
Ci sono ancora artisti capaci di reinventare la pittura. Hernández la riscopre nella visione filtrata da acqua e vetro
“Guardando giù nell’acqua vide i fondi delle onde mentre passavano, verdi e pesanti, e la distorsione dei pesci quando si muovevano”. Queste parole di Ernest Hemingway, tratte dal libro postumo Islands in the Stream, riassumono con efficacia il legame con la figura del grande scrittore stretto dall’artista Diango Hernández. Una sintonia che trova qualche rispondenza fin da elementi biografici, che vedono Cuba diversamente iscritta nella storia dei due personaggi. Per Hemingway con il decennale soggiorno all’Avana, dove scrive uno dei suoi grandi capolavori: Per chi suona la campana (1940).
A Diango Hernández, uno degli artisti caraibici più significativi della sua generazione, Cuba ha dato invece i natali, nel 1970. Dopo gli studi in Industrial Design all’Havana Superior Institute of Design, nel 1994 fonda insieme ad altri giovani creativi il collettivo Ordo Amoris Cabinet. Un’esperienza di ricerca che si concentra sull’invenzione di oggetti domestici a partire da materiali di fortuna. Risposta alla cronica scarsità di beni nella Cuba degli anni Novanta. L’attività del gruppo, attivo fino al 2003, costituisce per Hernández un laboratorio fondamentale per sviluppare un linguaggio in cui il design, l’arte e la vita quotidiana si intrecciano strettamente.

Dal 2003 l’artista, rappresentato in Italia dalla Wizard Gallery di Milano, si è stabilito in Europa, a Düsseldorf, continuando a mantenere un legame vitale con L’Avana. Hernández lavora con linguaggi diversi, pittura, disegno, installazione, scultura, video. E ricorre spesso al riuso di oggetti e materiali comuni. Ha esposto in musei e istituzioni internazionali, tra cui Kunsthalle Basel, Museum für Gegenwartskunst di Siegen, Neuer Aachener Kunstverein, Museo Morsbroich di Leverkusen, e ha preso parte a importanti rassegne come la Biennale di Venezia (2005), la Biennale di San Paolo e la Biennale di Sydney (2006).

Movimento, nostalgia, transizione
Le citate parole di Hemingway tornano analizzando le opere degli ultimi anni di Hernández, per le quali ha coniato la definizione di Olaismo. “I fondi delle onde”, e “la distorsione dei pesci”. C’è un motivo che ritorna come una sorta di ritmo visivo e concettuale: l’onda. Questa figura, apparentemente semplice, diventa nelle sue mani un dispositivo complesso, capace di evocare movimento, nostalgia, transizione. Ma anche l’esperienza concreta e simbolica del mare. Il mare, da sempre, è allo stesso tempo limite e apertura, confine e promessa, luogo di perdita e di possibilità.
All’interno di questo universo si colloca quindi l’Olaismo, un ciclo che l’artista definisce come l’elaborazione di un “nuovo linguaggio” pittorico, costruito a partire dalla metafora stessa dell’onda. La genesi della serie è radicata in un’esperienza personale, quasi intima: Hernández osserva la realtà attraverso una vecchia porta a vetri nella sua casa di Düsseldorf. E da quella visione filtrata, distorta dal movimento della luce e del vetro, prende forma un’intera grammatica visiva.

Un mondo frammentato
L’onda diventa un segno che incarna il fluire e l’adattarsi, un gesto che racconta la tensione continua tra resistenza e trasformazione. Come l’acqua che si infrange sulla riva, ogni dipinto restituisce l’idea di un processo senza fine, in cui la materia si ricompone incessantemente, rinnovandosi. L’Olaismo non si limita quindi a un’estetica della distorsione, ma si configura come una metafora della condizione contemporanea. Un mondo frammentato, attraversato da crisi e mutamenti rapidi, che richiede di sapersi muovere tra rotture e continuità. In questo contesto, le onde di Hernández sono al tempo stesso fragili e potenti, effimere e persistenti. Capaci di suggerire una nuova forma di resistenza, non rigida ma flessibile, in grado di rigenerarsi.
In questa ricerca c’è un invito implicito allo spettatore: lasciarsi attraversare dall’immagine, accettarne l’instabilità e viverla come occasione di rinnovamento percettivo. L’arte, in questo senso, si propone come un’onda che investe la coscienza, spingendola a riconsiderare i propri confini e ad aprirsi a nuove possibilità. Olaismo diventa allora più di una serie pittorica: si trasforma in un atteggiamento, in una postura esistenziale che trova nell’immagine ondulatoria la propria metafora vitale.

Hemingway, presenza sfuggente
Fra le opere più recenti di Hernández, quelle “olaiste”, non sorprende quindi di trovare un omaggio a Hemingway. Nel ritratto dal titolo “Papa”, l’artista smonta la retorica dell’icona letteraria per restituire una figura attraversata dall’invisibile: fragilità psicologica, depressione, traumi di guerra. Il velo di vetro smerigliato – cifra dell’Olaismo – materializza questa opacità, trasformando il volto in una presenza sfuggente. Il ritratto non rappresenta ma testimonia: Hernández non fissa Hemingway in immagine, ma ne rievoca la condizione liminale per specchiarvi la propria.

Il dialogo che l’artista intesse con lo scrittore non è solo un omaggio, ma il riconoscimento di una condizione condivisa: quella di vivere sospesi tra luoghi, lingue e identità. Se Hemingway scelse l’Avana e l’Hotel Ambos Mundos come rifugio e crocevia della sua esistenza, Hernández vi riconosce il simbolo di una frattura che lo riguarda da vicino. Entrambi abitano “entrambi i mondi”: lo scrittore tra America ed Europa, tra guerra e letteratura, tra vita pubblica e tormento privato; l’artista tra Cuba ed Europa, tra l’esilio e la memoria. Papa diventa il punto di contatto tra due biografie parallele: il romanziere americano e l’artista cubano, entrambi sospesi in un’identità diasporica. Entrambi abitanti di mondi che non coincidono mai del tutto.














