ANDÁR A DINDÓN
Considerazioni casuali nell’estate 2011 dell’arte a Venezia
“Andár a Dindòn” = andare attorno perdendo il tempo (da: “Dizionario del dialetto veneziano” di Giuseppe Boerio, editore Andrea Santini e Figlio, Venezia, 1829)
Ho deciso: lascio questo titolo. Io non cambio.
Come due anni fa, ArsLife mi onora della richiesta di redigere un percorso articolato e possibilmente convincente per i trekkers dell’arte che anche in quest’occasione “scendono in laguna”, attirati come api al miele dalla più importante rassegna d’arte contemporanea al mondo (e, così dicendo, ho già fugato ogni ambiguità su come la penso in proposito).
Ancora una volta evito la selva intricata delle vernici, perché ciò che conta è l’arte e non le chiacchiere: una questione che vede l’Italia in gara per il Leone perdente in partenza, data la messe infinita di diatribe che hanno accompagnato la genesi del Padiglione Nazionale nel 150° dell’Unità, ne hanno corredato la polemica apertura, ne hanno circonfuso l’aspettativa di ogni possibile speculazione, comprese le uniche giustificabili – secondo il mio pensiero – circa la pericolosa leggerezza dell’ “appalto” conferito divinitus a curatore e organizzazione a pochi mesi dal via.
Ma è difficile, in quest’estate del 2011, rimanere neutrali, soprattutto quando ciò che il Pubblico mostra di saper produrre in termini di patria qualificazione culturale sembra essere il vuoto esoscheletro di una struttura che non ha nulla di bionico, di avanguardista, di geneticamente futuribile, ma si pone, piuttosto – e se ne vanta, pure – al di fuori della competizione.
Ciò fa male a chi come me ha a cuore la sorte “comune” del pensiero critico e artistico italiano, e fa male ancor più quando la laguna, quest’anno come mai prima d’ora, è invasa da chi il Pubblico ha ben saputo rimpiazzare – checché se ne berci sgangheratamente – con una pacifica invasione di manifestazioni, ristrutturazioni, fondazioni, collaborazioni che danno la misura di quanto lo Stato, cui potrebbe essere ascritta l’eccellenza del genio già acclamato e l’inventiva della gioventù, abdichi maldestramente in favore di chi comunque dovrebbe essere sempre e solo un interessante, fondamentale interlocutore (se pur più quotato: non a caso in questi giorni Prada riprova a inserirsi nell’àgone borsistico sulla piazza di Hong Kong…).
A due anni di distanza dall’inaugurazione del “Monsieur Pinault Lab2” a Punta della Dogana, ci si rammarica che – dopo l’exploit ben confezionato dell’apertura e una rilevata pesantezza di conduzione nel biennio d’avvio – il sito non potesse essere consegnato, come si sarebbe dovuto e potuto, alle più lungimiranti e proficue mani della Fondazione Guggenheim la quale avrebbe eletto Venezia (e l’Italia) a privilegiato sito del circuito museale statunitense di riferimento, un’opportunità notevole per la comunità dell’arte nazionale.
L’arte “privata”, per convincere e diventare cultura, deve crescere nell’alveo e mantenere il rispetto della storia, della ragione critica, della verifica a posteriori e del confronto costante, non limitarsi a mostrare se stessa. La mera esposizione non sostituisce il valore intrinseco (ontologico) dell’opera d’arte.
In ciò comincio a comprendere quale sia il senso primo dell’arte contemporanea: non solo essere specchio, anticipatore e ustorio, delle pulsioni del nostro tempo secondo mezzi adeguati esteticamente e concettualmente, ma anche la ragion d’essere “fenomenica” della cultura, la sua piattaforma programmatica, la sua indicibile verità. Senza la forza di costituire una rete storica universalmente intesa che renda compatti – ma individuabili – i legami e gli idiomi artistici delle Nazioni della Terra, l’opera d’arte perde il suo appeal nei confronti del proprio tempo e si svuota di istanze condivisibili.
