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SWINGING LONDON

Guardare Tobias Meyer danzare dallo scranno di battitore, boxando dolcemente con il pubblico ed i numerosi telefoni, colpire ogni alzata di mano con un diretto da centomila pounds il potenziale acquirente e raggiungere, rapidissimo, vette sorprendenti è una festa per gli occhi. E un interrogativo per la mente.

Non mi preme qui farvi una web-cronaca o un resoconto delle ultime vendite londinesi concernenti il contemporary, già è stato fatto puntualmente e benissimo da altri, compreso il nostro Esimio Direttore. Mi preme piuttosto seguire il filo, speriamo logico, di quell’interrogativo di cui sopra.

Che l’arte in genere ed il Contemporay in particolare abbiano subito il contagio delle finanziarizzazione non è una gran notizia, che questa tendenza abbia avuto una crescita progressiva neanche, ma l’accelerazione da Carl Lewiss di quest’ultimo decennio è impressionante ed anche un poco perturbante, tanto da trasformare le grandi case d’asta in una sorta di Nasdaq dell’arte. Ora, tanto per rimanere in tema, se una qualsivoglia attività produttiva o commerciale desidera quotarsi in Borsa, è soggetta a una serie complicatissima di adempimenti e controlli, a partire dai bilanci, controllati da enti terzi che concorreranno a stabilire la quotazione delle azioni che verranno offerte sui mercati borsistici al fine di finanziare l’attività in questione. Gli eventuali successivi scambi di azioni decreteranno il successo o meno dell’operazione. Così, detto molto rozzamente.

Allora che diavolo può determinare così repentinamente sbalzi di quotazione da uno a cinque- milioni di pounds -of course- come nel caso di Sigmar Polke, per esempio, o che può indurre a disputarsi opere -peraltro non tutte così significative- di George Baselitz, artista sicuramente apprezzato, ma le cui opere in rarefatti scambi non superavano i quattro/seicentomila pounds? E ancora, chi e cosa stabilisce le quotazioni milionarie di Peter Doig piuttosto che quelle, molto più ragionevoli ma pur sempre sostenute, di Glenn Brown, di Andreas Gursky o Rudolf Stingel…? E’ il mercato, bellezza, obbietterà qualcuno, la vecchia legge della domanda e dell’offerta… se qualcuno alza il dito, quello è il valore.

Ok, vero, il prezzo è giusto. Ma perché qualcuno si strappa di mano opere di artisti che solo un anno fa non considerava così degni della propria attenzione e a quotazioni ben più convenienti? Un sapiente marketing, un ottimo posizionamento del brand, la partecipazione a grandi mostre e rassegne di prestigio internazionale, la collocazione di lavori in esclusive collezioni private o pubbliche, l’autorevolezza delle gallerie che rappresentano l’artista e, last but no least, l’affacciarsi di una platea, numerosa e desiderosa di apparire socialmente, di nuovi e straordinariamente ricchi collector. Tutte condizioni necessarie ma non sufficienti a spiegare fino in fondo il fenomeno. Tanto più che le opere di questi artisti, la cui importanza diamo per acquisita -anche se se ne potrebbe ampiamente discutere- non sono imprescindibili per l’evoluzione della storia dell’arte, se non fossero artisticamente esistiti nulla sarebbe mutato.

Mentre lavori di Wols o di Jean Fautrier, tanto per fare un esempio, vere pietre miliari e di riferimento per l’informale europeo, senza le cui ricerche non si potrebbero giustificare numerose varianti e declinazioni di molti artisti ad essi successivi, transitano semi inosservati per le aste raggranellando malinconiche quotazioni. Contraddizione? No, due facce della stessa medaglia.

Il progressivo sfarinamento di ogni possibile parametrazione culturale al fine di determinare un giudizio, unito ad una mediatizzazione selvaggia che coinvolge tutti gli attori in commedia di quel che viene definito “il sistema dell’arte”, sono il portone spalancato attraverso cui passano attribuzioni di valore sostanzialmente slegate da ogni ancoraggio “oggettivo”. Quello che si definisce cultura, e l’arte con essa, sono state risucchiate dal tornado della post-modernità che ne ha interamente stravolto il senso, mutandone il modo di “produrla”, fruirla e comunicarla. Ecco spiegata la ricerca del Freak, dell’eccezione, della Barnumizzazione generale della cultura, il cui valore viene sostanzialmente delegato a questi fattori di eccezionalità, e la “mostrificazione” economica né è componente essenziale. Dunque, grande parete, grande pennello. Grande platea, grande “Mostro”.

Al di là dunque degli strilli di fanfara dei media che riecheggiano i record raggiunti ed i conseguenti oooh! del grande pubblico a cotanto sbarluccichio, temo che l’ulteriore verticalizzazione del mercato abbia come conseguenza la desertificazione progressiva dei piani bassi della piramide, la cui energia viene risucchiata dalla vetta. Azzardando paragoni è un po’ quello che succede con il calcio, dove i grandi e blasonati club si contendono i cartellini delle stars a suon di milioni, spesso generando voragini nei bilanci, guadagnandosi l’accesso alle arene internazionali ed ai conseguenti diritti televisivi. Alle squadre minori non rimane che azzuffarsi sui campi di provincia e spartirsi i rimanenti spiccioli. Al pubblico, sdraiato sul divano… guardare.

Bene e ora? Bella domanda, anzi, come diceva il grande Sandro Paternostro, domanda delle cento pistole. Meditate gente, meditate…

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