Il 24 settembre Gianni Asdrubali ha inaugurato a Milano due mostre personali contemporanee da Artra e da A arte Invernizzi, una doppia antologica a cura di Lorenzo Madaro
Incontrare Gianni Asbrubali è sempre un piacere stimolante ma necessita ogni volta di una certa attenzione perché il suo lessico, sciolto e radicato che ben interpreta il contenuto delle parole, è accompagnato dall’energia, tonale e corporale, che lo contraddistingue.
Magro, media corporatura, occhi azzurri e vivaci, la sua gestualità corporale, supportata da un forte accento cadenzato, è caratterizzata da una vigorosa vitalità impulsiva. Al ristorante con lui non si passa inosservati… Ogni incontro è un’opportunità unica per esplorare da vicino il processo creativo, le motivazioni filosofiche e le riflessioni estetiche che guidano il suo lavoro. Non mancano mai i confronti, i riferimenti, le analisi sulla pittura astratta e all’arte contemporanea in generale.
Nella sua ricerca Asdrubali ha sempre inseguito una dimensione spaziale dentro le opere, un’interazione tra la pittura e l’ambiente circostante. Le conversazioni con lui rivelano una riflessione interessante sul metodo di fare arte, sul rapporto tra la tela e lo spazio, sul come la sua arte trascenda il quadro e diventi una relazione dinamica con l’ambiente e con l’osservatore. Non sempre è facile seguire il suo ragionamento anche per il modo, impetuoso e determinato, carnoso, con cui afferma le sue teorie concettuali, ma forse è solo uno schermo di una vibrante introspezione.
Vestito con indumenti casual, con i quali lo immagino anche lavorare in studio mentre si “accanisce” sulle tele, non ama frequentare i salotti, benché non disdegni o declini eventuali inviti, ma credo preferisca di gran lunga stare nel suo territorio, nella sua zona di conforto spirituale da dove può guardare, con opportuno distacco, le dinamiche, spesso logoranti quanto effimere, dell’arte contemporanea.
Ma chi è Gianni Asdrubali, questo pittore dal cognome così antico e altisonante? Nato a Tuscania nel 1955, Asdrubali muove i suoi primi passi artistici dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1978. La sua ricerca si svela con il ciclo “Muro Magico” del 1979, lavoro fondamentale che introduce il tema del vuoto come stimolo all’azione creativa, una tensione che dissolve la materia per generare lo spazio dell’opera.

Il muro è veramente la parete di un luogo esistente, un fabbricato abbandonato dove Gianni istintivamente, come a dar sfogo ad un impulso, si getta armato di pittura contro le pareti, fino a distruggerle, annientarle e quindi, a creare nuovo spazio, infinito, un oltre indefinito, un’ulteriore dimensione.
Questo concetto si traduce in un interesse profondo per uno “spazio frontale a-dimensionale”, dove la pittura non narra, ma sperimenta la fusione di opposti come pieno e vuoto, luce e oscurità, staticità e dinamismo.
Con l’azione del muro Asdrubali, scopre la sua frontiera, il suo paradigma, si accorge che può parlare, può camminare, è la sua prima volta, imprevedibile e dirompente eppure così spontanea e naturale, trova la nuova coscienza del vuoto. Ad ogni domanda Gianni risponde istintivamente, “lì per lì”, ed è così radicato in lui il pensiero che non ha bisogno di elaborare il discorso, risponde immediatamente di pancia, come avesse la pennellessa in mano con il colore colante pronto ad imbrattare una tela, con l’urgenza da appagare.
Lui stesso specifica che “è la tensione del vuoto che genera l’azione, è l’assenza che muove il pensiero. Quindi l’azione non è protagonista ma è una conseguenza del vuoto: il motore primario è ciò che manca.”
Ma se manca come può essere elemento primario?
È primario perché un essere umano agisce quando ha fame non quando ha mangiato, agisce quando gli manca qualcosa mica quando ce l’ha. Se hai un foglio bianco sei tentato di farci un segno, se il foglio invece è già pieno non sei stimolato a fare nessun intervento. In sintesi, la tensione che si origina all’inizio a fare un segno è provocata da ciò che non c’è. La mia pittura è un’altra pittura, non si sa che cosa è, non si spiega, il mio segno non è “positivo”, ha in sé una negazione, si origina da una assenza e mentre si dà, si annulla e fa lo spazio.
