
Curata da Marco Goldin, la mostra di Villa Manin presenta da 130 opere provenienti da 42 musei e collezioni private di Europa e Stati Uniti
La mostra di Villa Manin, Esedra di levante, ideata e curata da Marco Goldin, presenta da 130 opere provenienti da 42 musei e collezioni private sia in Europa sia negli Stati Uniti. Ed è scandita in sedici sale, oltre ad una parte finale che chiama in causa alcuni artisti italiani che dalla seconda metà del Novecento hanno affrontato soggetti comuni ai pittori che animano la rassegna internazionale. Dall’omaggio a Giuseppe Zigaina a dieci anni dalla morte, agli autoritratti di Gianfranco Ferroni che risentono di Giacometti e Bacon. E quindi Papetti, Gianquinto, Polizzi, Massagrande, Nucci, Gotti, Guccione, Verna, Sarnari, Vignozzi, Dugo, Puglisi, Zuccaro, Olivieri.
Qual è l’intenzione su cui si regge il progetto espositivo? Indagare l’idea di confine allargandone l’ambito semantico. Declinato in tutte le sue potenzialità. Inteso non come barriera discriminante. Come un’auto chiusura escludente, un build the wall, costruire il muro, ma come possibilità di intraprendere un viaggio diverso, intrigante e per molti verso originale. Il confine allora come spazio illimitato che si sposta sempre più in là. Fino al suo annullamento.
Un confine che diventa esso stesso universo. Chiamando in causa artisti dell’Ottocento e del Novecento di forte richiamo per il grande pubblico: Courbet, Monet, Cézanne, Van Gogh, Bonnard, Giacometti, Bacon, Hopper, per citarne alcuni.

Il cuore della mostra
Ma quando deve precisare qual è il cuore della mostra non è a loro che Goldin fa riferimento. Come a dire, non c’è bisogno di citarli. Sono notissimi. Soni i miti della pittura dell’Ottocento e del Novecento. Indica invece due autori della pittura americana del XIX secolo che devono essere riscoperti. Il primo è Winslow Homer con Il vento occidentale del 1891, prestato per la prima volta in Europa. Un’opera dalla dinamicità segnica. Con questa figura di donna, sulle coste del Maine, che si affaccia sull’oceano come una farfalla che apre le ali. Un’immagine perfetta di un certo rapporto tra figura umana e infinito. Il passaggio sembra accennare al mondo che sta per disfarsi, ma senza tracce tragiche. Onde che si rompono contrapposte al terreno pettinato dal vento.
Il secondo è Andrew Wyeth con il suo Vento di Aprile del 1952. Superando gli stereotipi il personaggio è ripreso da dietro, il volto oscurato, le gambe troncate. L’artista si serve di una prospettiva insolita per il paesaggio circostante, aggiungendo ulteriore fascino al dipinto. La linea dell’orizzonte è precisa. Come se volesse dirci di una visione infinita o un altro mondo appena oltre la cima della collina. Un paesaggio che sembra in bilico tra due mondi: il palpabile e l’incorporeo. E come dice Goldin, ha saputo mettere in relazione lo spazio circoscritto che occupiamo… e l’immensità a cui possiamo guardare. E questo è senz’altro il tema profondo della mostra.

