Print Friendly and PDF

Morandi amatissimo a Washington

Giorgio Morandi - Natura morta, 1936, olio su tela, cm 51 x 62,5 (Vitali 208) Collezione Augusto e Francesca Giovanardi, Mart (Museo d’Arte Moderna e Contemporanea) di Trento e Roveretom in mostra alla Phillips Collection, Washington, D.C., USA, sino al 24 maggio 2009 foto © Archivio fotografico Mart e © The Phillips Collection

MORANDI – MASTER OF MODERN STILL LIFE
Phillips Collection, Washington, D.C., USA
dal 21 febbraio al 24 maggio 2009

ovvero

LA SALA DA PRANZO DI CASA OBAMA

Giorgio Morandi – Natura Morta, 1921, olio su tela, cm. 45 x 53 (Vitali 65) Collezione Privata in mostra alla Phillips Collection, Washington, D.C., USA, sino al 24 maggio 2009 foto © The Phillips Collection

Le tre manifestazioni si avvalgono di comuni prestiti di provenienza italiana, ma si differenziano per gli esiti culturali raggiunti.

 
La mostra del Metropolitan riaccende l’attenzione del pubblico internazionale su Giorgio Morandi, noto in America al largo pubblico sin dal 1949, quando fu invitato alla manifestazione del MoMA di New York “Twentieth-century Italian Art”. L’artista aveva deciso di non esporre più in Italia e dedicarsi alla stagione internazionale della sua carriera collaborando dall’inizio degli anni ’50 con alcune gallerie newyorkesi e nel 1957 proprio con la Phillips Collection di Washington (prima personale in un museo statunitense). L’interesse del collezionismo americano nei suoi confronti si intensifica dopo la metà del secolo scorso ed è perlopiù costituito da opere dell’ultimo periodo.
Nella mostra “Met/MamBO” c’è una forte predominanza di prestiti del Museo Morandi di Bologna e di altre nostre importanti istituzioni pubbliche (Brera, Uffizi, Magnani Rocca e Longhi, per citarne solo alcune, oltre alla cospicua “delegazione” del MART), mentre la partecipazione statunitense, a mio giudizio, avrebbe dovuto essere più sostenuta, data l’occasione per un confronto culturale internazionale in uno dei più famosi musei d’arte al mondo. Le opere in esposizione al MET/MamBO erano complessivamente 125, fra olii e acquerelli, di cui solo 11 americane.
Quindi, del pensiero critico statunitense, dell’impatto culturale che Morandi ebbe oltreoceano sul gusto e sui suoi numerosi estimatori poco si apprende dalla rassegna del Metropolitan, che annovera comunque alcuni notevoli esemplari della propria raccolta e della National Gallery of Art di Washington e, nel ponderoso catalogo, il saggio dell’allieva di Morandi in tecnica incisoria, Janet Abramowicz. Altro contributo teorico da segnalare è quello di Flavio Fergonzi (oggi il massimo esperto italiano di Morandi), che indica innovativi percorsi di lettura delle fonti visive dell’artista. Un pezzo che, da solo, vale la sezione critica della mostra, per il resto, secondo il mio modo di vedere, di circostanza e piuttosto disomogenea. La rassegna, inoltre, nella sua tappa al MamBO, perde alcune delle già rare opere americane e inserisce prestiti nostrani che forse potevano essere evitati per il loro minimo contributo qualitativo. Rimane comunque dell’operazione “MET/MamBO” l’indelebile lascito del rinato interesse internazionale nei confronti del nostro artista. Un’occasione che non dovrebbe esaurirsi con questo evento, ma che potrebbe aprire, se affidata nelle giuste mani, una nuova stagione culturale dell’arte italiana negli Stati Uniti.
Le mostre “Panza” e “Phillips” si distinguono, viceversa, per una più interessante connotazione curatoriale, pur con meno opere a disposizione. Flavio Fergonzi, insieme con Anna Bernardini (direttrice della Collezione di Villa Panza e curatrice della mostra), interviene questa volta da protagonista nel catalogo della mostra a Villa Panza di Biumo. Ecco, in gran sintesi, l’assunto dello studioso: poiché di Morandi la critica italiana ha già detto tutto e indulgere in valutazioni estetiche è poco utile ai fini di una rinnovata indagine, ripartiamo dall’analisi storica e filologica dei documenti e delle fonti, costruiamo un’ “archeologia privata” e, stratigraficamente, ricerchiamo le cause dell’origine e dell’evoluzione dell’opera morandiana. Compito che solo un grande esperto della materia può affrontare. Perciò la mostra di Varese ha come tema lo storico rapporto fra Morandi e il suo collezionismo, elemento essenziale per comprendere la poetica di un artista definito, dall’anedottica più comune, indifferente agli impulsi esterni, “cantore delle solitudini”, e banalità simili. La mostra di Villa Panza proponeva autentici gioielli raramente visibili e permetteva al visitatore – un poco costretto dall’angustia delle due sale espositive, per le quali, forse, l’ausilio di quinte divisorie avrebbe ordinato più razionalmente il percorso – una chiara comprensione delle opere, allestite in sequenze tematiche di soggetti più volte ripresi con esiti formali diversi nel tempo.
 
