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Al Padiglione Italia torna di scena l’arte impegnata, hard, più parole che fatti, più fumo che arrosto. E l’unica cornice che vedremo è quella degli studi anarco-collettivisti

Padiglione Italia
Gioni e Alemani
Non ci permetteremmo mai e poi mai di criticare le scelte di Cecilia Alemani, curator designato per il Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2017, nonché moglie di Massimiliano Gioni curator della Biennale 2013 e di altra mostra sempre in Biennale nel 2003, entrambi felicemente emigrati di successo a New York, capitale dell’art system, e dunque cervelli in fuga giustamente da richiamare in patria almeno per qualche curatela lagunare…
 
… non ci permetteremo mai neppure di mettere in dubbio le linee guide che hanno ispirato le scelte di tre artisti (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) le cui opere e linguaggi “sono globali ma intimamente legati alla cultura del nostro Paese“…
 
… e neppure l’idea che la Alemani abbia “scelto di invitare un numero ridotto di artisti rispetto al passato per allineare il Padiglione Italia agli altri padiglioni nazionali presenti in Biennale“, non capendo bene che benefici possano derivare da tale “allineamento“…
 
… e neanche per carità puntualizzare per quale motivo con questo progetto la Alemani non cerchi di rappresentare uno sguardo completo su tutta l’arte italiana“…
nonostante i 3 artisti scelti siano intimamente legati alla cultura del nostro Paese piuttosto  guardare in profondità al lavoro di tre artisti – voci originali che si sono distinte e imposte negli ultimi anni – dando loro spazio, tempo e risorse per presentare un grande progetto ambizioso che costituisca un’occasione imperdibile nella loro carriera e che possa presentare al pubblico un’opportunità di immergersi nella mente e nel mondo degli artisti” ben sapendo – lo ammettiamo – che molti visitatori vorranno immergersi fino al collo nella mente degli artisti...
 
…e neanche – Dio ce ne scampi – di obiettare alcunché circa le giuste speranze della Alemani che “questo Padiglione possa proporre un’immagine dell’Italia attuale e cosmopolita, non più vista solo attraverso la lente nostalgica delle generazioni precedenti, ma che guardi al futuro con entusiasmo e con la capacità critica di confrontarsi con nuovi linguaggi e con le esperienze di altre nazioni” pure noi lo speriamo che siamo oltremodo cosmopoliti venendo da Busto Arsizio, la città natale di Gioni, di suo marito, cioè del curatore della Biennale 2013, e che quando arriviamo a Chiasso già ci sentiamo all’estero…
 
… ma pur non volendo neppure per un attimo dubitare, bensì come adepti fedeli solo partecipare al rito, essendo ignoranti, modesti giornalisti, e dovendo cercare qualcosa da scrivere della brava Adelita Husni-Bey (italo libanese, classe 1985 e residente a New York) che peraltro ha un curriculum di tutto rispetto, le cose giuste al posto giusto, che fa arte fortemente impegnata, a sfondo politico-sociale, di denuncia, di rifiuto del sistema – così almeno dicono gli esperti – che si occupa di “relazioni di potere tra caste in una societa di tipo contemporaneo” e non certo di una società di tipo antico, arcaico che – lo sappiamo – sarebbe scontato…
 
Adelita Husni-Bey
… che comunque in occasione della recente mostra al Maxxi di Roma, per la cura del cinese Hou Hanru, ha presentato un video “protagonisti, alcuni studenti del Liceo Manara della capitale. Gli alunni, divisi in cinque categorie (giornalisti, politici, lavoratori, attivisti e banchieri), si sono calati ciascuno nel loro ruolo riflettendo, in conseguenza delle scelte fatte, sulle dinamiche di potere nella società odierna. La simulazione è stata preceduta da alcuni incontri con opinion leader dei vari settori, affinché gli studenti potessero avere una migliore percezione delle categorie scelte. Un progetto che rientra nel percorso di analisi di Adelita sulla rappresentazione delle ideologie egemoniche nelle società occidentali“… e non, cara grazia, nelle società islamiche, cinesi, indiane, chessò del terzo mondo…
 
…o che in altre opere e occasioni dopo “aver sondato la relazione tra storia e biografia personale, indaga  questioni relative al potere, alla gerarchia, all’emancipazione e al ruolo dell’educazione nella crescita dell’individuo. L’artista utilizza come strumenti espressivi il disegno, l’installazione, il video e la performance e organizza situazioni articolate e complesse con il coinvolgimento diretto di numerosi protagonisti“…
 
