Nel Principe Libero di Facchini manca il poeta De Andrè.
C’è chi ricorda Fabrizio De Andrè come “il cantautore degli emarginati” o il “poeta degli sconfitti”, i suoi estimatori di lui hanno ammirato il coraggio morale e la coerenza artistica con cui, nella società italiana del dopoguerra, scelse di sottolineare i tratti nobili e universali dei derelitti, affrancandoli dal “ghetto” degli indesiderabili.
Con un credo tutto suo è stato capace attraverso la sua musica e le sue parole di mettere a confronto la dolorosa realtà dei meno fortunati con la cattiva coscienza dei loro accusatori.
La sua era una religiosità particolare che lo faceva sentire parte di un tutto, “l’anello di una catena che comprende tutto il creato e quindi rispetta tutti gli elementi, piante e minerali compresi” come si definiva lui stesso.
Fabrizio o Faber, come lo aveva soprannominato l’amico Paolo Villaggio, con riferimento alla sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell, oltre all’assonanza col suo nome, era indubbiamente una persona speciale, unica e difficile da catalogare e tantomeno da “trascrivere”.
Tuto ciò per arrivare a dire che l’impresa del regista Luca Facchini, che attraverso il film per RAI 1 ha voluto riportare sullo schermo il grande artista genovese, era indubbiamente tanto azzardata quanto titanica.
Nell’attesa dell’uscita, molti si sono chiesti come sarebbe stato il giovane attore romano Luca Marinelli nei panni del cantautore affascinante e tormentato, e quando finalmente il film è uscito si è potuto apprezzare che Marinelli ha scelto l’unica strada possibile per un attore degno, e cioè una personale visione del personaggio.
E fino a qui non c’è nulla da obiettare , ma la grossa pecca del Principe libero (questo il titolo del film) è che nelle tre ore della sua durata non tiene il tempo, e soprattutto non mette a fuoco quello che andava messo a fuoco di questo personaggio-chiave per la storia della musica italiana, quello che Fernanda Pivano definiva come “la voce di Dio”.
Poca la poesia e ancor meno la sacralità, che erano in Fabrizio, malgrado tutti i conflitti e le contraddizioni dentro di lui.
>> Gli sceneggiatori Giordano Meacci e Francesca Serafini si sono dati più da fare nell’esplorare le vicende personali del cantautore senza raccontare la parte crativa dell’artista inserita in un contesto storico ben preciso.
Eppure le canzoni di Faber procedono di pari passo con le sue idee politiche, con l’abilità di non far avvertire mai questo al pubblico. Anche Genova si vede, certo, ma poco e quel poco non è attinente alla realtà: vicoli deserti, come vuota la spiaggia di Boccadasse.
Luoghi che sia negli anni’60 che oggi pullulano di gente che li vive a pieno. Così anche se Marinelli e Fantastichini cadono più volte in un leggero accento romano è sicuramente il problema minore.
La scelta registica di incentrarsi sui rapporti con la prima moglie Puni e poi sulla storia con Dori Ghezzi non eleva il racconto su un piano più ampio, come quello dell’amore, risolutivo e fondamentale in tutta la poetica di De André. Un vero peccato.Il film ci presenta un artista irrequieto alla perenne ricerca della libertà privata e professionale, non tenendo però conto della complessità intellettuale che era in Fabrizio. Nessuna attinenza alla realtà nei suoi rapporti con la famiglia e con il figlio Cristiano. Tra i due esisteva un rapporto difficile, conflittuale, assolutamente travagliato. “Lui era un uomo fragile, saliva sul palco con la bottiglia di Glen Grant e ti coinvolgeva nel suo dolore fino a farti piangere – raccontò il figlio in un’intervista. “Se mi vuoi bene piangi” dicono le parole di una sua canzone, questo era il suo modo di sentire che era corrisposto. Tutti quelli che lo hanno amato sanno che vuol dire.
Questo era Fabrizio De Andrè, quello che evidentemente non è stato raccontato, o non si è voluto raccontare. Il figlio era contrario a quest’operazione, una scelta complessa, veicolata purtroppo attraverso l’usuale canone televisivo italiano, che purtroppo ha finito per inserirsi immediatamente nelle dinamiche, formali del piccolo schermo. Forse Cristiano De Andrè aveva visto lontano.
Mi meraviglio che un sito culturale come il vostro dedichi tante parole a una operazione che proprio da un punto di vista artistico è da definire Kitsch come avviene, sempre nella decaduta Rai con trasmissioni come “tali e quali” ecc.. Tanto più, questa volta dedicata a un autore raffinato come Deandrè.