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Intervista a Marco Petrus

Marco Petrus è nato a Rimini nel 1960, vive e lavora a Milano. Il suo esordio artistico è datato 1991 a cui fa seguito la personale al Centro San Fedele di Milano nel 1993. Nello stesso anno è tra i vincitori del Premio San Carlo Borromeo e tra quelli del XX Premio Sulmona. Nel 1995 Rossana Bossaglia lo invita a partecipare alla collettiva Cento artisti per la città, al Museo della Permanente di Milano. Nel 1997 è tra i premiati della II edizione del Premio Morlotti e al XXXVII Premio Suzzara.
Alla fine degli anni Novanta è tra i quattro protagonisti dell’Officina Milanese, gruppo formatosi intorno al critico Alessandro Riva, insieme a Giovanni Frangi, Luca Pignatelli e Velasco. Nel 2000 i paesaggi urbani di Petrus partecipano alla mostra Sui Generis, al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, a cura di Alessandro Riva. Lo stesso Riva curerà anche la personale al Palazzo delle Stelline nel 2003, evento in cui è presentata la monografia di Electa, che raccoglie la sua produzione dal 1996 al 2002. Nell’ottobre 2005, in concomitanza con le celebrazioni del Columbus Day a New York, il Comune di Milano gli commissiona il progetto Milano upsidedown, un percorso di quadri in diverse location newyorkesi dal Rockefeller Centre all’Istituto Italiano di Cultura. Nel 2007 partecipa alla collettiva Italiana presso la sede dello Shanghai Art Museum e alla mostra The New Italian Art Scene al Taipei Fine Arts Museum. Nel mese di aprile presenta il suo nuovo ciclo di lavori: ARCHITETTONICA a Como presso l’ex-Chiesa di San Francesco.

 

– Come vedi il panorama dell’arte contemporanea oggi in Italia?
Non sono un opinionista. Preferisco parlare dei miei quadri.

– Come ti sembra il circuito dell’arte contemporanea internazionale?
Sono più di cinque anni che non metto piede ad una fiera. Sono concentrato sul mio lavoro e preferisco viaggiare alla ricerca di nuovi soggetti. Preferisco parlare dei miei quadri.

– Quali sono le tecniche e i materiali con cui ti esprimi meglio?
I primi lavori risentivano della mia formazione da incisore. Erano molto disegnati e lavorati con una tecnica mista: olio molto diluito e sovrapposizioni di segni, texture più o meno fitte. Poi passando all’olio su tela ho eliminato gradualmente il segno fino ad arrivare a campiture piatte, distinguendo così le due tecniche. I soggetti dei miei disegni sono gli stessi delle tele ad olio, ma non per questo li considero alla stregua di semplici bozzetti o disegni preparatori. Il disegno è per me un linguaggio fine a se stesso, non è mai la fase di preparazione o lo schizzo di un’opera. Per me un disegno ha la stessa importanza di un olio, non è inferiore, è semplicemente un altro linguaggio con il quale mi esprimo ovviamente in modo diverso. I miei veri bozzetti sono le fotografie, i miei schizzi e disegni preparatori sono gli scatti che ‘rubo’ in giro per le città. C’è poi l’acquerello, tecnica che per le sue peculiarità mi porta a lavorare più sulle trasparenze e velature. Il primo ciclo di acquerelli l’ho realizzato nel 2003 in occasione della mostra London Suspended a Londra, mi era stato chiesto espressamente di realizzare dei lavori di ridotte dimensioni che si adattassero agli spazi della Galleria Behan, parte di quei lavori sono rimasti chiusi in un cassetto per qualche anno. L’occasione per ritirarli fuori è stata la mostra alla Libreria degli Atellani a Milano nel 2006, ed è servita da stimolo per riprendere la tecnica e realizzare una nuova serie che sarà presentata a Como in aprile.

