Al Lu.C.C.A. (Lucca Center of Contemporary Art), fino al 26 gennaio sono esposte le opere di Alfredo Rapetti Mogol. Pittore non meno che paroliere – seppur più noto per quest’ultima attività, nella quale ha seguito con grande successo le orme del padre – Rapetti, con “Re-writing lives” compie in un certo senso un’operazione di sintesi tra le forme espressive che gli sono proprie. E dipinge parole, che si lasciano leggere mentre un’appropriata colonna sonora integra l’esperienza visiva, fatte di un linguaggio “inesistente”. Ma non diremmo “inventato”: piuttosto, di un linguaggio archetipico, simbolico, tracciato invece che scritto.
Siamo andati a trovarlo sul posto. Per porgli alcune domande che potessero dirci di più in merito a questo codice espressivo decisamente interessante ed assolutamente personale, e per farci guidare tra le opere nel modo migliore possibile.
Alfredo Rapetti Mogol: La mostra è basata sul segno come forma del pensiero e come impronta della nostra traccia sulla Terra. Come gli animali lasciano le impronte, noi lasciamo la scrittura; quindi, attraverso la scrittura cerco di rappresentare i molteplici stati d’animo dell’essere umano. Si tratta di una scrittura dipinta, che perde volutamente il significato letterale poiché in esso ritrovo personalmente due inconvenienti: innanzitutto, per mia indole non voglio mai dare indicazioni definite su quelle che io possa ritenere essere le risposte alle questioni della vita, mentre credo sia ottimo che chi osserva dei simboli possa leggerne quello che vuole. Inoltre, se io usassi sempre l’italiano creerei una barriera linguistica – e quindi culturale – e, poniamo, un russo non potrebbe comunque capire cosa volessi intendere. Operando così, invece, tra noi può frapporsi soltanto una barriera di sensibilità; per cui chi dovesse avere una sensibilità affine alla mia può leggere i miei quadri. In questa mostra c’è molto delle mie ultime produzioni, le scritture sono declinate in tutti i materiali, dagli acetati, dall’inchiostro, dalle carte, dalle tele, dai cementi, dai legni, dalle coperte militari.
Ma quindi queste parole cosa sono?
Dipende da come le declini. In alcuni casi è come fossero delle lettere, delle affermazioni, dei testamenti; in altri, come nella mia sala dei Cieli, è come fossero dei nomi di persone a me conosciute che poi si sono allontanate, oppure di persone care che non ci sono più, che sono mancate, o di persone che incontrerò un giorno, di angeli custodi…
E di che lingua si tratta?
Di fatto è una lingua universale, per me, una lingua di sentimenti.
Quindi si tratta di segni e non di vere e proprie parole?
Esattamente. Potremmo dire che siano “forme di parole”: la forma del pensiero è di fatto Parola, da sempre. Veniva tracciato sulla roccia prima ancora che esistesse un linguaggio orale compiuto. In seguito, poi, il segno e il simbolo hanno affiancato il linguaggio comune per comunicare tra iniziati, e trattare di argomenti più profondi. D’altronde la scrittura era ritenuta una sorta di tramite tra gli dèi e la Terra. E il mio lavoro in effetti è basato sulla spiritualità.
E poi, il segno – nel senso del tratto, del risultato dell’atto dello scrivere – è qualcosa che si utilizza sempre meno. Il polso fa male, il computer rende tutto più rapido. Invece il tratto e il segno sono estremamente rivelatori: rendono una rappresentazione del nostro stato d’animo e della nostra personalità che prescinde del tutto dal contenuto di ciò che è scritto, come peraltro ben approfondito dalla grafologia. Quindi, in un’era sempre più legata alla tastiera, cerco di compiere un lavoro di rilettura e di approfondimento sul segno come rappresentazione della persona. È un recupero della memoria, della storia, della storia di tutti noi e delle origini, ma al contempo futuribile, perché non c’è temporalità in queste scritture.
A proposito di parole, dato che sei anche un paroliere, vorrei chiederti che differenza ci sia nel lasciare un segno con la tua parola su tela e farlo invece in un contesto musicale.
Da una parte abbiamo una parola dipinta che perde il significato letterale e da la possibilità, come la musica, di essere interpretata da tutti. Dall’altra parte abbiamo invece una parola che nella musica ha bisogno di una leggibilità immediata, automatica e quindi una parola che esprime in modo preciso una sensazione. Sono perciò di fatto l’una agli antipodi dell’altra, ma al contempo ognuna è contenuta nell’altra. E per me è molto importante poterle declinare in entrambi i modi: da una parte arrivare in modo immediato, e dall’altra avere la necessità che il fruitore si metta in ascolto.
