
Sulla perfezione e l’impossibile, seguendo le tracce del “diario minino” di Umberto Eco, in versione minimal. Bentornati al “Sole allo Zenit“
Questa è una delle storie più incredibili che io abbia mai sentito. È quella di Roger Woodward un bambino di sette anni al tempo, che un sabato pomeriggio del 1960 fece un’escursione in barca con sua sorella Deanne, di 17 anni, e un amico di famiglia, James Honeycutt, quarantenne, sul fiume che porta alle cascate del Niagara. Nel bel mezzo della navigazione successe però l’impensabile: improvvisamente il motore della barca di Honeycutt si ruppe e l’imbarcazione fu trascinata verso le cascate. Honeycutt piombò giù e morì, Deanne fu salvata a pochi metri dal bordo e Roger, che indossava solo un giubbotto di salvataggio, cadde a picco e riemerse, e ad oggi risulta essere l’unica persona viva precipitata da quella cascata. Quando si riprese, con le idee rinfrescate, scrisse persino un libro che raccontava la vicenda. Nel 1972 il grande Bas Jan Ader, che scomparve nella traversata atlantica a soli 33 anni e che realizzò diverse opere memorabili ispirate alle cadute, fece un performance alla Art and Project Gallery di Amsterdam leggendo quel testo. Le fotografie di Bas che legge, seduto su un sedia con il libro in mano aperto, che accavalla le gambe cambiando di tanto in tanto la sovrastante, accanto al tavolo circolare e alla lampada da terra che gli illumina la vista, sono a loro volta divenute una bellissima pubblicazione che s’intitola “The Boy who fell over Niagara Falls”, e non c’è niente di più attinente al lavoro di Bas di quel salto incredibile compiuto da Woodward. Anch’io dunque salto su un altro argomento, descrivendovi queste settimane intense nelle quali ho giocato al telefono senza fili con mediatori presunti per un bellissimo quadro di Morandi, che alla fine hanno fatto il gioco delle tre carte e mi hanno portato a soprannominare il loro compratore con l’alias di Piet Mondrian: l’invisibile. Ho rincorso una coppia di collezionisti (al momento senza successo) per trovare una miglior locazione a un’incredibile installazione di Nam June Paik che meriterebbe un contesto super, e ho controllato una lunga lista di ephemera per Jonathan Monk che saranno presto in mostra allo Studio Tonini di Gussago.

Tra esse vi sono le Picture Post Card Posted From Post Box Pictured, che sono cartoline spedite dalla cassetta postale illustrata sul fronte della cartolina, l’Endless Search for Perfection, ovvero gli innumerevoli tentativi di Jonathan di piegare con le sue mani una gruccia metallica in una forma circolare così da ripetere la O di Giotto e raggiungere la perfezione, i vinili Grey/Gray che riproducono il suono della vernice nera che si mescola alla vernice bianca e viceversa.

E poi ancora la cartolina The distance between you and me con la stessa frase sovrapposta ma che per poco non combacia, lo skateboard di From A to B in Kabul con il pugno chiuso di Alighiero Boetti in San Bernardino, i Quattro Dettagli di un costume da bagno e tutto il resto.
Cos’altro è successo? Ho suggerito (o forse imposto?) a Olivia e Viola la lettura delle strisce di William B. Watterson II, detto Bill, che è con me da quando più di vent’anni fa entrai in una libreria polverosa del centro città specializzata in fumetti e gestita da un’anziana signora. Non essendoci anime vive ma solo disegnate, mi permisi di rubare tempo alla proprietaria e di chiederle un consiglio su un buon comic da leggere. La signora non ebbe esitazione e mi raccontò di come Bill Watterson avesse creato il fumetto più bello di sempre poiché riporta una fase della vita che i bambini moderni vivono sempre meno: quella in cui le storie s’inventano. Il protagonista delle sue strisce è infatti un bambino vivace che fa mille avventure con il suo tigrotto di peluche, che è un fantoccio quando lo guardano gli adulti ma si anima e prende vita quanto il bambino a lui si relaziona.

Loro sono Calvin and Hobbes e il geniale creatore li ha fatti vivere solo per dieci anni, dal 1985 al 1995, per poi ritirarsi, senza mai concedersi al merchandising o a strampalate trovate pubblicitarie, vivendo in disparte e senza più rilasciare interviste. Alcune strisce sono geniali e divertentissime, come l’immagine di Calvin in attesa di partire per una gita che dice “è un peccato rovinare questa bellissima mattina stando svegli” o “hai mai pensato che la persona nella pozzanghera possa essere vera e tu semplicemente il suo riflesso?” e via di seguito.

Ho anche avuto l’immenso piacere di ammirare in una privatissima collezione un’opera di Luigi Ghirri molto importante: l’Atlante. Risale al 1973, anno cruciale per Ghirri perché smette di lavorare come geometra e inizia ad essere un fotografo professionista, e questo ciclo analizza il tema del viaggio a lui caro compiuto fotografando il suo atlante di scuola. L’ambizione è quella di riprodurre il mondo intero ma di renderlo con i codici che l’uomo ha creato per tentare di capirlo. A metà tra il simbolismo e un immobile viaggio, colorato, reinventato, tra l’oceano e il deserto, la savana e la pianura, l’equatore e il mare… e pensare che ne esistono solo due versioni: una di 41 esemplari, che fu esposta otto anni fa al Museo Maxxi di Roma, l’altra con 50 fotografie, vintage, stupende, assolutamente da vedere, che è quella che mi si è palesata in quella casa. E l’ho apprezzata a tal punto da sentirmi come il Caravaggio di fronte alla Santa Margherita del Carracci, che come una lettera dell’epoca testimonia: “ci moriva sopra nel riguardarla”.


Infine in queste settimane mi sono tolto il punteruolo dal taschino (sapevate che Lucio Fontana ne aveva sempre uno?) e ho colpito inserendo in una collezione una delle mie migliori opere di sempre, non tanto per il valore, quanto per il prestigio: un piccolo olio di un Maestro americano che non vi dico ma che proveniva da Carlo Cardazzo addirittura che, per chi fa il mio mestiere, era un’illuminata guida. Per festeggiare, e per assonanza, ho riletto Thomas Bernhard, che è l’autore di quel flusso di coscienza che s’intitola Antichi Maestri: ambientato nella Sala Bordone del Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove il musicologo Reger, un personaggio ossessivo e scontroso, siede da trent’anni sulla stessa panca, di fronte al Ritratto d’uomo barbuto del Tintoretto. Un romanzo strano, che è poi la constatazione, scritta molto bene, che ogni tentativo umano di raggiungere la perfezione risulta inutile. Una scrittura che torna su se stessa, insiste e ribadisce, decisamente da conoscere. Quando sono a Vienna non manco mai di passare dal Café Bräunerhof, di cui era cliente abituale Bernhard, che si trova nel cuore del quartiere dell’antiquariato del centro storico, tra la Hofburg e il Graben. Anche il Café stesso è imperdibile, e se siete fortunati potrete assistere al Bräunerhoftrio (violino, violoncello, pianoforte) suonare potpourris di Franz Lehár, Emmerich Kálmán, Robert Stolz e Strauss, la domenica pomeriggio, nei mesi più freschi dell’anno.
Nicola Mafessoni è gallerista, curatore, scrittore e amante di libri scritti bene. IG: nicolamafessoni