In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di discutere con menti più sottili della mia intorno alla necessità di ridare forma esprimibile (e comprensibile) al contenuto disperso dell’arte in Italia, e mi sono imbattuta più volte in chi sottolinea la virtus loci, da cui dipende l’essenza stessa dell’opera d’arte e la sua precisa definizione. È vero che il luogo FA l’opera. Ne fonda la sua consacrazione. Ne determina – pertanto – la sua stessa “funzione”. È questione dibattuta, ma da approfondire, perché in effetti sposta la determinazione dell’opera d’arte all’esterno da essa, circoscrivendo la giustificazione critica (l’individuazione semantica) al ragionamento sulla sua collocazione (o, meglio, sull’accredito conferito dalla sua collocazione).
Si pone, quindi, ancora una volta, la domanda centrale fra coloro che si interrogano sulle sorti delle arti visive nel XXI secolo: stante il fatto che non è sufficiente a decretarne di per sé la qualità artistica, intesa come la sua fortuna (come in alcuni casi si vedrà anche in questa Biennale), il contenitore soverchia l’opera? E, se sì, è davvero un male? Non è forse un bene conferire nuovamente un senso (e una gravità substanziale) al contenitore affinché anche il contenuto ne acquisti “valore mitico” nel senso antropologico del termine?
L’Italia ha bisogno urgentemente di riconsiderare i suoi targets culturali, le priorità in merito alla diffusione del proprio contributo alla civiltà globale. È nei momenti d’indigenza che deve prevalere il genio, il pensiero ben costruito, il prodotto ben finito…
Non dovevano essere permessi i colpi di coda di “fine impero” (meglio, da Radeau de la Méduse…), anche perché di “impero” – per noi – se n’è visto pochino mentre l’unica considerazione che si può fare oggi in merito alla poco edificante attività politica di arrembaggio sulla nostra cultura è che l’autarchia era meglio interpretata 90 anni fa e, almeno per quei primi anni ’20 e ’30 dello scorso secolo, non ci confinò nel provincialismo in cui siamo precipitati senza appello.
La vena di tristezza che conduce queste considerazioni non distolga dalla piacevole mission: accompagnare il viaggiatore dell’arte attraverso le sempre meno ignote calli veneziane (chi non possiede ormai un pied-à-terre in laguna, pergiove…?) e i sempre più intimi siti del cuore legati alla manifestazione più stimolante, più invidiata per ambientazione e protagonisti, più opulenta di proposte, più conviviale e adescatrice, più straordinariamente unica: la Biennale di Venezia.
Anticipata idealmente come da profezia epocale dal matrimonio sardanapalico della rampolla del magnate indiano del ferro con un pasciuto cavaliere per nulla intimidito dal regale connubio, le cui diverse e sontuose feste caricarono d’oneri e magnificenze la Serenissima per alcuni giorni a metà dello scorso maggio (quasi rievocazione del periodo antico della Fiera della Sensa*), fra i cui splendori alligna ineffabile, quanto inattesa, la visione di Campo San Cassiano dietro Rialto straripante di peonie recise, dai colori di carne e dalle corone dolcemente sfatte, ritornate dalla grande festa per la quale furono acconciate in immaginifici, sontuosi e profumatissimi lumi arborei – immenso prato d’artificio di sapore dannunziano a disposizione della cittadinanza grata -, si apre la 54a stagione dell’arte contemporanea che mi vedrà rilevare qualche appunto in compagnia a volte di un avventore più o meno engagée a volte in solitaria (come si converrebbe di più a un vero cronista).
L’entusiasmo è il medesimo del passato, la voglia di raccontare immutata, il desiderio di accogliere l’Ospite in Città con qualche nota (e una piccola novità dedicata al lettore più soggiogato dalle tirannie del Gusto) sulle tappe gourmandes granitico.
Mi riallaccio quindi a quanto apposi in chiusura di praefatio due anni fa, la chiave interpretativa di questa piccola fatica e dell’onore che ancora mi si accorda:
“Senza osservare troppo acutamente, senza sostare troppo intensamente, senza fermarsi per speculazioni che lasciano il tempo che trovano, mi permetterò un andàr a dindòn quasi turistico, da naso al’insù e bocca aperta, sperando di non inciampare in qualche installazione o in qualche zaino a riposo. E cercherò di fornire, a chi interessa il genere, una chiave di lettura personale, proprio da pubblico pagante, quale anch’io sono sempre stata e sempre sarò.
Perché l’arte, da che mondo è mondo, si paga e – comunque – si sconta.”