– Hai iniziato la tua indagine sull’architettura urbana ritraendo la città di Milano, una Milano industriale, dalle geometrie rigorose. La Milano dei primi grattacieli, fatta di architetture che nascevano caratterizzate dall’idea di progresso. – Cosa ne pensi dei nuovi progetti architettonici che sono stati portati a termine in questi ultimi anni a Milano e quelli in cantiere?
Alla fine degli anni Ottanta ho frequentato l’ambiente della facoltà di Architettura di Milano, in quell’ambito si parlava, si discuteva molto dei ‘vuoti industriali’. Chiudevano le ultime fabbriche, iniziava a sorgere il problema di come riutilizzare gli edifici dismessi. Allora c’era questa curiosità per l’archeologia industriale, che aveva un suo fascino certo e che indubbiamente mi ha segnato.
Oggi penso che ogni generazione debba potersi esprimere, anche attraverso l’architettura. Soprattutto in architettura. Se abbiamo delle città così disastrate, è proprio perché negli anni passati non hanno avuto una crescita organica. Non sono contrario al fatto che si intervenga con nuovi progetti. L’Architettura però è complessa, non è solo la progettazione del singolo edificio, coinvolge l’intero tessuto urbano preesistente. In realtà mi lascia un po’ perplesso tutto il mondo dell’Architettura contemporanea. Almeno per come procede e si muove. Edifici progettati e pensati per altri luoghi e scartati ai concorsi internazionali vengono riproposti in aree differenti per un altro contesto urbano. Questo mi pare un modo abbastanza rischioso di fare architettura. Non sono per una globalizzazione del panorama delle città. E’ vero che in passato piani regolatori molto invasivi ci hanno poi lasciato opere come la Ca’ Brüta di Giovanni Muzio ma lo scotto pagato e stato molto pesante: all’epoca da via dei Giardini fino alla zona dell’attuale Stazione Centrale era un susseguirsi di parchi e giardini; oggi Milano ha un rapporto verde/costruito tra i più bassi d’Europa.
Non amo molto avventurarmi in questi discorsi. Sono dibattiti troppo ampi per essere sintetizzati in poche battute. Poi entrerebbero in ballo tutti i fattori di politica e di mercato. Non posso negare però di temere un certo conformismo dilagante e l’imposizione di un gusto globalizzato. Il gusto è imposto in architettura così come nelle arti figurative. Basta sfogliare una rivista di settore, per capire cosa sia stato deciso che ti debba piacere.

– Oltre a Milano, grande fonte di ispirazione, tu hai ‘ritratto’ i panorami urbani di molte altre città. Come ti avvicini alla ‘fisionomia’ di una nuova città? Che tipo di rapporto istauri col soggetto? Quali le caratteristiche che ti spingono ad indagare un’architettura più di un’altra?
Le prime opere sono nate dai miei itinerari quotidiani. Fissavo quello che mi colpiva, in seguito c’è stata una ricerca storico-architettonica, che consisteva nell’andare a vedere dove a Milano c’era un certo tipo di architettura che mi interessava.
Il mestiere dell’artista è una scelta di vita, questo credo valga per la maggioranza dei pittori, nel senso che una volta intrapreso questo percorso si è sempre pittore, in ogni momento della tua vita, anche fuori dagli spazi di uno studio. Io lavoro sempre, non solo quando faccio materialmente il quadro.
Con il mio lavoro realizzo un sogno: ho la grande opportunità di viaggiare e conoscere nuove città, parto sempre con l’idea che dai miei safari fotografici riesca a trovare nuovo materiale di lavoro. Ovviamente ho il mio gusto personale che mi porta a cercare un certo tipo di architettura. Per esempio a Praga sono andato alla ricerca di architetture anni Trenta. Onestamente il mio modo di viaggiare è piuttosto semplice: mi documento con qualche guida e costruisco un itinerario e poi dalle foto scattate rielaboro e seleziono due o tre edifici a viaggio, diciamo che porto a casa due o tre ‘prede’ a trasferta!
Un atteggiamento che ho sempre avuto verso le città in cui ho esposto è quello di dedicare una parte della mostra alla città che mi ospita, così è stato per Bolzano e Monza, così sarà per la mostra di Como. E’ un modo per ampliare le mie conoscenze, per viaggiare e conoscere meglio le città. Una volta decisa la sede di una mostra faccio dei sopraluoghi, per questo motivo dico che dipingere è una scelta di vita, non si scinde il lavoro dalla vita di tutti i giorni.
Il ciclo sulla città di Brescia, per esempio, è nato proprio per una mostra che poi non si è fatta, ma è rimasto il lavoro e io Brescia ora la conosco bene, per me Brescia è sintetizzata in quel ciclo di opere (Torre, 2000).

– Da dove nasce la scelta stilistica di concentrarsi esclusivamente sulle architetture, sulla geometria degli edifici, in un continuo togliere ogni elemento umano?
Per me l’architettura è un pretesto. Nel mio lavoro non ho un approccio da sociologo o da architetto, che studiano i rapporti tra uomo e ambiente o che guardano l’evolversi della città nelle sue trasformazioni.
Per me l’architettura è un modo per ricercare composizioni di rapporti volumetrici tra pieni e vuoti. Pieni e vuoti che poi quando arrivano sul quadro diventano pittura, si tramutano in pura composizione. La pittura è astratta, anche quella ‘apparentemente’ figurativa. Per me ogni quadro è frutto di astrazione.
Nel mio lavoro non c’è l’intenzione di riprodurre la realtà, non mi interessa essere fedele al reale. Ciò che mi preme è l’impatto dell’immagine, poi c’è la ritualità dell’esecuzione, una religiosità del fare pittura.

