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Le nuove architetture di MAXXI e MACRO

L’ARCHITETTURA DELL’ARTE 
NELLA CITTÁ ETERNA

 
foto: designmag.it

 
 
Giorni importanti per la storia dell’arte e dell’architettura quelli che dal 27 al 30 maggio rendono Roma protagonista della modernità. Aprono, infatti, due grandi contenitori architettonici dedicati all’arte contemporanea: il MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo e il MACRO, Museo d’Arte Contemporanea di Roma. Per il primo, quella del 30 maggio (ma, attraverso prenotazione fino ad esaurimento dei 15.000 posti disponibili, la struttura è visibile in anteprima anche il 27, 28 e 29) è l’apertura definitiva al pubblico mentre per il secondo gli accessi straordinari del 29 e 30 danno la possibilità, sempre attraverso prenotazione, di visitare la nuova ala che andrà ad aggiungersi ai preesistenti spazi espositivi e che sarà inaugurata tra la fine di settembre e l’inizio del prossimo ottobre.Roma capitale dell’arte contemporanea, quindi? Proprio così. E a ulteriormente sottolineare questo inusuale aspetto con il quale la Città eterna vuole presentarsi al mondo alla vigilia dei 150 anni dell’unità d’Italia e prima di probabili eventi come le Olimpiadi del 2020 si è aggiunta, sempre nelle stesse date, la terza edizione della manifestazione Roma. The Road to Contemporary Art (MACRO Future del Testaccio – 27/30 maggio 2010).Già in altre occasioni abbastanza recenti – dalle Olimpiadi del 1960 all’apertura del nuovo Auditorium Parco della Musica realizzato da Renzo Piano nel 2002 fino alla discussa teca/museo dell’Ara Pacis di Richard Meier, inaugurata nel 2006 o alla ancora non compiuta “Nuvola” di Fuksas, solo per citare alcuni degli esempi più noti – Roma ha cercato, nel rispetto dei suoi valori antichi, una sua (spesso difficile e contestata) apertura verso il futuro che la mettesse al passo con i tempi e a livello di altre città d’Europa e del mondo nella corsa alla realizzazione di architetture spettacolari progettate dalle così dette “archistar” con cui caratterizzare e, soprattutto, rinnovare il suo profilo, come è ormai in voga un po’ ovunque a partire dal 1997, sull’onda dell’enorme e universale consenso incontrato dal Museo Guggenheim di Frank Gehry a Bilbao.
È da quel particolare momento, infatti, che l’architettura ha cominciato a fare tendenza e ad assumere agli occhi di tutti, soprattutto dei giovani, lo stesso valore di un’opera d’arte. Gli edifici sono quindi divenuti enormi sculture nelle quali il visitatore può camminare e svolgere svariate attività arrivando a toccare con mano l’arte considerata fino a quel momento distante dalla realtà quotidiana, quasi irraggiungibile sul piedistallo su cui si ergeva. Gli architetti, nel frattempo, hanno incominciato ad acquisire fama di star, di artisti (mentre gli artisti sembrano sempre più guardare verso l’architettura) arrivando a colmare quel divario che ha separato l’arte e l’architettura negli ultimi secoli. In un momento in cui, come scrive Jean Clair, storico dell’arte francese ed ex direttore del Museo Picasso di Parigi “La deriva mercantile trasforma l’arte in spettacolo e i musei in luna park “ mentre “…una trasformazione radicale [è] in corso dappertutto in Europa in nome della redditività dell’arte “ rendendo i musei come  “…cenotafi, involucri vuoti, le cui collezioni sono in giro per il mondo“ il ruolo dell’architettura diviene predominante. Essa come contenitore che tutto comprende e dove tutto può essere convogliato parrebbe aver accolto anche l’eredità lasciata dalla “morte dell’arte” preconizzata da Adorno dopo l’introduzione dei principi del razionalismo economico. In un mondo in cui tutto si muove velocemente e poco o nessun tempo è lasciato al pensare, dove la vita diviene sempre più il set di un film globale, a metà strada tra il Gesamtkustwerk di Wagner e il Global Theatredi McLuhan, dove chiunque sogna di interpretare la parte del protagonista anche solo per un giorno, effetti speciali sono richiesti per attrarre l’attenzione, impressionare e, di conseguenza, interessare cose ottenibili, nella vastissima gamma di realtà che ci circondano, unicamente attraverso la creazione di sensazioni forti, capaci di sbalordire e di colpire con la loro immediatezza.Questo è, dunque, il ruolo che si è assunta “l’architettura spettacolare” dei nostri giorni che, come quella effimera del passato, eretta in speciali occasioni, viene messa in scena dagli architetti divenuti “archistar” grazie al loro successo e con i quali la gente comune sogna di identificarsi. E tutte le città del mondo, alla continua ricerca di un’esclusiva immagine iconica che sappia caratterizzarle e renderle uniche attraendo quanti più turisti è possibile al fine di generare profitto sono perfettamente consapevoli di ciò. Con il sapiente uso di tecniche legate sia al marketing che all’organizzazione degli spettacoli, le varie amministrazioni mirano a stabilire e diffondere una nuova ed inconfondibile reputazione locale che, oltre a personalizzare ciascuna città, come conseguenza della globalizzazione, riesce, allo stesso tempo, a creare un immenso museo all’aperto sovranazionale dove le “architetture spettacolari” assumono il ruolo di opere d’arte di tendenza che vengono esibite. Del resto, spectaculum sin dai tempi più antichi ha significato rappresentazione; l’architettura, quindi, da sempre altro non può essere che una spettacolare espressione di arte visiva. Quello che è cambiato attraverso i secoli è unicamente il soggetto e lo scopo di ciò che viene rappresentato con impressionante enfasi. Se in epoca romana ad esserlo era il potere degli imperatori al fine di imporre il loro volere assoluto sul popolo, ora è il carisma di una città ad essere messo in scena per ragioni economiche e di immagine. A ben pensarci, persino il concetto di “archistar” non è del tutto nuovo. Non erano, infatti, anche Leonardo, Michelangelo o Raffaello star della loro epoca?