Assai indicativa per la comprensione dell’ “occhio” statunitense su Morandi è la mostra in corso alla Phillips Collection di Washington, che introduce un interessante e proficuo contrasto fra culture, all’interno di due lineeguida parallele: l’impostazione teorica italiana e quella estetica americana. Gli olii esposti a Washington sono 50, di cui 12 da musei americani (Phillips Collection, Hirshhorn Museum e National Gallery of Art di Washington; Virginia Museum of Fine Arts di Richmond; Saint Louis Art Museum di Saint Louis; Smith College Museum of Art di Northampton; Collezione Robert Lehrman) oltre a 12 incisioni da importanti collezioni USA. I Morandi d’America costituiscono alla Phillips Collection un quarto degli olii e più di un terzo delle opere complessive in esposizione, mentre a New York erano meno di un undicesimo. Certo, i numeri non dicono nulla: conta la qualità; e va detto che sia a New York che a Washington la presenza americana era di gran valore e assai significante per la cultura italiana che poco conosce (e solo di recente apprezza) il “Morandi ultimo”. Ma alla Phillips il coordinamento della mostra si deve alla notevole compagine scientifica locale: Dorothy Kosinski, direttrice dell’Istituto, e Eliza Rathbone, curatore capo (della quale invito a seguire un intervento video, cui si giunge dal sito del Museo nel link sulla manifestazione).
In effetti, il prodotto Phillips/MART – che qui ha portato i pièces de résistance delle Collezioni Ferro e Giovanardi, alcuni già in mostra a New York e a Villa Panza, altri splendidi capolavori privati fra cui il Vitali n. 65 del 1921, opera che letteralmente mozza il fiato, e assicurato la presenza di altri quadri procurati attraverso la mediazione della Galleria dello Scudo di Verona – raggiunge risultati opposti a quelli del Met.
A New York, i curatori dell’Istituto Italiano di Cultura occuparono totalmente la scena con un progetto che non lasciò molto spazio ai loro anfitrioni. A Washington, il lavoro di squadra è più sentito e l’impronta americana, alla fine, più evidente: i curatori della Phillips Collection si dedicano alla ricerca accurata dei prestiti nel loro Paese e mantengono la supervisione del display delle opere in mostra (aspetto fondamentale per la cultura statunitense), mentre lasciano che i colleghi italiani sviluppino l’aspetto “educativo” in un catalogo che (a parte qualche pecca editoriale, come una migliore esposizione del regesto delle opere e l’inserimento di una sintetica nota biografica qui assente) è un esempio di come grandi idee possono essere bene espresse in poco spazio. Ancora una volta, Fergonzi introduce un Morandi assai vicino al pubblico americano, con un saggio equilibrato fra didattica di qualità e impulso verso il nuovo modello critico di stampo storicistico. In USA capiscono meglio di noi le implicazioni del retaggio di Derain, Braque e Picasso, ma anche di Corot, Chardin, Cézanne nella poetica di Morandi, per la familiarità visiva con cubismo, realismo francese e impressionismo in genere. L’amore incondizionato del pubblico americano per la nostra arte antica favorisce inoltre la comprensione estetica e intellettuale dell’influenza di un Piero della Francesca visto in ottica modernista nell’arte italiana degli anni ’30 e ‘40. Il secondo (e unico altro) saggio in catalogo a firma di Elisabetta Barisoni (conservatore al MART), favorita dai ricchi archivi del proprio museo, è totalmente dedicato all’ospite straniero, con una precisa documentazione della fortuna morandiana negli Stati Uniti che formò una corrente critica locale ancora oggi stimolante e attiva. Un testo, per noi Italiani, ma non solo, di grande utilità scientifica.
La mostra è magnifica. Secondo le direttive delle curatrici della Phillips, le opere sono disposte per concordanze formali con un equilibrio di volumi e prospettive armonicamente giustapposti che privilegia la lettura estetica dell’opera di Morandi. Un lavoro tutt’altro che facile (e che noi Italiani abbiamo dimenticato), lasciandoci letteralmente allibiti per il senso di “novità” e di vera emozione che pensavamo di non poter più ritrovare dopo mille e mille incontri con l’artista.
La lezione della Phillips Collection è “eccellenza chiama eccellenza”: se propongo un artista noto per l’innegabile valore estetico (oltre che concettuale), non c’è motivo di disperdere questa potenzialità in letture complicate da esigenze teoriche soggettive. Se voglio ridefinire l’impatto sensoriale che la sua arte ha nei miei confronti, solo un’oculata scelta e un’attenta disposizione delle opere può riconsegnarmene la qualità originaria. E insegnare qualcosa di nuovo ai nostri “vecchi” occhi europei. “Le tout” Washington (i cui rappresentanti sono elencati nella hall d’ingresso al Museo con relativa indicazione dei donativi versati), accorsa per verificare se i fondi museali erano stati spesi degnamente (si consideri che per gli statunitensi l’arte italiana del primo ‘900 nel suo complesso, e Morandi non scioglie questa riserva, è tuttora compromessa dal pregiudizio di connivenza con il Fascismo), hanno espresso enorme soddisfazione e, con loro, critici, stampa e comuni visitatori.
La fama di Morandi negli Stati Uniti è di lunga data, ma la discussione può qui terminare se non si esce dalle analisi e dai peana di circostanza che ogni occasione effimera raccoglie. Piccoli indizi ci suggeriscono quale sia la strada da seguire per la diffusione della nostra arte nel mondo e come dovremmo interpretare i segni reali, assai più importanti delle parole e delle promesse, che, in questo magro tempo, il cielo ci consegna. Vale la pena considerare questo fatto quantomeno inaspettato. Ogni nuovo Presidente americano ha l’opportunità di scegliere alcune opere d’arte per rinnovare le sale della White House, conferendo un’impronta culturale personale al proprio mandato. Per far ciò, egli attinge al ricco “superstore” della National Gallery di Washington, l’unico museo a gestione statale degli USA e, talvolta, ad altre Istituzioni. Tralasciando la comprensibile curiosità per le passioni artistiche della precedente famiglia presidenziale, Barack Obama e sua moglie Michelle, all’indomani del loro insediamento alla Casa Bianca, chiesero due olii di Morandi in deposito alla National Gallery per abbellire la propria sala da pranzo privata.
A puro titolo d’ipotesi e senza alcuna pretesa di verità, risalgo a una possibile opzione fra tre opere disponibili delle sei in collezione secondo il sito del Museo (tre sono sin dallo scorso novembre in esposizione a Met/MamBO e Phillips). Sono bellissime nature morte, una dalla Collezione Mellon del 1948 e due dalla donazione Lenart (entrambe del 1955 ca.). Scelta singolare e indicativa di una libertà che noi non potremmo permetterci. Immaginiamo il Presidente Napolitano richiedere per il proprio appartamento privato al Quirinale una tela di Jackson Pollock. Immediate si leverebbero le proteste in difesa di un ipocrita orgoglio italico che spendiamo solo in occasioni di tal genere (opporci a qualche “concessione allo straniero”) o per festeggiare vittorie sportive.
La famiglia Obama ama Morandi per la quiete meditativa delle sue polverose bottiglie? Per l’universo che si apre oltre una pittura in apparenza senza incidenti? Per la qualità senza paragoni della nostra arte migliore? Se il gradimento della nostra cultura raggiunge, in modo del tutto spontaneo, livelli così alti, perché non approfittare dell’imprevisto testimonial e promuovere negli Stati Uniti e all’estero in genere un progetto qualificato e duraturo che permetta di lavorare in comune con il Paese ospite e costruire l’unica opportunità intelligente che ci rimane di ripristinare la nostra immagine indebolita anche dalle appannate qualità dei nostri governanti, ma che, a dispetto di ogni sfavorevole contingenza, continua a far presa nel cuore di ogni popolo?
 