Per quanto riguarda Lucio Fontana, penso sia il mio maestro spirituale opposto. Perché opposto? Perché lui sfonda, io al contrario porto tutto davanti. Tendo a schiacciare tutte le dimensioni immaginarie nella frontalita’ della superficie, quindi una superficie profonda, la profondità è la superficie stessa che ,in quanto tale, non è piu una superficie ma un mondo. Vale a dire tutto l’immaginario che Fontana ha scatenato con il buco l’ho “portato” di qua sulla terra, l’oltre non è più “astratto” è reale. Per Fontana lo spazio è un fatto mentale, per me è mentale e Fisico contemporaneamente. Come avviene questo? Avviene che dentro il buco, nell’immaginario, in quello spazio mentale ci ho fatto esperienza, e lì c’è “niente”, e quindi, sono tornato di qua, sulla terra ma con una nuova coscienza del vuoto. E Tutto questo semplicemente perché vengo dopo.
Sei un artista che ha rivoluzionato la ricerca astratta concentrandosi sul vuoto come nucleo originario della tua opera, creando uno spazio frontale senza dimensione che fonde contrasti opposti in un’immagine dinamica e immediata, hai creato un nuovo modo di guardare la pittura?
Astrarre da ab-strarre, significa uscire dalla realtà, io ho fatto il contrario, ho dato corpo a ciò che non c’è, ho tentato di portare di qua, nella “frontalità” della superficie tutto l’oltre, tutto ciò che non è dicibile. Non parto dall’astrazione, non parto dagli stili, parto dal muro magico (1979), da una nuova coscienza del vuoto. È questa che ha scatenato in me un’azione che “sa” di non essere più protagonista ma strumentale alla tensione del vuoto che l’ha originata. Il risultato di questo paradosso, cioè di una azione che è allo stesso tempo un’anti-azione, è un ‘immagine frontale adimensionale di “qualcosa” che è ma non si spiega: che è, e non è, allo stesso tempo: questo è il “corpo”.
L’arte per me non è un lavoro ma una specie di missione e di resistenza che passa però attraverso il piacere, se non c’è piacere viene male. Se sei in contatto con il silenzio sei in contatto con la crescita.
Un lavoro ha necessità di tempi lunghi. L’astrazione di 20 anni fa è superata: segno, superficie, colore sono tutte cose passate, il mio lavoro è diverso, c’è un’altra partenza, è cambiato il paradigma, a partire da una nuova conoscenza del vuoto che gli artisti non potevano avere.
La realtà non è deterministica, ma curvilinea, quantica, olistica, cioè il mentale e il fisico sono insieme in un tutto, il tutto è già all’inizio, poi vengono le parti (di solito si pensa al contrario, che prima vengono le parti che formano il tutto). Nel mio caso si tratta di rendere reale tutto ciò che non è dicibile.
Come risponde la critica, come funziona il tuo mercato?
I critici pochissimi ma eccellenti, si tratta di individui (l’individuo, una razza in via d’estinzione), il mercato non lo capisco, non lo penso, poi fanno tutto gli altri, l’artista non c’entra nulla, dipende dalle condizioni. Ogni tanto qualcuno mi dice quanto costa, ma non so che dire, poi per me l’arte è gratis, nel senso che si dà per grazia, come il sole, l’universo etc., e la sua forza è quella di essere totalmente inutile e non rappresentativa, cioè voglio dire che non rappresenta il mondo, ma ne inventa un altro. L’artista per campare ha bisogno di soldi, certo, quindi dategli e basta che ha da fare “niente”.
Nel tuo lavoro teorizzi un’interazione tra spazio e osservatore, come queste relazioni influenzino il significato delle sue opere?