(*) La Festa della Sensa (Ascensione) o dello Sposalizio con il mare, rievoca due fondanti vittorie della storia della Serenissima. Quella navale del Doge Pietro Orseolo II, partito il 9 maggio dell’anno 1000 (giorno dell’Ascensione) in aiuto alle popolazioni dalmate oppresse dagli Slavi, che sancisce, con l’arresto dell’espansione di quest’ultimi, il vero consolidamento della dominazione economico-mercantile, più che territoriale, di Venezia nel Mare Adriatico. La Festa della Sensa nasce da questa epica impresa, commemorata attraverso il rito propiziatorio, dal semplice cerimoniale, della benedizione del mare. Quella diplomatica che esalta il ruolo fondamentale del Doge Sebastiano Ziani, attivo mediatore fra Papa Alessandro III e Federico Barbarossa, impegno culminato nello storico incontro che pose fine alla secolare rivalità fra Chiesa e Impero il giorno dell’Ascensione del 1177 a Venezia. Il Papa, grato al doge, assegnò alla Città molti privilegi fra cui la sedia curile e il dominio sui mari, ora decretato da ‘sì alta autorità, attraverso il dono di un anello benedetto (“Ricevilo in pegno della sovranità che Voi ed i successori Vostri avrete perpetuamente sul Mare” e, secondo il Sanudo, si precisava anche un invito a nozze “… lo sposasse lo Mar si come l`omo sposa la dona per esser so signor”) che sarebbe stato gettato nelle acque sacre della laguna ogni anno il giorno dell’Ascensione alle bocche di porto a San Nicolò del Lido. Il gesto rappresenta il legame indissolubile della Serenissima con il suo primo alleato “liquido”, fonte di ricchezze e ponte per conquiste. Il primigenio atto propiziatorio diviene così anche simbolo di investitura e possesso. Papa Alessandro III concesse inoltre indulgenze a tutti coloro che avessero visitato la Basilica di San Marco negli otto giorni dopo la Festa della Sensa. Il che, naturalmente, fece convergere in Città genti da ogni parte del mondo. Scaltramente la Repubblica, a partire dal 1180, istituì, dapprima in Bacino su zattere, indi in fronte alla Basilica in botteghe coperte da ampi tendaggi, una fiera “universale” che si giovava delle merci più rare, esotiche e costose e attirava il fiore della nobiltà e dei mercanti, oltre che il popolo estasiato e riconoscente perché anch’esso favorito dalla possibilità di offrire la miglior produzione locale delle potenti corporazioni artigiane, ben presto divenendo l’esposizione campionaria più importante d’Occidente. Dopo la cerimonia della Sensa, il doge e il suo seguito sul Bucintoro addobbato riccamente e i natanti della nobiltà e del popolo in gara per l’allestimento più sfavillante e ricercato si dirigevano verso Piazza San Marco per inaugurare l’attesissima Fiera della Sensa, che venne nel tempo portata a quindici giorni. In quel magnifico periodo, feste, banchetti e balli impazzavano nei palazzi pubblici e privati mentre ambascerie, delegazioni, rappresentanze e varie mondanità erano contese dai grandi nomi dell’aristocrazia in laguna. Nel 1534, il Sansovino approntò in San Marco un sontuoso palco circolare che ospitasse le botteghe sempre più impreziosite da merci di raffinatissima qualità. La Festa e la Fiera della Sensa furono abolite nel 1797 (l’ultimo rito fu celebrato dal vecchio doge Ludovico Manin l’anno precedente), con la fine della Repubblica a seguito della resa di Venezia a Napoleone. Il Corso “vendette” poi la Città con il trattato di Campoformio alla fine dello stesso anno all’Austria, le cui truppe entrarono in una Venezia umiliata il 18 gennaio del 1798. Nel processo di democratizzazione sull’onda dell’entusiasmo per gli ideali francesi prima e in quello di devastazione attuato da Francesi e Austriaci poi, le vestigia materiali e simboliche della Repubblica (compreso il magnifico Bucintoro, dato alle fiamme per recuperare i preziosi ornamenti in oro sbalzato che lo abbellivano) furono smantellate, depredate, cancellate dagli invasori, al punto che lo stesso Napoleone, tornato nel 1807 in una Città ormai fantasma, laddove era scomparso anche solo il ricordo della sua fiorente e illuminata civiltà, si commosse e tentò, inutilmente, di porre un freno ad una ormai inarrestabile decadenza. A partire dal 1965, i Veneziani decidono di ripristinare l’antica celebrazione, a cui si collega un mercatino pittoresco allestito a San Nicolò e la celebre Vogalonga, competizione remiera fra le quattro Città marinare italiane. In quest’anno di grazia 2011, la festività cristiana (comune per una volta a riti protestanti, cattolici e ortodossi), in genere ricorrente nel mese di maggio, cade il 5 giugno, in piena apertura di Biennale, la quale, come ben si vede, non ha inventato proprio nulla in quanto a “relazioni esterne” ben coltivate. Anzi, ancora deve imparare…
ITINERARIO N. 1
GIARDINI – 54a BIENNALE D’ARTE 2011
(ovvero: Piano, piano, dolce Carlotta.)
