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Il "gheto de Venexia"

Riflessione al vetriolo
Con la crisi economica-finanziaria che non è solo tale, ma pure -o anzi- soprattutto culturale, una strana nuvola di bile nera sembra diffondere negli animi sentimenti centrifughi tendenti alla disgregazione, come se certezze e postulati culturali cominciassero a franare e colonne lontane l’una dall’altra iniziassero a sbriciolarsi diffondendo un sinistro rumore di fondo.Come in un film di Alain Resnais, destini apparentemente distinti e lontani si ritrovano uniti da un sottile e invisibile filo che li lega in un’unica e fortuita trama, così voci apparentemente cacofoniche, appartenenti al mondo culturale e non, si levano creando un sound di fondo indistinto che potrebbe celare un ordine musicale unitario, ancorché casuale.Dalla bella intervista rilasciata dal maestro Maurizio Pollini a Giuseppina Manin per il Corriere della Sera dell’ottobre scorso, commentata qualche giorno dopo da Fabio Vitta su Il Riformista, circa i rapporti tra musica di avanguardia, pittura astratto-contemporanea e fruizione, tra preziosa ricerca intellettuale e stratificazione popolare, all’infuocata polemica -di cui già ci siamo occupati in questa rubrica- tra il ministro Sandro Bondi e il professor Salvatore Settisculminata, come noto, con le dimissioni di quest’ultimo.Dalle recenti dichiarazioni di “King George” Armani : «I negozi stanno incassando dal 25 al 40 per cento meno o stanno chiudendo, come del resto tante fabbriche… è ora di tornare al rigore nei confronti del consumatore, di riempire le boutiques solo con vestiti che si vendono… abbiamo dato fiato a cose che non hanno senso, fondazioni, eventoni, cultura senza considerare che da noi vogliono solo i vestiti», alla fresca notizia della precipitosa chiusura di uno dei templi della nuova trendyssima gastronomia, così cara agli art-victims, il Fat Duck di Heston Blumenthal nel Barkshire imposta, dalla crisi economica forse, sicuramente dopo un imbarazzante susseguirsi di casi di intossicazione alimentare ai danni dei propri clienti, a quali venivano propinati improbabili portate tipo fois gras alla benzaldeide, mousse al nitro-green tea o toast al muschio di quercia e tartufo.

Last but not least la gazzarra che sta montando intorno alla Biennale, tra i suoi curatori ed il mileau.

Cosa hanno in comune queste cacofonie, che musica ci restituiscono queste voci dissonanti? Semplificando brutalmente mi pare si possa dire, per quel che concerne l’economia, che la ricreazione è finita, tutti a testa bassa nel proprio core-business, basta scempiaggini, si badi al prodotto e al fruitore e che Dio ce la mandi buona. Per quanto riguarda la cultura -quella visiva nello specifico- a meno che non si voglia auto-condannare al ruolo di verruca sulla pelle del mondo, ma intenda intercettare gli umori profondi che agitano gli umani, ebbene anche per lei il campanello di fine break è suonato -e pure da mo’- e sarebbe ora di voltare pagina.

Per questo pensiamo alla Biennale come un’occasione mancata, un guerra già persa prima ancora di dare inizio alla battaglia. Bisogna ammettere, a denti stretti ma bisogna farlo, che Francesco Bonami nel suo j’accuse su Il Riformista del 24 febbraio, seguito da replica di alcuni degli interessati su Libero di mercoledì 25, solleva argomenti che un qualche fondamento ce l’hanno.

La cosa sconcertante, e non si capisce se è frutto di arroganza, italica cialtroneria, interessato cinismo, imperdonabile ingenuità o un frullato di tutto ciò, è che quella che doveva essere l’occasione per mostrare altre storie rispetto all’imperante retorica del contemporary –e perché no, avviare il riscatto del made in italy– si sta rivelando una débacle per l’insipienza dei responsabili.

Al di là del valore degli artisti invitati, circa i quali si possono nutrire le più disparate opinioni, ma appunto opinioni e quindi più o meno difendibili, il vero imperdonabile errore di B&B è di aver ignorato le più elementari leggi della comunicazione e della contestualizzazione, imprescindibili per chiunque voglia addentrarsi in quel nido di crotali che è la lobby dell’international style.

E’ di incredibile rozzezza pensare che sia sufficiente presentare una lista di artisti in un contesto internazionale per immaginare il loro sdoganamento culturale. Ci vuole ben altro per perseguire un disegno culturale così ambizioso oppure, come più probabile in questo caso, non averne nessuno. Sta di fatto che così si condanna l’italico padiglione ad essere il “gheto de Venexia”.

E’ come essere ai Grammy Award e comportarsi come fosse il Festival di Sanremo con un logorroico Bonolis che stordisce l’attonito ospite straniero con battute parodiate da Totò che il poveretto non può comprendere ma se ne frega, tanto è strapagato, come del resto se ne fotte Bonolis che tanto mica si rivolge a lui ma all’italico pubblico televisivo.

Ma in questo caso chi si rivolge a chi? Ha ragione, purtroppo, Bonami a dire che Il Padiglione italiano è così declassato a parete del proprio salotto di casa e, aggiungo, pure con sottofondo musicale di Apicella. Ed ha ancora ragione nel riportare il pessimo sound negativo di tutto il milieau -di quello che conta- nei confronti della mostra il che non sarebbe necessariamente terribile, ma lo diventa nel momento in cui conferma, e lo dico con amarezza, i nostri già manifestati timori e vale a dire: Aooh, “ si stava meglio quando si stava peggio”, A ridatece i puzzoni!

P.S.

Collaudi 1909-2009 omaggio a Filippo Tommaso Marinetti , questo il titolo della mostra al Padiglione Italiano della prossima Biennale. Ma chi diavolo l’ha deciso, e che attinenza ha con gli artisti invitati? Oltretutto rivela una sconcertante confusione mentale: come si fa ad immaginare un riscatto del concetto di bellezza e di tradizioni della pittura cercando appoggio su un movimento che è uno dei padri dell’avanguardismo azzeratore? Mah!…

in punta di pennino il Vostro LdR

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