– Come scegli le inquadrature e gli scorci delle tue opere? Sono forse uno dei mezzi che usi per avvicinarti ad una sorta di astrazione geometrica?
Nel 2000 inizio a soffermarmi di più sul dettaglio e a inquadrare gli edifici usando scorci dal basso.
La scelta degli scorci nasce dall’esigenza di ripulire maggiormente la visione. Volendo ritrarre l’immagine di una città mi sono trovato di fronte a una scena visivamente inquinata, quindi diventava problematico ricostruire i particolari architettonici dell’insieme.
La visione di scorcio la trovo più realistica. Non capisco per quale motivo la veduta dovrebbe essere meno artefatta? La veduta non è certo il paesaggio che vedi normalmente camminando per la città, non è un punto di vista naturale. E’ un punto di vista convenzionale. Lo so che può sembrare paradossale ma la visione distorta e scorciata dal basso è quella a mio parere più naturale. Nella mia esperienza personale e quotidiana in giro per la città, dal sellino della mia bicicletta o sporgendomi dal finestrino di una autovettura, se alzo lo sguardo io le case le vedo così. La scelta della visione di scorcio è avvenuta un po’ gradualmente, è stato un percorso dalla veduta al particolare, ho notato che spostando la visuale su alcuni particolari e ridisegnando l’inquadratura ottenevo un effetto che migliorava la dinamicità del quadro.

– I critici hanno paragonato i tuoi dipinti alle vedute industriali di Mario Sironi e alle atmosfere di attesa di Giorgio De Chirico ma hanno citato anche Kazimir Maliévich e Piet Mondrian, cosa ne pensi?
I critici vedono ognuno quello che vogliono. Gli accostamenti, i paragoni e i riferimenti son sempre personali, di chi li fa. Mi piace questa molteplicità di spunti ma io non sento di aver mai avuto la drammaticità di Sironi. Le mie opere esprimono invece un maggiore distacco. Un mio dipinto della Ca’ Brüta richiama le atmosfere di Giorgio De Chirico? Mah? Per me non c’è nessun enigma ma ognuno è libero di dare la propria lettura dell’opera e di interpretarlo come meglio crede. E poi comunque Sironi e De Chirico sono assai diversi tra loro. Io mi ritrovo di più nei critici che citano pittori astratti come Maliévich e Mondrian. Per esempio uno dei miei primi quadri, datato 1995, è l’emblema di quanto la mia pittura sia lontana da paragoni sironiani. Il dipinto si intitola Garage Marziano, al centro della composizione c’è un elemento fortemente geometrico che esula da tutto il resto. Se io avessi isolato quel particolare lì, se mi fossi addentrato nell’analisi di quel particolare allora forse si sarebbe capita la volontà di voler mettere in evidenza la geometria. Qui però il particolare è ancora inserito nell’insieme. E’ difficile identificare un percorso creativo che procede in modo lineare, non so bene quale sia la strada che sto seguendo, forse tra dieci anni riuscirò ad identificare gli scarti laterali che mi han portato a cambiare e i ritorni che ci sono stati nel mio dipingere.

– I cicli Azione del 2002 e gli Upside down del 2003 hanno degli elementi compositivi assai peculiari, come sono nati?
Durante la lavorazione della monografia del 2003 ho iniziato il ciclo degli Upside down (poi aggiunti all’ultimo in copertina). E’ un lavoro nato per caso, dalla quotidianità dei miei gesti. Penso che i migliori lavori nascano da fortunate ‘casualità’ così per gli Upside down il fatto di continuare a ruotare la tela, per facilitarmi nella stesura del colore, mi ha portato a constatare come capovolto il quadro funzionasse ugualmente. A queste riflessioni si è aggiunta la commissione di un quadro per un soffitto, questo vincolo mi ha portato a sdoppiare l’immagine aumentando così l’effetto vertigine. Da questo primo lavoro ho preso atto di come la cosa funzionasse anche a parete ed è partito il ciclo degli Upside down.
Dicevo che mentre lavoravo alla monografia è uscita l’idea del lavoro degli Upside down, sai a volte arrivi a un punto in cui pensi: <Ecco fin ora ho lavorato così>. Poi ti fermi e ti rendi conto che stai già lavorando a qualcosa d’altro. Così sono arrivate le composizioni intitolate “Azione”. E’ un ciclo di dipinti nato dall’apatia dei soliti lavori, avevo bisogno di rielaborare tutto quello che avevo fatto sino ad allora, avevo bisogno di ‘mixarlo’ e se vuoi anche in parte di rivalutarlo. A un certo punto mi sono accorto che stavo facendo la toponomastica di Milano, da qui è nato un rifiuto e un ripensamento sul modo in cui stavo procedendo. Ero alla perenne ricerca di architetture, mi mancava materiale, così ho fatto di necessità virtù: ho composto tutte le architetture che avevo fotografato (una selezione) ho affiancato i ritagli delle sagome di ogni edificio così da vedere se ci fosse una nuova strada, poi ho provato anche la strada dei particolari delle case. Diciamo che era un modo per vedere se potevo ampliare la mia ricerca estetica. Fin dove ci si può spingere? Chissà? Dopo questa fase di caos ho sentito la necessità di fare qualcosa di più ordinato ed ecco: Città italiana (2002) che è sempre un paesaggio immaginario ma meno affollato, un villaggio medievale dai colori terra, che però è composto da architetture anni Trenta, dai caratteri architettonici visibilmente italiani.