54a BIENNALE D’ARTE CONTEMPORANEA 2011 – GIARDINI
Dove:
Giardini, Castello – 30122 Venezia
Come arrivarci:
Dalla Stazione: Vaporetto Linea 2 diretto (direz. San Marco, Lido), fermata GIARDINI, 34 minuti
ILLUMINATIONS
Apertura e Orari:
4 giugno – 27 novembre 2011
Orario: 10-18 (chiusura biglietteria: 17,30) chiuso LUNEDI
Biglietti:
intero € 20 (valido anche per l’Arsenale); ridotto (residenti, militari e ultra65enni) € 16. Previste altre riduzioni specifiche, singole o per gruppi; bambini sino a 6 anni, accompagnatori di invalidi, studenti di scuole primarie e secondarie coinvolti nei progetti educativi (cd. Educational): gratuito.
PRENOTAZIONI e info
Call center Hellovenezia 041-2424 (tutti i giorni 8,30-18.30), prevendita biglietti nei punti Hellovenezia a P.le Roma, Lido (Santa Maria Elisabetta), Tronchetto.
INFORMAZIONI
www.labiennale.org
Tempo medio di visita secondo ArsLife: 6/7 h (di più, vi sfido)
Partiamo da qui, quest’anno, io e la mia amica architetto, che sempre mi accompagna, se pure mordendo il freno e lamentando la mia lentezza dovuta alla furibonda annotazione di appunti a corredo di quanto vediamo, necessari per questa bisogna.
La fatica è duplice: entrambe siamo “menomate” da claudicanze assortite, ma abbiamo deciso che ci sosterremo a vicenda, soprattutto materialmente, dato che a me duole un ginocchio e a lei una spalla con arto annesso.
La compagnia è fatta, quindi: da due mezze e poco più otteniamo una abbondante. Decidendo da quale costa una debba sostenere l’altra, ci incamminiamo nel consueto dispiegarsi di villette da paese dei campanelli quale è la nostra santa Bienàl.
L’aria è dolce e fresca: anzi, tira un venticello che scoprirò aver raggiunto velocità estreme e temperature autunnali in laguna Nord, verso Monfalcone, dove qualcuno batte i denti. Ma per noi è una vera manna.
PADIGLIONI NAZIONALI
Immediatamente il Padiglione Svizzero si para al visitatore mattutino con tutta la sua impenetrabilità. E’ chiuso per questioni tecniche sino alle 13. Ci diciamo che passeremo poi; e poi, alla fine del tour, stremate, tireremo avanti. Peccato: pessimo inizio; voto sospeso sino a nuovo ordine. Thomas Hirschhorn è artista internazionalmente noto per i contenuti rivolti al sociale, al coinvolgimento del pubblico in installazioni che rendano concreta idea della precarietà di cose e azioni terrene attraverso l’uso di oggetti di diversa provenienza e funzione conglobati fra loro da materiali d’imballaggio come adesivo per pacchi o cellophane; merita senza alcun dubbio una visita. Lo segnalo comunque “sulla parola”.
