Venezia. Dalla nostra corrispondente Anna Orlando
Ok gli occhi. La vista. Ma gli altri quattro sensi? Non ci sta gridando da anni l’arte contemporanea, a iniziare dalle avanguardie di primo Novecento, che la sua proposta è in realtà un’esperienza totale? Che richiama quindi in causa tatto, gusto, olfatto e forse prima di tutto udito.
Lo ricorda con decisione e autorevolezza Germano Celant nella mostra “Art or Sound”, inaugurata il 4 giugno 2014 in un frastuono piacevolissimo di amici più o meno variopinti della Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina affacciata sul Canal Grande. Tra loro Rem Koolhaas, direttore della Biennale Architettura, Okwui Enwezor, direttore della Biennale Arte 2015, Chris Dercon, direttore di Tate Modern, Philip Rylands, direttore della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. E poi architetti, artisti, galleristi.
Da sabato 7 giugno anche gli altri potranno vedere, fino al 3 novembre, la nuova proposta espositiva dello storico dell’arte che dalla sua Genova natale sta viaggiando da anni sulle rotte ambiziose del prestigio internazionale. E’ anch’essa, in sé, molto ambiziosa ma di un’efficacia capace di metter da parte qualsiasi critica che solitamente il nome Celant è capace di catalizzare su di sé. Guardare per credere.
O meglio: ascoltare, con orecchi e occhi, la strepitosa sequenza di opere che sui due piani nobili del palazzo veneziano la Fondazione Prada si è assicurata con prestiti da tutto il mondo, che datano dall’inizio del XVI secolo fino a oggi. Ma non interessa qui parlare d’arte rinascimentale o di Barocco, né di Futurismo o Pop Art. Queste categorie, a cui uno storico dell’arte sarà istintivamente portato a ricondurre tutto ciò che vede, paiono accantonate volutamente dal curatore. Non certo perché Celant rinneghi il proprio mestiere, ma perché intuisce, anzi, che oggi anche questo deve cambiare. Inseguire il ritmo incalzante del tempo, che corre da un bel po’ sui canali della multimedialità, e quindi sia una voce capace di sintonizzarsi sulle esigenze di un pubblico diverso. Sbottonare i musei, svecchiarli per dirla più chiaramente; o ancora, trasformarsi da “territori clinici, asettici, sterili” come scrive Celant stesso per diventare luoghi di esperienze.
Ecco affastellati strumenti d’epoca o più recenti, ma anche manufatti che trasformano gli strumenti in opere d’arte con significati ulteriori; sono dipinti o disegni, sculture o strappi di affreschi che parlano di musica, o anche solo di ritmo, e dunque di suono.
Tutto colpisce. Dal cornetto tenore a forma di serpente con testa di drago del XVII secolo, alla spinetta napoletana di fine Seicento. E poi automi, scatole musicali, orologi a cucu, juke box. Molte le opere d’arte in senso più stretto: una simpatico automa di Maurizio Cattelan, un inquietante assemblaggio di armi sequestrate dalla polizia messicana di Pedro Rejez, un pianoforte soggetto alle distruzioni di Arman, proposte acustiche di Laurie Anderson, bizzarre sculture di Dennis Oppenheim, un “Senza titolo da inventare sul posto” di Jannis Kounellis, spartiti di John Cage. E così via.
E mentre le campane di San Stae, fuori dalle grandi finestre, suonavano all’impazzata alla sette di sera, entro quelle mura secolari, sotto i soffitti affrescati e stuccati, gli ospiti potevano ammirare e ascoltare, ma anche interagire con i manufatti, per un divertimento colto e stimolante. Perché “Art or Sound”, un vero baccano che appaga e diverte, stimola collegamenti, riflessioni, domande, è una sfida che va vissuta.