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Venezia, Punta della Dogana – coll. Pinault

MAPPING THE STUDIO:
ARTISTS FROM THE FRANÇOIS PINAULT COLLECTION  
Venezia, Punta della Dogana – mostra a cura di Gingeras e Bonami

Pinault a Punta della Dogana

 

Venezia, 3 giugno 2009 – Entra silenziosamente in comunicazione con la distesa dei canali che la circondano. Bianca come le tre facciate delle magiche chiese del Palladio situate sulle isole di San Giorgio e della Giudecca, “Boy with frog” di Charles Ray è la statua in acciaio inossidabile e poliuretano acrilico (247x91x96.5cm) che si erge maestosa nella sua classica semplicità sulla Punta della Dogana, prua di nave stagliata e tagliente, centro simbolico e geografico del panorama veneziano.  Svelata al pubblico il 3 giugno in occasione dell’inaugurazione del nuovo museo del contemporaneo creato da François Pinault ha le sembianze di un ragazzo nudo, dallo sguardo innocente che fissa, afferando da una zampa, una rana. L’americano Ray ha reinterpretato il David del giovane Donatello (circa 1440) eretto, in un contrapposto sensuale, col piede appoggiato sulla testa di Golia.

“Charles Ray, artista di Los Angeles, ha pensato questa statua proprio per questo luogo” spiega ad Arslife Francesco Bonami, curatore insieme ad Alison Gingeras della mostra Mapping the studio.

“E’ una scultura che parla da sola. Un giovane ragazzo che guarda con meraviglia una rana come noi tutti dovremmo fare con l’arte contemporanea, cioè con curiosità. Essa ci fa tornare adolescenti, ci fa scoprire la realtà che non conosciamo. Se ci apriamo alla realtà come fa il giovane con la rana trovata probabilmente in uno stagno, riusciamo ad apprezzare il presente e a guardare, attraverso esso, al futuro”.

La statua di Ray ha però diversi livelli di lettura. Dallo spettatore curioso che si identifica con il giovane, essa diviene metafora dell’artista e dell’atto creatore.

Anche se il suo tesoro può sembrare modesto, il ragazzo l’ha conquistato ed è ormai suo. Atto di violenza che si trasforma in atto di scoperta” aggiungono i curatori. “Si potrebbe vedere, nell’immagine del giovane, quella dell’artista che si estasia sulla propria creatività. Potenzialmente senza limite. Questa rana sospesa, che potremmo senza dubbio interpretare come un’allegoria dell’atto creatore, incarna la ricompensa che l’artista riceve di riflesso, quando obbedisce all’impulso primario di non cessare di fare arte. Di perseverare nella ricerca della sua preda. Un’urgenza di creare che arde eternamente come una fiamma della speranza umana”.     

La scoperta del contemporaneo a cui è invitato lo spettatore prosegue, dall’esterno della dogana, al suo interno. Posta all’ingresso dello spazio museale, una tenda di perline di plastica scende giù da un asta di metallo. E’ una creazione di Felix Gonzales Torres, artista cubano morto di Aids a 39 anni che ha lasciato al mondo dell’arte nel 1992 “Untitled” (Blood). Un’opera dolce-amara sulla comunione universale e l’eterna solitudine dell’Essere che, come un sipario, si rende palpabile. Lo attraversiamo. 

 

 

Posto dietro il sipario, il cavallo imbalsamato con la testa conficcata nel vecchio muro di mattoni di Maurizio Cattelan (Untitled 2007) allude direttamente ai dipinti allegorici di animali di Pietro Longhi (1701-1785). Se nel suo quadro intitolato “Il Rinoceronte” Longhi rappresentava un gruppo di veneziani dell’alta società nell’atto di esaminare l’animale esotico, allo stesso modo Cattelan introduce il suo cavallo imapagliato (300x170x80cm) in un contesto artistico “grave”. Elemento di sorpresa e cruda osservazione della follia della società odierna .

Foto: Francesca Crocetti

 A fianco, al suolo, come sedili di intrepidi spettatori, 100 cubi di resina colorata, di dimensioni e colori variabili. E’ un’installazione di Rachel Whiteread, “Untitled”(One Hundred Spaces,1995) 

Salendo le scale che ci portano al piano superiore della dogana, si entra in una stanza dai soffitti bassi e robuste travi di legno. Dagli albaini del tetto entra una luce fioca che illumina, dall’alto, il tragico scenario lillipuziano proposto nelle 9 teche in vetro di “Fucking Hell” (2008) dei fratelli Jake & Dinos Chapman. Al loro interno, in plastica e tecnica mista, scene di orrore. Guerre e persecuzioni, crimini contro l’umanità perpetrati  da piccoli soldati nazisti  scorrono sotto i nostri occhi. Le scatole in vetro sembrano concepite in perfetta armonia strutturale con l’archiettura di Tadao Ando ed i mattoncini delle pareti laterali, recuperati e restaurati dalla struttura originale dell’edificio, contribuiscono a far proiettare lo spettatore nelle carceri e nelle sale di tortura contenute in questi paesaggi infernali crudelmente reali .  

