Print Friendly and PDF

Hirst alla Galleria Michela Rizzo

MORIRE A VENEZIA?
Damien Hirst in mostra alla Galleria Michela Rizzo
(11.04.10-31.07.10)
 
 
La serie di sei teschi policromi intitolata The Dead 
 
In un’insolita mattina domenicale dal clima straordinario (soleggiato e fresco, del tutto in contrasto con il tema goth della manifestazione) si è inaugurata l’11 aprile scorso a Venezia una mostra da non perdere per la cornice e per il contenuto, entrambi di qualità: Damien Hirst torna alla Galleria Michela Rizzo con una personale dal titolo, peraltro non originalissimo ma in sintonia con il finto qualunquismo del nostro, “Death in Venice”, esplicitamente dedicata alla Città lagunare che ben si presta ai potenti richiami crepuscolari della cifra del notissimo artista manager.
 
Arrivo alla magnifica sede di Palazzo Palumbo Fossati – dietro la corte della Malvasia, tra la Fenice e Campo Santa Maria del Giglio – con la solita prevenzione che mi distingue nei confronti dell’ “arcifamoso”, dell’abusato, dello scontato, pur confidando nella scelta di Michela Rizzo di cui apprezzo molto le capacità.
 
Attesa da tempo e annunciata il giorno prima da una preview e da una serata di gala in stile viscontiano per gli happy fews a Palazzo Mocenigo, si presenta già vittoriosa, almeno nelle vendite, poiché i suddetti pochi (ma a quanto pare assai buoni) acquistarono già in quell’occasione anticipatoria quasi tutte le opere esposte. Le sale sono costellate da allegri bollini rossi apposti sulle bianche didascalie che riverberano il sorriso raggiante della gallerista.
 
Mi dico che l’evidente successo non deve condizionare il giudizio e mi appresto – ancora più suggestionata da questo pensiero – alla visita.
 
Ma, sarà perché la stretta bidimensionalità delle opere presentate, la facilità (fin eccessiva, smaccata) di lettura e comprensione delle stesse, la semplicità di un messaggio efficace attraverso strumenti docili quali la serigrafia e il collage (tanto che il tondone spin painted pseudorinascimentale resta una citazione decorativa del passato meno appagante per l’occhio e lievemente in disaccordo con l’omogeneità delle opere delle altre pareti), l’iterazione ossessiva del concetto evidente nei collages più che la sua produzione seriale e forse anche il chiaro riferimento ad una Venezia letteraria di cui il Nord Europa ancora si nutre preservandola dagli scempi che ne fanno gli inhabitants sono tutti elementi che mi fanno piacere l’artista in questa dimensione particolarmente in linea con il suo tema più urgente.
 
I collages rappresentanti con spirito neo-arcimboldesco le diverse effigi della Morte mostrano un lato innovativo dei processi artistici dell’artista di Bristol, forse dovuto all’omaggio veneziano e a una personale lettura controcorrente della decadenza della vita cui la Città dei Dogi si assoggetta nell’oleografia e nel senso comune: ri-costruire piuttosto che sfibrare, consumare. Le teste sono ri-montate in un procedimento aggregativo anomalo per Hirst, aduso piuttosto allo smontaggio, alla decomposizione. Ma sono ri-costituite di elementi fra loro estranei, ciascuno evocante un segmento proprio di umanità, un delirio frankensteiniano privo di qualsivoglia senso di onnipotenza. L’assemblaggio genera confusione ma non si palesa falso, piuttosto estremamente “vivo” (presente) all’interno del percorso della mostra e – per questo – assai convincente.
 
Il Golden Calf riprodotto in grafica rilancia invece il complementare tema della fortuna terrena da adorare nei momenti di sconforto (magari a scapito della vita stessa), il passepartout dell’uomo moderno. Fortuna che anche Hirst riuscì a costruirsi sin dal 1988 ai tempi di Freeze con l’autopromozione di quella che diventerà poi la generazione degli YBA in un momento storico-economico particolarmente difficile per l’Inghilterra. Una delle opere migliori.
 
Se bene si osserva, per Hirst la questione non è il pensiero, la rappresentazione della morte, il ben noto, martellante, memento mori, dalle radici profondamente inserite nella cultura dell’Europa mediterranea sin dai tempi precristiani. E’ piuttosto, in un linguaggio che si confà alla contestazione dell’attivo pensiero calvinista nord-europeo e alla prefazione di una nuova dimensione religiosa, il timore di neppur saperla affrontare, di non arrivare nemmeno a osservarne i contorni e/o le salvifiche possibilità di redenzione che la manifestano a ognuno di noi. La difficoltà, insomma, di non saper cogliere il ritmo della vita e del tempo che conduce alla fine di tutte le cose, e, conseguentemente, la necessità di adibire il momento terreno alla costruzione di un’opera profetica in cui l’artista-fabbro (e imprenditore di se stesso) si identifichi.
 
Per questo, per questa esplicita e disarmante ammissione d’impotenza di fronte a ciò che Hirst dimostra aver perduto culturalmente, secondo me, sta il grande consenso del pubblico più vasto, in una sorta di corale abbraccio simbiotico, non per esorcizzare la paura ma per intuire e riconoscere vicendevolmente il medesimo accenno di terrore, la medesima modesta anima sotto la polvere di diamanti sparsa sulle serigrafie a larghe mani per dissimulare la miseria della condizione umana, stordire e distogliere lo sguardo da quel resto osseo che nessuno di noi gradisce considerare.
 
Animala vagula blandula… scrive l’ispanico ed ellenofilo Adriano poco prima di morire nel 138 dopo Cristo, imperatore-poeta che tanto piace al XX e XXI secolo, benché non certo scrittore d’ineccepibile talento classico.
Piccola anima smarrita e soave
compagna e ospite del corpo
ora t’appresti a scendere in luoghi incolori,
ardui e spogli
ove non avrai più gli svaghi consueti.
Un istante ancora,
guardiamo insieme le rive familiari,
le cose che certamente non vedremo mai più…
cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti.

 
Il quesito di Hirst che corrisponde a tutti gli interrogativi del mondo contemporaneo e – soprattutto – a quelli che anche senza volerlo, quasi senza rendersene conto lo apprezzano, è tutto in quel “cerchiamo” dell’ultimo verso.
E lo ripropone contemporaneamente a Venezia e a Sainkt Moritz, luoghi deputati agli “svaghi consueti” dei potenti, allo splendore di allures sempre più fioche, in un mondo in attesa di un cambiamento che si appresta a non più riconoscere i Signori dell’Occidente, figuriamoci il suo glamour.
 
_________________________________
DAMIEN HIRST – DEATH IN VENICE
Mostra a cura di Valerio Dehò in collaborazione con Paul Stolper Gallery (London)
Dove
Galleria Michela Rizzo
Palazzo Palumbo Fossati, Fondamenta della Malvasia Vecchia
S. Marco 2597 – 30124 VENEZIA
Quando
Dal 12 aprile al 31 luglio 2010
Orario di apertura
Martedì/sabato 10.00/12.30 – 15.30/19.00
Informazioni
Tel. +39 335 5443326 e +39 335 1643181
www.galleriamichelarizzo.net
info@galleriamichelarizzo.net
Come arrivare
Vaporetto Linea 1 da Piazzale Roma/Ferrovia in direz. S. Marco/Lido, fermata S. Maria del Giglio

Commenta con Facebook

leave a reply

*