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Vittorio Cini. Il collezionista che attraversò il Novecento

Bernard Berenson e Vittorio Cini, Venezia. Fototeca della Fondazione Giorgio Cini Bernard Berenson e Vittorio Cini, Venezia. Fototeca della Fondazione Giorgio Cini
Bernard Berenson e Vittorio Cini, Venezia. Fototeca della Fondazione Giorgio Cini
Bernard Berenson e Vittorio Cini, Venezia. Fototeca della Fondazione Giorgio Cini
Chiunque frequenti il mondo dell’arte, è passato più volte per quei magici spazi sull’Isola di San Giorgio, a Venezia. Ma come nasce la Fondazione Cini?

All’ingresso della Fondazione Giorgio Cini, sull’isola di San Giorgio Maggiore, una frase accoglie i visitatori: “Se cerchi il monumento, guarda intorno a te”. Non un motto ornamentale, ma la chiave per leggere un’intera vita. Vittorio Cini (Ferrara, 1885 – Venezia, 1977) non ha lasciato statue o mausolei, ma un’istituzione viva, che ancora oggi produce cultura e custodisce memoria. La sua parabola biografica attraversa il secolo breve con tutte le sue contraddizioni: la finanza e l’industria, le tragedie della guerra, la bellezza delle arti, le ferite del destino.

Le origini: Ferrara e la passione precoce

Nato a Ferrara in una famiglia borghese, Cini mostra fin da ragazzo una mente pratica e visionaria. Lavora presto, segue le orme del padre, ma allo stesso tempo comincia ad accumulare libri, dipinti, arredi. Nel salotto di casa, tra mobili rinascimentali e tele di scuola emiliana, la passione collezionistica prende forma come un’urgenza intima, non come passatempo da ricco.

 

Palazzo Cini, interni, Fototeca Fondazione Giorgio Cini, courtesy Fondazione Giorgio Cini
Palazzo Cini, interni, Fototeca Fondazione Giorgio Cini, courtesy Fondazione Giorgio Cini

Un testimone ricordava come, ancora ventenne, Cini passasse ore a osservare la luce che cadeva su una tela appena acquistata, chiedendo agli amici di esprimere il loro giudizio: “Non cercava approvazione – raccontò anni dopo – cercava dialogo. Per lui l’arte era conversazione, non ornamento”.

Venezia, tra fabbriche e palazzi

Dopo la Prima guerra mondiale, Cini sceglie Venezia come città d’adozione. Lì diventa il regista della nascita di Porto Marghera, simbolo della modernizzazione lagunare. Una contraddizione apparente: mentre progetta banchine e cantieri, acquista palazzi sul Canal Grande e li riempie di quadri antichi, sculture e arazzi.

La sua casa veneziana diventa un crocevia di intellettuali e collezionisti. Bernard Berenson, il grande storico dell’arte, amava raccontare di una visita in cui Cini, mostrando un dipinto, si soffermò non sulla scuola pittorica, ma sul volto di un personaggio. “Guardalo bene”, disse, “è la malinconia di un secolo che non c’è più”. Un collezionista atipico, che non parlava di valori di mercato ma di emozioni e di sguardi.

 

Palazzo Cini, Pontormo, Doppio Ritratto, courtesy Fondazione Giorgio Cini
Palazzo Cini, Pontormo, Doppio Ritratto, courtesy Fondazione Giorgio Cini

Anche Nino Barbantini, custode di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, lo considerava un interlocutore privilegiato. “Aveva un occhio raro – scrisse – capace di riconoscere qualità dove altri vedevano solo ornamento”.

Ombre e tragedie del secolo breve

Il potere e la vicinanza al regime fascista segnarono inevitabilmente la sua parabola. Nel 1943, dopo l’armistizio, fu arrestato dai nazisti e deportato nel campo di Dachau. Ne uscì vivo solo grazie al coraggio della moglie, Lyda Borelli, la grande diva del cinema muto. Che non esitò a muovere contatti e fortune per ottenere la liberazione del marito.

Tornato in Italia, Cini fu un uomo diverso. Al pragmatismo dell’imprenditore si aggiunse la consapevolezza della fragilità umana. Un senso che si fece tragico nel 1949, quando il figlio primogenito Giorgio morì in un incidente aereo nei pressi di Cannes. “Quella morte lo spezzò – ricordò un amico – ma gli diede anche la forza di trasformare il dolore in opera”.

La nascita della Fondazione Giorgio Cini

Dal lutto nacque la Fondazione Giorgio Cini, inaugurata nel 1951. L’antico monastero benedettino di San Giorgio Maggiore, allora in rovina, fu restaurato e restituito a Venezia come cuore pulsante di cultura. Si racconta che Cini, visitando i cantieri del restauro, passasse le mani sui muri scrostati, dicendo agli architetti: “Non cancellate le ferite, trasformatele in memoria”.

 

Palazzo Cini, Salotto Buzzi, ph. Matteo De Fina, courtesy Fondazione Giorgio Cini
Palazzo Cini, Salotto Buzzi, ph. Matteo De Fina, courtesy Fondazione Giorgio Cini

Attorno alla Fondazione si raccolsero figure decisive: Amintore Fanfani come referente politico, Vittore Branca come mente scientifica, artisti e architetti capaci di unire tradizione e modernità. Lyda Borelli, sua moglie, collaborò alla nascita del Teatro Verde, un anfiteatro immerso nel verde dell’isola. Destinato a ospitare spettacoli e concerti in un contesto unico al mondo.

Il collezionista e la città

Negli anni Sessanta, Cini tornò a parlare pubblicamente di Venezia, criticando con forza progetti urbanistici che minacciavano di snaturarne l’identità. Nonostante fosse stato l’artefice di Porto Marghera, aveva ormai compreso che il valore della città lagunare non stava nelle fabbriche. Ma nella sua unicità storica e artistica.

Un aneddoto racconta che, durante una conferenza alla Fondazione, mostrò una veduta del Canaletto accostata a una fotografia di un ponte autostradale: “Se scegliete questo”, disse indicando il ponte, “perdete quello”. Era il collezionista, non più l’imprenditore, a prendere la parola.

 

Isola di San Giorgio Maggiore, il Chiostro Palladiano, ph. Matteo De Fina, courtesy Fondazione Giorgio Cini
Isola di San Giorgio Maggiore, il Chiostro Palladiano, ph. Matteo De Fina, courtesy Fondazione Giorgio Cini
L’ultimo sguardo

Vittorio Cini morì a Venezia nel 1977, a novantadue anni. Il suo funerale fu sobrio, quasi in contrasto con la grandezza della sua vita pubblica. Ma la sua eredità non aveva bisogno di cerimonie: era già lì, nell’isola di San Giorgio. Nei saloni della Fondazione, nelle biblioteche, nei restauri, nei progetti che ancora oggi animano la vita culturale internazionale.

Il suo monumento è un organismo vivo, che unisce industria e arte, dolore privato e memoria collettiva. La parabola di Cini continua a interrogarci: come può un uomo di potere trasformare la propria fortuna in un dono pubblico? La risposta sta proprio nella Fondazione che porta il nome del figlio perduto: un luogo dove il collezionismo si fa civiltà, e la memoria diventa futuro.

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