Dico che nel mio caso l’arte è filosofia ma è anche carne, cioè è un fatto fisico e mentale contemporaneamente. Ha a che fare con una idea iniziale dalla quale si esplicita tutto il resto a venire, per un artista la partenza è la cosa più importante. Inizia tutto da lì. E la mia idea iniziale è quella di aver avuto coscienza che l’azione umana non è protagonista ma è strumentale alla tensione del vuoto che la scatena. Quindi il vuoto, anzi l’assenza delle cose, è il motore principale, e l’azione è lo strumento che “serve” a dare corpo a questa assenza. Per questo motivo il mio gesto non è protagonista, cioè non è fine a sé stesso ma è in funzione di altro da sé. Serve a qualcosa, come un martello per piantare un chiodo. Ad esempio se invece un segno è protagonista, è “positivo”, è sopra una superficie, in questo caso la superficie è uno spazio da occupare. E un conto è occupare uno spazio, un conto è fare lo spazio. Per fare lo spazio invece un segno deve avere in sé una negazione, si deve annullare. Il mio segno non è “positivo”, ha in sé una negazione, si origina da una assenza e mentre si dà, si nega e fa lo spazio.
Ora fare uno spazio significa proprio questo: significa fare il “pieno” cioè fare carne, materia, energia, luce e tutte queste cose. L’energia che è “chiusa” nell’opera interagisce sull’ambiente e sullo spettatore, muove la stasi delle cose, le trascende, diventa altro. Qui non c’è nessuna comunicazione, ma emanazione d’energia. La prova del nove di questo che ho detto è mettere un’opera in una parete (o in un ambiente), se la parete rimane un contenitore con l’opera attaccata sopra si ha un’arte rappresentativa che occupa uno spazio, se invece fa diventare “pittura” tutta la parete, cioè se muove la stasi quotidiana senza uscire dalla “chiusura” stessa dell’opera, allora si ha un Entanglement, cioè un intreccio a distanza simultaneo delle informazioni dell’opera con quelle opposte e statiche della parete. Tutto diventa luce. Tutto ciò che è pesante vince la gravità, vola, trascende…
In contrasto con la “pittura immobile”, sovente destinata a fini decorativi, spesso monocromatica…
C’è sempre qualcosa che esce dal mainstream “artistico” ordinario, solo che oggi è difficilissimo trovare quelle mosche bianche che fanno la differenza. Fai conto che, se una volta c’erano 10 artisti che facevano la differenza, oggi ci sono sempre 10 artisti che fanno la differenza, solo che li devi scovare tra migliaia e migliaia di artisti. Oggi sono tutti artisti, dove ti giri sono artisti.
Ma a parte questo, quello che emerge da questo sistema dell’arte è che, da ormai un pò di decenni, l’arte è passata da “ricerca di verità ” (Flavio Caroli) a “messaggera”, cioè l’artista è diventato il postino dei nuovi mezzi di comunicazione (processo iniziato alla fine degli anni 70 con il postmoderno…). L’arte è diventata “comunicazione”, ha perso la sua originarietà (sempre a parte le mosche bianche che dicevo prima) e si è venduta, inconsapevolmente e per non sfinire, al consenso di questa nostra civiltà della tecnica. Ma a differenza di un sociologo, di un reporter, di un giornalista…, che usano la comunicazione come loro specifico, l’arte invece, non solo non ha nulla a che fare con la comunicazione, ma gli va contro, è sempre stata contro la comunicazione.
Un artista non comunica un bel niente, non è il suo lavoro, troppo facile. Il suo lavoro non è quello di “rappresentare” di comunicare il mondo, ma di “fare mondo”, di inventarne un altro di mondo, che è tutt’altra cosa. L’arte è contro (e non solo). Non serve a nessuno, e figurati se serve ai nuovi sistemi di produzione. Poi c’è l’aspetto “dell’effetto gigantesco”, dell’abbaglio accattivante e ingigantito. Spesso si vedono grandi installazioni ad effetto, tipo una montagna di rifiuti gettati falsamente a caso (ben messe) su uno spazio espositivo (site specific), con tutti i suoi “significati”, oppure enormi istallazioni sonore-scientifiche, sempre con i loro “significati”, con tanto di cartellino appiccicato al muro, che “spiega” l’indagine dell’artista su una certa realtà, etc. etc. Sono effetti speciali, durano giusto il tempo dell’apparire, poi niente. Finiscono nel nulla, perché a monte non c’è nessuno spostamento del paradigma. Qui l’artista è come un “riparatore della realtà”, cerca il difetto e lo ripara, come un idraulico con un tubo che perde acqua.
