee ortogonali nere, che creano una griglia, illusoriamente regolare che, invece, in diversi punti, perde definitezza e perfezione, in improvvisi tagli, che aprono a possibili nuove visioni. Elementi pittorici che divengono plastici e che, improvvisamente, affiorano dal pavimento, o pendono dal soffitto, interrompono (o concorrono a creare) la traiettoria delle linee che si dispiegano per tutto l’ambiente, ricoprendo, in tutta la loro ampiezza, le pareti, coinvolgendo anche il pavimento. Nonostante le considerevoli misure, tutto risulta armonioso: lo spettatore non si sente divorato e inghiottito dallo spazio, bensì naturale parte di un gradevole insieme pacato ed equilibrato.

Entrando, quindi, e attraversando l’opera di Esther Stocker, si ha la possibilità di esperirla attraverso ogni modalità percettiva. Estremizzando i concetti dello yin e yang (anche evocati dal bicromatismo ampiamente utilizzato dall’artista), può essere un invito a guardare con maggiore attenzione ciò che ci circonda perché, nell’apparente ordine e perfezione c’è sempre disordine e imperfezione; perché nel mondo, nell’apparente pace, c’è sempre un conflitto. E ciò non dovrebbe cadere in una pigra e banale normalizzazione.













