
Apro con un disclaimer: ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi frutto della mia enorme ignoranza in storia in generale, e di quella greca in particolare, e quello che scrivo qui sotto è puro frutto della mia personale esperienza durante una breve vacanza in Grecia in agosto.
Atene in questi giorni brucia.
Sono stati appiccati incendi dolosi intorno all’aeroporto e oggi per strada nel quartiere di Exarcheia un uomo ci ha detto: Tourist? Go home!
Brutalizzata, impoverita, spelacchiata, come possiamo accettare che la cosiddetta culla della nostra cultura sia ridotta così?
Atene è – come il resto del mondo – coacervo di contraddizioni.
Turisti e gentrificatori arrivano in continuazione alla conquista, ma esattamente, di cosa?
Per quanto riguarda i gentrificatori la risposta è semplice: speculano. Ristrutturazioni che rendono invivibile la città per chi ci abita, sono milanese e conosco bene la situazione.
Torniamo ad Atene, cosa è rimasto della culla della nostra cultura?
L’Acropoli, l’agorà, il tempio di Efesto, l’arco di Adriano, per un’estensione che possiamo paragonare a quella di piazza Repubblica a Milano e poco più.
Architettonicamente parlando, in città si passa dal 400 avanti Cristo a qualcosa di vagamente ottocentesco, direttamente ai primi del ‘900. Solo le chiese ortodosse spesso accanto alla fermata dell’ autobus – luoghi dove la gente entra ancora oggi a baciare le icone – ci ricordano che nel ‘600 Bisanzio ha lasciato traccia da queste parti.
Varie e variamente distribuite sul suolo urbano, sono le zampate di brutalismo greco anni ‘70 ripreso dal museo dell’Acropoli di Tschumi per poi finire in un dorato qualunquismo bianco che si estende dal mare ai monti, un qualunquismo urbano cieco potremmo definirlo.
La cima della collina di Licabetto ci offre questo sfarzo bianco in abbondanza. Lassù andiamo a vedere – noi e i turisti, come se noi fossimo diversi dai turisti, un tramonto che infuoca il cielo e il quore di chi lo guarda, le prime luci che al crepuscolo tremolano e canyon scuri della città che improvviso appaiono, i grandi viali illuminati a tratti dai fari delle automobili e dei semafori, bellissimo.
Nel mezzo brilla l’acropoli, quasi violetta, la luce naturale non esiste, mi ha fatto notare un amico fotografo, et apres ça, le deluge.
Potremmo – felicemente – essere ovunque, tra cielo e terra, tra mare e monti.
Quello che unisce Atene, che troviamo dappertutto, in centro e fuori, in alto e in basso, sono i graffiti. Politici, colorati, disegnati, bruciati, nuovi e parecchio anziani, designano la città. Segni umani, molto umani, di un luogo che resiste attraverso la sua gente.

Parte seconda
Apro con una provocazione: la collezione di arti applicate del Castello Sforzesco di Milano – che tra l’altro ospita anche la Pietà Rondanini – pare più ricca di quella del Museo Archeologico di Atene.
E di quello dell’Acropoli.
La questione aperta non riguarda quello che c’è ad Atene, bensì quello che non c’è. L’arco di Adriano, qui, occhi italiani non lo notano affatto, tre finestre su di un arco spelacchiato e un ciuffetto d’erba indifferente che ci spunta sopra. Perché mai si dovrebbe venire ad Atene a vedere le rovine classiche?
Questa città, dal punto di vista museale, è in rovina, non scherziamo. Anzi, come europee ed europei urliamo, qui non c’è più niente, si sono portati via tutto.
Qui vorrei vedere i fregi del Partenone che stanno al British Museum, qui vorrei incontrare la Nike di Samotracia e la Venere di Milo. Dove sono tutti gli originali delle copie romane delle statue greche? E quelle a Vienna o al Met o al Getty Museum?
Vorrei qui i narratori che sanno vendere al meglio le storie di monumenti rubati e venduti a caro prezzo.

Atene è nuda.
Tutt’altro che nudità maestosa, con una mano Atene si copre le tette, con l’altra il pube, le chiappe al vento.
Restituite, restituiamo, quello che avete/abbiamo preso, ‘ste collezioni di serie C fanno male.
C’è una bellissima maschera, di un uomo che pare un sole accanto a quella di Agamennone, ma ne sappiamo poco niente.
Tra l’altro, esposte in teche vetuste all’entrata del museo, da guardare poi subito uscire.
Ma vale la pena di andare a vedere il ragazzo a cavallo, il fantino di Artemision, bronzo meraviglioso ritrovato in fondo al mare, come altri qui.
Sono affranta dal vuoto delle sale del Museo Archeologico Nazionale.
Al museo dell’Acropoli guide molto in gamba fanno i salti mortali per descrivere i quattro resti rimasti a bande afone di americani. Qui scopro che le cariatidi dell’Eretteo sono una copia e le mie figlie mi parlavano all’uopo del dilemma della Nave di Teseo: cosa stiamo guardando? Cosa resta del Partenone originale? Cos’è questa Acropoli esattamente?
Dilemma onesto.

Al museo dell’Acropoli almeno il display è contemporaneo, ci sono video che mostrano mani esperte ripulire dolcemente cocci e vasi con i cotton fioc e mostre d’arte contemporanea gratuite che mettono in discussione l’appropriazione indebita.
Ma i direttori dei musei greci cosa fanno? Sono persone greche? Cosa hanno studiato? Qual’è la loro agenda? E i direttori dei musei europei? Apriamo questioni politiche? Pensiamo dirottamenti, restituzioni?
Come mai me ne sono accorta solo adesso? A quale narrazione ho aderito finora? Dove è il mondo? Vogliamo riparlarne?
Ho già visto abbastanza, forse troppo nella vita o questo è uno scandalo?
Propendo per la seconda ipotesi perché sono tornata al Louvre per l’ennesima volta ed ero incantata dalla Nike di Samotracia e vorrei tornare ancora e ancora solo per quella.
Qui, invece, c’è troppo poco. I musei sono praticamente vuoti e il vuoto strilla. Urgono risposte, sono tutta orecchie.