La particolarità di Roma, però, sta nel fatto che a contendersi la scena sono due architetto donna: Zaha Hadid e Odile Decq. Irachena, ma naturalizzata inglese la prima, francese la seconda, Hadid e Decq sono state insignite reciprocamente del Pritzker Prize (sorta di Nobel dell’architettura, vinto per la prima volta da una donna proprio quando assegnato alla Hadid) e della Legion d’Onore, massima onorificenza francese. È interessante notare che questo straordinario incontro romano di “archistar” femminili  avvenga proprio nel 2010, anno in cui un’altra donna architetto, appena insignita anch’ella del Pritzker Prize, la giapponese Kazuyo Sejima, è stata nominata direttrice della prossima Biennale di Venezia. Zaha Hadid, riferendosi alla discriminazione presente anche in architettura, ha affermato che “il problema costituito dall’affermazione delle donne nella loro professione è di ancor più difficile soluzione che quello del razzismo”. La realizzazione dei due musei romani, però, sembrerebbe smentirla. In una realtà in cui ciò che conta è la visibilità dell’idea che importanza può avere se questa viene da un uomo o da una donna? Certo, per ragioni storiche, anche in campo architettonico gli uomini sono più numerosi delle donne ed è quindi più facile che sia un uomo a vincere l’assegnazione di un progetto, ma questo non vuole dire che, anche se c’è ancora del cammino da fare, le donne rimangano escluse dalla competizione e le scelte del MAXXI e del MACRO sono una fondamentale testimonianza che fa sperare che il pensare all’architettura in ordine di sesso sia da considerarsi obsoleto. Due donne protagoniste, dunque, due forti personalità che, naturalmente in modo diverso, attraverso i loro progetti si esprimono.

Zaha Hadid
L’avanguardia russa degli anni ‘20, filtrata dal Modernismo ed unita ad una profonda conoscenza della matematica (“La matematica – per la Hadid – è una disciplina che ti educa a organizzare e strutturare i processi della mente”) sono gli elementi alla base dei progetti dell’architetto anglo/irachena. Il suo museo romano si presenta bianco come la tela di un pittore ricordando con il suo fluido movimento sia il ciclo eterno dello Yin e dello Yang che le spire di un boa che le anse del fiume Tevere che scorre nei pressi. L’edificio, sinuoso, si insinua con pacifica eleganza tra i circostanti edifici ottocenteschi del quartiere Flaminio di cui molti erano delle caserme. Su questa immensa tabula rasa le opere d’arte che qui verranno esposte non potranno che animarsi prendendo importanza e risalto come accade ad un testo scritto su un foglio che continuamente cambia e si rinnova, ad un libro aperto le cui pagine vengono incessantemente sfogliate per comunicare con il visitatore. All’interno, la lattea architettura con le sue volute crea quasi un senso di vertigine e stordimento che ricorda la forte emozione che l’arte può destare in chi l’ammira. Il nero delle scale e dei ballatoi sospesi in aria nonché gli squarci che, improvvisi, aprono su angoli della città riportano alla realtà creando una fluida continuità tra l’antico e il moderno, due mondi che non  si escludono reciprocamente, ma si completano. Intorno c’è tutta una città con la sua storia millenaria alla quale una nuova storia va man mano sovrapponendosi prendendo forza dal passato un po’ come i “nani” della definizione umanistica, significativi dei Moderni nella Querelle iniziata da Perrault, stavano sulle spalle dei “giganti”, gli Antichi, per mirare lontano.

Odile Decq
Valenze tipicamente mediterranee quali colore, aria, sole, acqua contraddistinguono, invece, il progetto in vetro e acciaio per il MACRO, posto a pochi passi dalla storica Porta Pia. Il suo progettista, Odile Decq, ritiene importanti le presenze internazionali a Roma dei vari architetti che qui hanno lavorato o stanno lavorando “per un’apertura della città all’esterno. Perché la Storia non basta. E perché per interessare le persone e attrarre i turisti l’immagine contemporanea è fondamentale e i musei di arte contemporanea anche”. Riuscire ad integrare la nuova struttura, che sorge a ridosso dell’originaria, sempre realizzata dalla Decq nel 1999 nell’area occupata dall’ex Birreria Peroni, con l’intero isolato urbano è il traguardo che si è posto l’architetto francese. Le due nuove sale di esposizione sono sovrastate, come nella migliore tradizione dei palazzi romani, da una grande terrazza-giardino che fa da tetto, arricchita da un’altrettanto grande fontana ricordo delle numerose mostre d’acqua che ornano la città. Come su un palcoscenico degno delle piazze barocche cittadine qui si svolgeranno mostre all’aperto a cui gli inclinati specchi acquei della fontana e gli eleganti edifici otto/novecenteschi di via Nizza e via Cagliari faranno da quinte strepitose. A detta della Decq, all’estero le viene spesso chiesto “Ma a Roma è davvero possibile realizzare tutto ciò?”. A quanto pare sì!

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