Ma non credi si possa avere una libera interpretazione anche ascoltando il testo di una canzone?
Diciamo che ognuno può adattare il contesto al proprio vissuto, però di fatto il senso è quello. Nelle parole dipinte, invece, seppur ovviamente possano esserci alcuni segni, colori o forme che richiamino facilmente una sensazione comune a più persone, alla fine ognuno vede cose davvero diverse. E in molti casi, quando mi si raccontano queste visioni personali, io capisco delle cose di me che non mi erano chiare prima.
Qual è la forma creativa in cui ti senti più a tuo agio? Su Wikipedia sei definito paroliere e pittore. Ma se dovessi per forza sceglierne una?
Eh no, non potrei… Capisco che tu non intenda questo, ma vedi, c’è un problema, tutto italiano, un po’ provinciale e basato su un preconcetto. Ovvero, che se fai due cose decisamente diverse in campo artistico, una delle due la devi fare da dilettante. Non è necessariamente così. Io cerco di impegnarmi allo stesso modo nel fare entrambe le cose. E utilizzo due nomi diversi: lo pseudonimo Cheope come paroliere, e Alfredo Rapetti Mogol – che è il mio nome reale, “Mogol” è stato acquisito e figura sui documenti – nella pittura. Si tratta quindi di due entità separate, anche se entrambe sono me. Sarebbe molto difficile rinunciare a una delle due cose a discapito dell’altra, ne soffrirebbe anche l’altra, anche quella salvata.
Poi è chiaro che ci sono delle differenze: quello del paroliere è un lavoro più collettivo, si lavora col compositore, coi musicisti, col cantante… mentre nella pittura si è i soli responsabili di tutto, nel bene e nel male. Inoltre, la scrittura è senz’altro terapeutica, ma non liberatoria, dato che io non canto. La gestualità della pittura mi concede invece la liberazione.
A proposito di origini, hai padre e nonno paterno autori di testi, e il nonno materno che lavorava in un contesto artistico…
Sì, lui era presidente delle Arti Grafiche a Milano e ha sempre lavorato facendo i cataloghi di arte. E anche mia madre dipingeva.
E tu ti sei preso tutto?
Sì, non mi sono fatto mancare niente. Ma è venuto tutto naturalmente. Ho cominciato a fare il pittore, poi ho cominciato a scrivere e a pubblicare nel 1983… ormai sono trent’anni, all’inizio mi sono impegnato molto con la scrittura, cosa che bisogna sempre fare in una prima fase per cercare di darsi un’identità e avere una credibilità. In seguito mi sono trovato ad avere molto tempo libero, a poter scegliere, e allora è ritornato fuori prepotentemente il me stesso pittore. In quella fase ho cominciato a lavorare sul linguaggio, mentre in precedenza dipingevo di tutto.
E invece la parte legata alla musica come l’hai vissuta da ragazzino?
Certo non troppo facilmente, perché sai, misurarsi con le leggende non è possibile. Fortunatamente, però, alla fine non mi ci sono misurato, ma inconsciamente ed incoscientemente mi sono buttato. E fortunatamente ho fatto un mio percorso, che mi ha portato anche oltre quello che immaginavo… Dal Grammy a molte altre cose che non avrei mai pensato nella vita. Ho avuto tantissimo dalla musica. Ma anche nella pittura ho grandissime soddisfazioni e gratificazioni.
A proposito di musica, e tornando a questa mostra, la “colonna sonora” presente è fondamentale o lo spettatore potrebbe essere di fronte a una tua opera e vivere una sensazione, un’emozione?
L’opera, dal mio punto di vista, deve assolutamente riuscire a trasmettere senza ausilio di cose supplementari, senza spiegazioni né supporti. Deve avere una forza primigenia, su questo non c’è dubbio. Questa è la prima volta che faccio un esperimento con la musica: ho lavorato per un anno con questi ragazzi diplomati al Conservatorio di Milano e a quello di Roma. Innanzitutto mi faceva piacere dargli visibilità in un’esposizione così importante; però ho posto una condizione, ovvero quella di fare qualcosa che aiutasse realmente ad amplificare la percezione del lavoro. E devo dire che alla fine ce l’abbiamo fatta, stando a quanto mi è stato riferito da tante persone e anche a quanto ho osservato io stesso.
Il discorso non vale solo per la musica: quello che stai sentendo in questa sala è un Padre Nostro in sanscrito. Un mantra che viene ripetuto, che amplifica questa scrittura. Anche la scrittura comincia a parlare, la vedi in un altro modo: si comincia in qualche modo a muovere, ed è molto forte, molto ipnotica. C’è una parte di assoluto respiro, rilassamento e anche trasmigrazione verso l’alto, quasi levitazione in questa sala; è una sala ipnotica.