La sala introduttiva
Nella sala introduttiva della mostra si trova la grande tela di Anselm Kiefer, Märkische Heide del 1974. La brughiera tra la Spreewald e Berlino sud-orientale nel Margraviato di Brandeburgo. A simboleggiare un luogo intriso di storia con radici prussiane. In ultima analisi, l’infinito cosmico. L’opera è accostata alla pittura emotiva di Mark Rothko, No. 22 (Untitled) del 1961. Una sorta di infinito intimo che chiede di entrare nel nostro spazio.
La sezione dei confini interiori è sostenuta dagli autoritratti. Tra i quali quello di Gauguin a simboleggiare l’anima artistica. In quest’immagine, creata durante un breve ritorno a Parigi da Tahiti nel 1893, con i suoi colori dinamici i connessi alla cultura polinesiana, indossa i vestiti e i capelli lunghi di un contadino bretone anziché l’abito di un parigino. La sua mano indica una riproduzione di uno schizzo del pittore Eugène Delacroix che rappresenta Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso. Con questo gesto Gauguin allude alla sua compassione per la coppia sconvolta, dato era stato momentaneamente espulso dal paradiso che aveva scoperto a Tahiti.
Ci sono poi i volti dipinti da Giacometti, con la sua inafferrabile Testa nera che si posiziona ai limiti dell’immagine. Da Bacon che cerca la realtà nella contorsione inquietante del volto, e nelle pennellate che creano la forma e non la riempiono semplicemente. Da Modigliani con il bellissimo ritratto di Giovane donna e la sua tipica enfatizzazione che esaspera corporeità ed espressione, sprigionando emozionanti interiorità che accompagnano i visitatori verso il cuore della mostra appena accennata.

I confini naturali
Immergendosi ancora nel percorso espositivo la mostra lascia spazio ai confini naturali. Dalla montagna dove emerge Cézanne e la sua Montagne Sainte-Victoire del 1878/9, la passione nei suoi confronti si fa ossessiva, la forma piramidale è catturata da prospettive diverse; fino ad incarnare un valore sacrale, a sintetizzare la sua ansia d’assoluto, si arriva al mare con il giallo totalizzante e ammaliante Golfo di Saint-Tropez al tramonto, 1937, di Bonnard, e l’inquadratura ampia del paesaggio che altera la prospettiva scomponendo i diversi piani.
C’è poi il romanticismo di William Turner le cui stesure arrivano a sfiorare l’astrazione. E quindi Courbet con le sue tele che catturano le sabbie della Normandia, dipinte anche da Claude Monet. Senza escludere l’ultimo elemento, il cielo, che diventa soggetto autonomo a partire dal XIX secolo. Goldin ha inserito John Constable, coinvolgente il suo Paesaggio con nuvole, dal biancore latteo al grigio fumo, che sembrano danzare rincorrendosi nel cielo, Alfred Sisley, Camille Pissarro.

Figure nello spazio
Il curatore poi ha previsto un’area dedicata alla figure situate nello spazio. Si può accennare alla Villa sul mare, di Arnold Böcklin, del 1878. La sua atmosfera sospesa e la tonalità metallica che la caratterizza accentuano la visionarietà dell’immagine. Nel Mattina nel South Carolina del 1955 di Edward Hopper, una donna con le braccia incrociate, guarda lontano. Il paesaggio intorno a lei, vuoto, sembra incrementare la sua solitudine.
Un’aria ulteriore sposta il confine della pittura molto lontano. Il Paesaggio della Martinica del 1887 di Paul Gauguin ci introduce nella serenità di un ambiente ancora incontaminato. A proposito degli Ulivi di Vincent van Gogh del 1889 così scrive il pittore al fratello Theo: Se tu vedessi gli ulivi in questo periodo dell’anno… con il fogliame argento che inverdisce nel blu. E il terreno arato striato d’arancio. È qualcosa di completamente diverso da quello che ci immaginiamo noi al nord, c’è un che di così delicato,– di raffinato.
Si arriva così ad una quarantina di xilografie giapponesi, con i nomi più importanti dell’ukiyo-e, da Utamaro a Eisen, da Hokusai a Hiroshige. A partire dagli anni Sessanta del XIX secolo, subito dopo l’apertura del Giappone al mondo, la conoscenza dell’arte del Paese diventa fondamentale in Europa. L’aria finale della mostra, una sessantina le opere, è la sezione che connette montagna mare cielo, costituenti dell’universo, come confini dilatati. Area che si apre, con un paio di versioni delle montagne dipinte da Caspar David Friedrich. Una delle quali tuffata nella nebbia del mattino.