Giorgio Morandi - Natura morta, 1928, olio su tela, cm 34,5 x 46,5 (Vitali 128) Collezione L.F., Mart (Museo d’Arte Moderna e Contemporanea) di Trento e Rovereto in mostra alla Phillips Collection, Washington, D.C., USA, sino al 24 maggio 2009 foto © Archivio fotografico Mart e © The Phillips Collection

 

Giorgio Morandi - Natura morta, 1960, olio su tela, cm 30 x 40 (Vitali 1188) Collezione Augusto e Francesca Giovanardi, Mart (Museo d’Arte Moderna e Contemporanea) di Trento e Rovereto in mostra alla Phillips Collection, Washington, D.C., USA, sino al 24 maggio 2009 foto © Archivio fotografico Mart e © The Phillips Collection

ArsLife si scusa per eventuali inesattezze in merito ai crediti fotografici relativi alle immagini delle opere di Giorgio Morandi. Degli esemplari “americani” è riportato il solo copyright presente nel catalogo della mostra alla Phillips Collection, pur provenendo alcuni da Istituti statunitensi diversi. Non siamo a conoscenza della possibilità che l’immagine Vitali 65 faccia parte anche dell’Archivio fotografico del Mart. Le immagini Vitali 65, 747, 918 sono state eseguite direttamente dall’autrice del servizio prima della vernice della mostra.

 

Commenta con Facebook

leave a reply

*