Foto: Francesca Crocetti

Proseguiamo nella nostra visita fino ad arrivare nella stanza che ospita un ciclo di dipinti di Cy Twombly, Coronation of Sesostris (2000, acrilico, matita e pastello a cera su tela). 10 pannelli di dimensioni variabili al muro, come affreschi circondano una scultura in tre parti del giovane artista Richard Hughes, Broken Circle (2006). Ciò che assomiglia alle pietre di un parco su cui i passanti abbiano tracciato dei graffiti, sono in realtà delle forme di denti, due canini ed un molare realizzati in polistirene, filo metallico, polvere di pietra, foglie e pittura acrilica. Ciò che accomuna Twombly e Hughes è la semplicità delle forme e la potenza della complessività del ragionamento che si cela dietro di esse.

 

 

Sempre al primo piano, nella gallery 10, troviamo al centro della stanza, dalle cui finestre laterali si scorge il canale, i palazzi e la chiesa del Palladio, una scultura ispirata a “Psiche rianimata dal bacio di Amore” di Antonio Canova. E’ “Bourgeois Bust” di Jeff Koons, opera in marmo del 1991 che raffigura l’artista avvinghiato all’ex moglie Ilona Staller . Il busto trova una risonanza speciale a Punta della Dogana. Venezia è la città del Canova ed è qui, in una chiesa, che riposa il suo cuore. La purezza formale della statua di Koons si annienta nella sua maestosità barocca mostrando la frivolezza del gesto dei due amanti, della passione surrogata dalla personalità e dalla vanità dei due celebri personaggi. Li guardano, con occhi curiosi ed eccessivamente truccati nel tentativo disperato di sembrare più giovani, le donne ritratte da Cindy Sherman.

 

Sorridenti e pensierose, le sei fotografie a colori di Untitled (2007-2008) formano una mascherata attorno alla scultura in marmo di Carrara.  L’atmosfera cambia nella gallery 9, sala organizzata come una mini retrospettiva di Charles Ray. “In Untitled” (Glass Chair, 1976), l’artista ha segato una banale sedia da cucina in due parti, togliendo solo due centimetri, tra le quali ha inserito una fine lastra di vetro. Un gesto minimalista che crea l’illusione di una sedia che galleggia sull’acqua che trova un eco significativo nel paesaggio lagunare con vista sul Canale della Giudecca. Di fronte ad essa, il recente bassorilievo “Light from the Left” (2007) in fibra d’acciaio inossidabile, alluminio e poliuretano acrilico rappresenta l’artista nell’atto di offrire un fiore alla moglie nel giorno del loro matrimonio. Ray fa qui di proposito un evidente riferimento estetico ai bassorilievi assiro-babilonesi. La realtà della vita quotidiana è qui mescolata con la persistenza delle più antiche forme di rappresentazione artistica .  

Di Maurizio Cattelan ed Hiroshi Sugimoto, le opere che occupano la gallery 7. Le sagome coricate come cadaveri coperti da lenzuola in marmo di Carrara dell’artista italiano (All, 2008, 9 sculture in marmo bianco di Carrara,85x195x40cm) appaiono accanto alla nuova serie fotografica dell’artista giapponese intitolata “Stylized Sculptures”. La macchina fotografica fa prevalere le qualità formali degli oggetti museografici – linea, volume, colore – sui loro contenuti storici .

 

Giocano invece con l’astrazione grazie a superfici che variano in funzione della luce naturale che vi si riflette, gli splendidi dipinti ad olio su lino di Mark Grotjahn, “farfalle nere” (Black Butterfly Filled in Black, 2004, 4 pannelli di dimesioni variabili) poste sui muri della gallery 12 .

 

Queste creazioni concettuali e sensuali i cui strati sovrapposti di colori evocano il processo pittorico nella scia di Ryman, sono contrapposte all’enorme pezzo di legno posto al centro della sala. E’ un lavoro di Fischli & Weiss, “Untitled”(Tree Stump, 2005, polieretano fuso nero, 105x165x114).