– Nelle tue composizioni architettoniche il colore che fa da sfondo agli edifici come viene scelto? Ad esempio in queste tre tele, qui nel tuo studio, hanno tutte come soggetto la Casa del Fascio di Terragni a Como, lo sfondo viene però declinato in giallo, azzurro e ocra scuro, perché?
Il problema della scelta del colore per lo sfondo, per il ‘cielo’ nasce dal fatto che io dipingo immagini figurative ma tendo all’astratto. In generale il cielo azzurro funziona quasi sempre, è l’idealizzazione del cielo reale. Nei miei quadri per dare maggior risalto alla zona del cielo scelgo dei colori che mi permettano di dare una presenza fisica significativa alla tessera che risulta dall’affiancarsi degli edifici. Il colore mi permette di isolare e meglio identificare la tessera compositiva. Le mie composizioni più riuscite son quelle in cui anche la tessera di cielo assume una sua valenza autonoma e indipendente dagli edifici, quasi come in una composizione astratta. Il colore è gran parte della composizione, entra in rapporto con gli altri elementi quindi il colore non è mai neutro.

– Vuoi darci qualche anticipazione sulla tua prossima mostra?
La personale nell’ex-chiesa di San Francesco a Como sarà una mostra che raccoglie tante città.
Ci sarà un omaggio alla Como di Terragni, a me molto cara, ho dipinto la Casa del Fascio e il complesso della Novocomum. Quest’ultimo tipo di architettura mi ha riportato alla memoria certe architetture costruttiviste di Mosca è per questo che l’ho affiancato ai club operai degli architetti Jlyce Aleksandrovic Golosov e Kostantin Stepanovic Mel’nikov. In mostra ci saranno poi diverse altre città tra cui New York, Praga e Shanghai, una delle città che ho visitato di recente. Oltre ai dipinti ad olio l’esposizione accoglierà, come ricordavo prima, una serie di acquerelli.

 

Esposizioni principali (selezione)

1991 Galleria NOA, Milano (personale)
1991 VI Biennale della xilografia contemporanea, Carpi (MO)
1993 Centro San Fedele, Milano (personale)
1994 VII Triennale dell’Incisione, Palazzo della Permanente, Milano
1995 Cento artisti per la città, Palazzo della Permanente, Milano
1995 Interpretations Urbaines, Musée de Pully, Pully – Losanna
1995 Venature, AEG Künstlerforderung, Berlino
1997 Frangi, Petrus, Pignatelli, Velasco. Esterno città, Galleria Appiani Arte Trentadue, Milano
1999 Petrus 1999, Galleria dell’Antologia, Monza
1999 Le carte dell’Officina milanese, Galleria Appiani Arte Trentadue, Milano
1999 Sulla pittura. Artisti italiani sotto i 40 anni, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Conegliano,(TV)
2000 Sui generis, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
2000 Verdeocra, Galleria Les Chances de l’Art, Bolzano (personale)
2001 Omaggio a Moretti, Ordine degli Architetti, Milano (personale)
2002 Marco Petrus, Galleria Nuova Artesegno, Udine (personale)
2003 London suspended, Barbara Behan Gallery, Londra (personale)
2003 Upside down, Palazzo delle Stelline, Milano (personale)
2004 Milano Milano, Fondazione Piero Portaluppi, Milano (personale)
2007 The New Italian Art Scene, Taipei Fine Art Museum, Taiwan
2007 Italiana, Shanghai Art Museum, Shanghai
2007 Architettonica, ex-chiesa di San Francesco, Como (personale)

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