Credo che il futuro dell’arte dipenda sempre dal passato, cioè il futuro è già nel passato, e in questo sono sempre stato in sintonia con quei pensatori, da Benjamin, a Foucault, a Flaiano, ad Agamben che queste cose le hanno teorizzate prima di me.
“Il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell’evento del suo ritorno ” (Foucault). Appunto! E’ nuovo se ritorna, mica quando lo stai facendo. È questo il punto.
Che futuro per l’arte?
Il futuro dell’arte dipende nuovamente dal fatto che se degli “individui” che noi chiamiamo artisti sapranno ritrovare una nuova “semplicità” di senso, allora forse ci sarà una nuova meraviglia (che non ha nulla a che fare con l’effetto). Ma attenzione, una semplicità che non significa solo un azzeramento fine a se stesso, troppo facile, queste cose le hanno fatte decenni fa i Minimalisti. No, sto parlando di una semplicità complessa, di una “visione” non deterministica, dove all’inizio è già il tutto e non le parti, dove non ci sia solo la testa o il cuore, ma la loro unificazione. Dove una retta è pure una curva e una curva è pure dritta. Ma per questo ci vogliono “nuove armi” di senso, nuovi strumenti conoscitivi “che escano definitivamente dal novecento e dagli stili”, come disse anni fa Lorenzo Mango a proposito del mio lavoro.
Per quanto riguarda la pittura, anche se io uso la pittura, non ci ho mai pensato alla pittura. Non è il problema, come dissi 35 anni fa, il problema è scardinare un’immagine di senso del reale. Poi ognuno questo lo può fare con lo strumento che più le si addice, non è lo strumento in sé che risolve la “domanda”.
Ad esempio, nel mio caso, se mi veniva meglio usare il violino invece della pittura, avrei usato il violino. E poi ho notato che molti artisti che usano la pittura, quelli più mediocri, sono proprio quelli che parlano tanto “della pittura”. Io ho sempre detto che la pittura “inizia là dove io non dipingo”. Per un artista il problema è sempre filosofico.
La “vecchia scuola” (di pittura italiana astratta Sanfilippo, Turcato, Capogrossi, Vedova…) ha il merito di essere stata protagonista del proprio tempo, e però gli artisti che più di altri mi hanno dato quelle informazioni intellettive- filosofiche che ho estrapolato dalle loro opere, sono Yves Klein, per la sua ” immaterialità'” e soprattutto Lucio Fontana, per lo spazialismo, come dicevo prima.
Ora uno potrebbe dire, “ma tu usi il segno” che c’entra Klein o Fontana con il segno? È qui il punto, per me l’arte è “filosofia” e io uso lo strumento che più mi appartiene, cioè il segno, per raggiungere, per rendere sempre più chiara ed immediata, quell’idea iniziale che muove il mio lavoro. E la problematica di quest’idea la trovo più vicina, nelle opposte differenze, a questi artisti piuttosto che in altri che hanno usato lo stesso mio strumento di lavoro.
Sai dire quante opere fai in un anno?
A volte produco molto, a volte poco, a volte niente. Non c’è una regola, a volte sono a studio per ore e non faccio niente, contemplo. Non necessariamente le opere nascono a studio, anzi molto spesso le penso altrove, mentre sono in treno, o al bar, o dai gatti…, mi si chiariscono e aprono delle problematiche. Diciamo che a studio più che altro eseguo quello che ho intuito e chiarito mentalmente altrove. A studio è un lavoro più fisico, altrove più mentale, e queste due polarità si unificano in una unità, quella dell’opera.
La penso esattamente come il grandissimo Turcato (sottovalutatissimo) quando diceva “… a fare un quadro è facile, è a pensarlo che è difficile”.
Cataloghi le opere in un archivio ben tenuto?
L’archivio! Per me è un peso, un lavoro. Ho un amico che se ne occupa, si occupa lui di tutto, di catalogare, di fare etc.., a lui piace tanto.