Una delle opere più politiche dell’esposizione, “Train, Pig Island” (2007) di Paul McCarthy non lascia indifferenti . Le grandi sagome che si fondono tra loro, ottenute dalla schiuma poliuretanica, sono quelle di uomini che, uno dietro l’altro, formano un treno in cui provocatoriamente, chi sta dietro schiaccia e penetra, come in un rapporto sessuale anale, chi gli sta davanti. La sagoma del volto che si ripete sembra quella dell’ex presidente americano J.W. Bush. Sotto la massa deforme, bottiglie di champagne vuote ed una copia della rivista Flash Art.

L’esplorazione di temi esistenziali come la morte e la violenza domina al piano terra la gallery 4b con Gelijkenis I & II dell’artista sudafricana Marlene Dumas, un olio su tela in due parti del 2002 (60,5x230cm ciascuna). La sua pittura limpida ci presenta strani personaggi posti al centro di zone oscure.

 

Un linguaggio drammatico ed enigmatico che nella stessa stanza prende  le sembianze di sculture di esili corpi in acciaio alti 230 cm con grandi teste in silicone, colorate e scarne che spuntano fuori da coperte poste sulle spalle nell’opera Efficiency Men (2005) di Thomas Shutte. L’artista fonde le forme della modernità all’espressionismo sforzandosi di dare alla scultura la capacità di evocare l’uomo e di farle ritrovare una forma universale .

 

I miti, gli ideali e le angoscie che agitano la società americana sono invece rappresentati da Richard Prince e Cady Noland con opere che, al piano terra del museo, occupano la gallery 4a. Chainsaw – Cut Cowboy Head with Ear Lock(1990, sagoma in alluminio, cappello da Cowboy, giarrettiera, serratura e pacchetto di sigarette 263,2x127x1 cm) mostra un cowboy invecchiato, sdentato e bucherellato da una parte. Noland smonta il potere dell’immagine mediale. La sua serigrafia semplicemente appoggiata al muro è una scultura senza base nè spessore. Una statua che, volontariamente, a mala pena riesce a stare in piedi.

La parodia del mondo dell’arte e della natura torna nella torre, al piano terra. Due pupazzi  appesi al soffitto alle due estremità di un robusto filo di ferro sono i personaggi forse più celebri del duo di artisti svizzeri Fischli & Weiss, il Ratto e l’Orso (Rat and Bear, mobile 2008-2009 140×45 cm ciascuno). Un ventilatore installato al soffitto le fa muovere in  un lento moto circolare. Fluttando nello spazio al di sopra delle nostre teste, si inseguono  o vagabondano come moderni personaggi della letteratura. Nelle intenzioni degli autori, rispecchiano Vladimir ed Estragon, i protagonisti del capolavoro esistenzialista di Beckett, “Aspettando Godot” .

Foto: Francesca Crocetti

 

Foto: Francesca Crocetti

La mostra continua, nelle altre sale che attendono di essere esplorate. A dare il titolo a tutta l’esposizione è il video Mapping the studio (2000) di Bruce Nauman che rende manifesto, nel tempo e nello spazio filmico, il concetto duchampiano di studio come stato mentale. Filmando con telecamere a raggi infrarossi nella notte il suo spazio di lavoro, Nauman ha catturato le attività notturne di topi, falene ed altre creature che appaiono come visioni ellittiche e beffarde che si contrappongono alle azioni quotidiane che si svolgono di giorno nello studio. Una visione piena di languore ma ricca di intuizioni visionarie. Quei topi e quelle falene, in una mostra come quella allestita a Punta della Dogana, sono gli stessi spettatori che scrutano, dal di fuori,  l’operato degli artisti della collezione Pinault estendendo, nella loro fruizione dell’opera,  al loro stato mentale quello degli autori.

Arrivando nella galleria centrale, costituito da muri in cemento colato sul posto in cui si riconosce la firma di Tadao Ando, si ci ritrova di fronte a 4 opere monumentali di Rudolf Stingel . Una su ogni muro, rispecchiano l’elegante linguaggio minimalista dell’architettura che le ospita. Tre opere astratte, coperte da maglie di catene che formano una sorta di gabbia, avvolgono Alpino (2006, olio su tela 335,9×326,4 cm), l’autoritratto dell’artista trattato come una foto realista in bianco e nero. Sono opere autosufficienti. Un’arte molto potente che può rivaleggiare con l’architettura, senza altre fioriture.
 

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Informazioni utili:
Mapping the Studio: Artists from the François Pinault Collection
Venezia, Punta della Dogana
Dorsoduro, 2
30123 Venezia
Fermata di vaporetto: Salute (linea 1)
Tel: +39 041 523 16 80
Fax: +39 041 528 62 18
A cura di Alison M. Gingeras e Francesco Bonami
dal 6 giugno 2009

 

 

 

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