MORANDI – MASTER OF MODERN STILL LIFE
Phillips Collection, Washington, D.C., USA
dal 21 febbraio al 24 maggio 2009
ovvero
LA SALA DA PRANZO DI CASA OBAMA
Le tre manifestazioni si avvalgono di comuni prestiti di provenienza italiana, ma si differenziano per gli esiti culturali raggiunti.
Quindi, del pensiero critico statunitense, dell’impatto culturale che Morandi ebbe oltreoceano sul gusto e sui suoi numerosi estimatori poco si apprende dalla rassegna del Metropolitan, che annovera comunque alcuni notevoli esemplari della propria raccolta e della National Gallery of Art di Washington e, nel ponderoso catalogo, il saggio dell’allieva di Morandi in tecnica incisoria, Janet Abramowicz. Altro contributo teorico da segnalare è quello di Flavio Fergonzi (oggi il massimo esperto italiano di Morandi), che indica innovativi percorsi di lettura delle fonti visive dell’artista. Un pezzo che, da solo, vale la sezione critica della mostra, per il resto, secondo il mio modo di vedere, di circostanza e piuttosto disomogenea. La rassegna, inoltre, nella sua tappa al MamBO, perde alcune delle già rare opere americane e inserisce prestiti nostrani che forse potevano essere evitati per il loro minimo contributo qualitativo. Rimane comunque dell’operazione “MET/MamBO” l’indelebile lascito del rinato interesse internazionale nei confronti del nostro artista. Un’occasione che non dovrebbe esaurirsi con questo evento, ma che potrebbe aprire, se affidata nelle giuste mani, una nuova stagione culturale dell’arte italiana negli Stati Uniti.
In effetti, il prodotto Phillips/MART – che qui ha portato i pièces de résistance delle Collezioni Ferro e Giovanardi, alcuni già in mostra a New York e a Villa Panza, altri splendidi capolavori privati fra cui il Vitali n. 65 del 1921, opera che letteralmente mozza il fiato, e assicurato la presenza di altri quadri procurati attraverso la mediazione della Galleria dello Scudo di Verona – raggiunge risultati opposti a quelli del Met.
A New York, i curatori dell’Istituto Italiano di Cultura occuparono totalmente la scena con un progetto che non lasciò molto spazio ai loro anfitrioni. A Washington, il lavoro di squadra è più sentito e l’impronta americana, alla fine, più evidente: i curatori della Phillips Collection si dedicano alla ricerca accurata dei prestiti nel loro Paese e mantengono la supervisione del display delle opere in mostra (aspetto fondamentale per la cultura statunitense), mentre lasciano che i colleghi italiani sviluppino l’aspetto “educativo” in un catalogo che (a parte qualche pecca editoriale, come una migliore esposizione del regesto delle opere e l’inserimento di una sintetica nota biografica qui assente) è un esempio di come grandi idee possono essere bene espresse in poco spazio. Ancora una volta, Fergonzi introduce un Morandi assai vicino al pubblico americano, con un saggio equilibrato fra didattica di qualità e impulso verso il nuovo modello critico di stampo storicistico. In USA capiscono meglio di noi le implicazioni del retaggio di Derain, Braque e Picasso, ma anche di Corot, Chardin, Cézanne nella poetica di Morandi, per la familiarità visiva con cubismo, realismo francese e impressionismo in genere. L’amore incondizionato del pubblico americano per la nostra arte antica favorisce inoltre la comprensione estetica e intellettuale dell’influenza di un Piero della Francesca visto in ottica modernista nell’arte italiana degli anni ’30 e ‘40. Il secondo (e unico altro) saggio in catalogo a firma di Elisabetta Barisoni (conservatore al MART), favorita dai ricchi archivi del proprio museo, è totalmente dedicato all’ospite straniero, con una precisa documentazione della fortuna morandiana negli Stati Uniti che formò una corrente critica locale ancora oggi stimolante e attiva. Un testo, per noi Italiani, ma non solo, di grande utilità scientifica.
La mostra è magnifica. Secondo le direttive delle curatrici della Phillips, le opere sono disposte per concordanze formali con un equilibrio di volumi e prospettive armonicamente giustapposti che privilegia la lettura estetica dell’opera di Morandi. Un lavoro tutt’altro che facile (e che noi Italiani abbiamo dimenticato), lasciandoci letteralmente allibiti per il senso di “novità” e di vera emozione che pensavamo di non poter più ritrovare dopo mille e mille incontri con l’artista.
La lezione della Phillips Collection è “eccellenza chiama eccellenza”: se propongo un artista noto per l’innegabile valore estetico (oltre che concettuale), non c’è motivo di disperdere questa potenzialità in letture complicate da esigenze teoriche soggettive. Se voglio ridefinire l’impatto sensoriale che la sua arte ha nei miei confronti, solo un’oculata scelta e un’attenta disposizione delle opere può riconsegnarmene la qualità originaria. E insegnare qualcosa di nuovo ai nostri “vecchi” occhi europei. “Le tout” Washington (i cui rappresentanti sono elencati nella hall d’ingresso al Museo con relativa indicazione dei donativi versati), accorsa per verificare se i fondi museali erano stati spesi degnamente (si consideri che per gli statunitensi l’arte italiana del primo ‘900 nel suo complesso, e Morandi non scioglie questa riserva, è tuttora compromessa dal pregiudizio di connivenza con il Fascismo), hanno espresso enorme soddisfazione e, con loro, critici, stampa e comuni visitatori.
A puro titolo d’ipotesi e senza alcuna pretesa di verità, risalgo a una possibile opzione fra tre opere disponibili delle sei in collezione secondo il sito del Museo (tre sono sin dallo scorso novembre in esposizione a Met/MamBO e Phillips). Sono bellissime nature morte, una dalla Collezione Mellon del 1948 e due dalla donazione Lenart (entrambe del 1955 ca.). Scelta singolare e indicativa di una libertà che noi non potremmo permetterci. Immaginiamo il Presidente Napolitano richiedere per il proprio appartamento privato al Quirinale una tela di Jackson Pollock. Immediate si leverebbero le proteste in difesa di un ipocrita orgoglio italico che spendiamo solo in occasioni di tal genere (opporci a qualche “concessione allo straniero”) o per festeggiare vittorie sportive.
La famiglia Obama ama Morandi per la quiete meditativa delle sue polverose bottiglie? Per l’universo che si apre oltre una pittura in apparenza senza incidenti? Per la qualità senza paragoni della nostra arte migliore? Se il gradimento della nostra cultura raggiunge, in modo del tutto spontaneo, livelli così alti, perché non approfittare dell’imprevisto testimonial e promuovere negli Stati Uniti e all’estero in genere un progetto qualificato e duraturo che permetta di lavorare in comune con il Paese ospite e costruire l’unica opportunità intelligente che ci rimane di ripristinare la nostra immagine indebolita anche dalle appannate qualità dei nostri governanti, ma che, a dispetto di ogni sfavorevole contingenza, continua a far presa nel cuore di ogni popolo?
ArsLife si scusa per eventuali inesattezze in merito ai crediti fotografici relativi alle immagini delle opere di Giorgio Morandi. Degli esemplari “americani” è riportato il solo copyright presente nel catalogo della mostra alla Phillips Collection, pur provenendo alcuni da Istituti statunitensi diversi. Non siamo a conoscenza della possibilità che l’immagine Vitali 65 faccia parte anche dell’Archivio fotografico del Mart. Le immagini Vitali 65, 747, 918 sono state eseguite direttamente dall’autrice del servizio prima della vernice della mostra.