…opere, disegni, video, performance “la cui pratica coinvolge l’analisi e la contro-rappresentazione delle ideologie egemoniche nelle società occidentali. Alcuni suoi recenti progetti hanno cercato di portare alla luce e di ripensare i modelli di pedagogia radicale all’interno della cornice degli studi anarco-collettivisti“, noi che peraltro AMIAMO le contro-rappresentazione delle ideologie egemoniche nelle società occidentali e siamo stati allevati a suon di busse con la pedagogia radicale
 
…e che ha esposto a “Playing Truant, Gasworks, 2012, The Green Mountain, ViaFarini/DOCVA, 2010
 
…e che ha pertecipato “a Jens, Hordeland Kunstsenter, 2013, Meeting Points 7, MuKHa, Antwerp, 2013, 0 Degree Performance, Moscow Biennial 2013, What is an Institution? Beirut Season 4, Cairo, 2013, Mental Furniture Industry, Flattime House, London, 2013, TRACK, S.M.A.K museum, 2012, Right to Refusal, 2012, Bregenz Kunstverein, The Sea is my Land, Maxxi Museum, 2013tutte cose e luoghi e manifestazione di cui colpevolmente ignoravamo l’esistenza
 
…e che recentemente “ha completato il Whitney Independent Study Program a New York e ha lavorato con una scuola italiana per incoraggiare una comprensione critica della crisi economica da parte di studenti delle superiori“… e ne avessimo come lei, altro che Padoan e Renzi…
 
…e che comunque stiamo per capire che da “queste premesse prende vita il  lavoro della giovane artista italo-libica, Adelita Husni-Bey, da sempre interessata a tematiche quali l’autonomia, le micro-utopie, la memoria collettiva, oltre alla pedagogia anarchica e le free school. Idee forti, in linea con molte problematiche odierne, sviluppate con cura attraverso l’uso di diversi media“…

… e che lei stessa ci svela a proposito di suoi precedenti lavori che “la formazione è il momento cruciale, entro il quale si possono immaginare “alternative sociali”. Tramite la residenza offertami dal premio, ho cominciato un lungo periodo di ricerca sulla pedagogia radicale e mi sono concentrata su istituti pubblici che praticano l’autogestione. Questa, insegnata sin dalle elementari, responsabilizza l’alunno, mettendolo nella condizione di potersi formare criticamente nei confronti della società nella quale vive” e noi non sappiamo autogestirci manco i calzini

… e che il suo film I want the Sun I want, un piano sequenza di 9 minuti, “è stato girato alla Saint-Merri Renard, mentre l’audio è composto da stralci di conversazioni avvenute all’interno del Lycée Autogéré de Paris dove avevo invitato alunni e professori a confrontarsi sulle definizioni di parole quali “stato”, “utopia”, “istituzione”, “scuola”. Il dialogo è stato acceso ma mai compromesso da un senso di autorità da parte dei professori: modalità di dialogo che dovrebbero farci riflettere” un dialogo che noi stessi mai vorremmo in alcun modo compromettere

…e che  l’installazione Postcards from the Desert Island è nata, invece, dall’esperienza di workshop con gli alunni dell’École Vitruve: “ho chiesto a un gruppo di alunni tra i 7 e i 10 anni di questa scuola elementare pubblica e autogestita di costruire un “mondo”. Mi sono chiesta se con un’educazione alla cooperazione, alla non-competitività, alla responsabilità, come quella dell’École Vitruve… I bambini hanno costruito tutto: dalle piante ai fiori, agli animali, per poi arrivare alle case e infine alle domande cruciali: come gestire le risorse? Come punire e se punire chi sbagliava? Come rapportarsi collettivamente alle prese di potere? Posso solo dire che, nelle tre settimane di workshop, la profondità degli argomenti trattati dai bambini non ha fatto altro che porre domande spiazzanti per gli adulti.“…

…e pur sapendo, non avendo mai costruito un mondo, da apostati adulti e spiazzati che l’arte contemporanea è tante cose che non si capiscono, dove la sociologia prevale sull’estetica, la politica sulla tecnica, il brutto sul bello, le parole sulle opere…

…ci chiediamo comunque ma non era meglio un quadro? Non bastava un quadro, uno di quelli che ti appendi in casa e sei felice, lo guardi e basta, piuttosto che questo profluvio di  parole?

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