Su le gonne, gambe al vento, tacchi all’aria. Scalciano le donnine stilizzate di Lautrec a colpi di can can e calze nere. Volano le ballerine di Montmartre sulle arie decadenti di una Parigi fin de siècle punteggiata di fiori del male. Calci in faccia alle bombette benpensanti, viscide a mirar le vesti svolazzanti. Su i veli licenziosi delle fille della Ville, a nudo le ipocrisie velate della società francese. Sbattute in faccia da un paio di gambe, fragili e sincere. Mestamente aperte, in ogni accezione. Spalancate a un perbenismo fatto ad occhiello e cilindro su corpo di lardo. Sullo sfondo girato. In frac, gilet e doppio petto. Di profilo, di schiena. Che aspetta trepidante il proprio turno, mustacchio imperiale tra le dita. Il depravato teatro della modernità: un circolo di tristezze camuffate sotto i lustrini, ritratto da Lautrec. Il genio deforme de la Butte prende a schiaffi le silhoutte aristocratiche del tempo. Schiaccia l’immagine sul piano eliminando l’ordine prospettico. Con un segno crudo e nervoso ritrae desolazioni e divertimenti del piccolo bourgeois. Una traccia che ha la rapidità e l’autenticità dello scatto fotografico, “taglio” prediletto dove far combinare colori piatti e squillanti. Uno stile sintetico per imprigionare nella bidimensione la frenesia fuggevole e ipocrita dell’epoca. Per cogliere verità e illusione dell’istante. Grafismo satirico per una tagliente ironia smascheratrice. Feroce. Deformante, caricaturale. Quel “genio” (nano, deforme e defecante per strada e per spiaggia, finto strabico, finto morto, travestito da pierrot… e comunque -e anche per questo- un fottuto genio) è il contessino Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901) da Albì, in Occitania. Altezza: 1 metro e 50, origini nobili fin dai tempi delle crociate, noto alcolizzato e assiduo frequentatore di bordelli. Maestri: Degas e Daumier. Disegnava e dipingeva in maniera sublime sublimando le sue passioni. Annegava le sue sfighe nell’alcol e nelle donne. Un modo piacevole di suicido, citando gli amici del tempo. Morì a 37 anni di sifilide. “Nano singolare, perduto nella fantasia multicolore di una serata parigina, di una serata di piacere degli anni Ottanta, è uno dei più stupefacenti analisti del secolo, uno dei più virulenti poeti della femminilità moderna“, così lo storico Focillon scrisse di Henri de Tolouse-Lautrec. Monogramma: HTC, incastrato, incrociato e incorniciato nel cerchio. Marchiato a fuoco sulle sue opere. Affiches su tutte, che lo hanno reso celebre, ma non solo. Dipinti, litografie e acqueforti. Duecento opere per la precisione quelle che hanno oltrepassato l’Alpe direzione Milano, fino al prossimo 18 febbraio. Inverno nel segno (violento) di Lautrec, del suo mondo fuggevole popolato di bordelli e folies bohemien. Palazzo Reale si fa Lumiere, di una luce fioca delle prime lampade elettriche. Quella che bagna i manifesti d’autore tra lampioni e bambù in stile giapponese. Pubblicità ante litteram divenute oggetto di culto riprodotte ovunque: Divan Japonais, Moulin Rouge: Bal Tous les soirs, Aristide Bruant all’Ambassadeurs, La Gitane de Richepin. Scorcio, deformazione, sintesi. Non finito. Linea rapida e tagliente. Contorno violento fregandosene delle caramellate atmosfere impressioniste appena trascorse. La pastosa joie de vivre en plein air lascia il posto alle miserie delle maison closes. La vita è nei bordelli, non nei campi di grano.
Tutte le foto sono di Giulia Manfieri ©
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