Ben più accogliente lo scarpiano Padiglione del Venezuela presenta, in una ridda lievemente dissonante nell’allestimento il cui titolo è non a caso “Espacios”, le opere costruite in loco da Clemencia Labin, la grande teoria di comic stickers di Francisco Bassim (1964) le cui fattezze mischiano di volta in volta sacro (cultural-religioso) con profano (popolare) nel tentativo di ripercorrere senza scarto semantico fra eroi veri e supereroi immaginari la storia dell’uomo. Divertente senz’altro. E, nell’ultima stanza, elegante e coinvolgente (anche per la luce morbida che entra sorniona dalle alte vetrate) la lunga “sciarpona” bianca di cotone piegato a mano, arricciata e appuntata in varia foggia estetica lungo le pareti (titolo evocativo: “Solaris”) di Yoshi. Allestimento astuto, ma indubitabilmente affascinante, se pur privo di vera tensione poietica. Voto:5/6.
Mi dirigo felice verso il Padiglione Russo che da qualche edizione non delude mai e mi addentro al piano terreno nell’allestimento tutto fotografie (à la Kabakov, direi, se non che sono evidentemente i Kabakov che attingono da qui) e tratti di cordame sparso dal titolo “Empty Zones” di Andrei Monastyrski(and Collective Actions). Apprendo che è un importante iniziatore, insieme al gruppo da lui costituito nel 1976 e tuttora operativo, dell’arte concettuale partecipativa russa e mi spiego quindi quel senso di déja-vu di cui non mi davo conto soprattutto pensando ai traguardi dell’ultimo decennio dell’arte russa che divergono da quanto sto ora osservando. Capisco, ma non riesco comunque ad apprezzare un linguaggio – certamente importante per l’U.R.S.S. – ma per noi, allora “Occidente libero”, obsoleto già al suo formarsi. Troverò una spiegazione – in altro itinere fornita – per questo dotto omaggio all’arte sovietica del secondo Novecento, peraltro assai apprezzato dal mondo della fotografia colta.
Il video multiplo e sovrapposto in frames perturbanti presentato in fondo al percorso del piano terreno non aggiunge granché alla mia prima impressione di mezzi elementari e ingenui ancorché sinceri.
Al piano superiore è montata una grande opera contemporanea che occupa tutte le stanze con lettiere da gulag addossate lungo i perimetri e una composizione monumentale di briccole veneziane (pali da attracco per battelli, che in gruppi di tre segnalano i confini fra aree percorribili dai natanti e basse maree o secche) dalle caratteristiche punte smussate, legate fra loro da una poderosa catena in ferro. L’omaggio di Monastyrski alla Biennale getta una luce fosca su come egli sembra concepire la competizione veneziana (la declinazione ultima delle Empty Zones raccontate al pian terreno?). Scritte bilingui alle pareti sottolineano la cupa visione di chi, forse, non trova più conforto nell’arte (giunta ad una “secca”?) e, soprattutto, nella società e nella cultura che ha contribuito a costruire. Sembra un amaro autodafé a cui, senza commenti, dobbiamo sottostare.
Affinché non si dica che sono una gretta contemporaneista, segnalo che i video storici del Collettivo sono visibili in web attraverso l’apposito Podjachev’s Youtube Channel. Il che fa onore all’organizzazione russa sempre impeccabile e ai curatori che tengono in gran conto il pubblico della Biennale e dei Veneziani in particolare.
Voto da ignorante: 5 e mezzo, perché mi sottometto all’autorità della Storia.
Al Padiglione del Giappone mi attende una vittoria da più parti annunciata, e l’artista Tabaimo, nata nel 1975, presentata dalla Japan Foundation con il supporto (fra gli altri) della rinomata Kyoto University of Art and Design ove si laureò nel 1999, mi regala la prima vacanza visuale del tour d’arte. “Teleco-soup” è una grande video-installazione che prende le mosse dal cilindrone nel sotopòrtego. Dall’alto piovono cervelli che, scomparsi, creano flussi gassosi, indi sostituiti da nuvole che corrono nella classica, nipponicissima, foggia del cirro unmon. Uno strano scambio fuori dalle ordinarie leggi fisiche. Al momento non mi pare in sé un’idea particolarmente illuminante, poi salgo all’interno della costruzione e vengo avviluppata dallo spazio scuro, deformato da specchi incurvati che riflettono e moltiplicano le immagini animate di una cittadina giapponese apparentemente deserta che sprofonda in una marea liquida (l’Oceano). Capirò che è un mondo rovesciato (teleco-soup significa letteralmente: “zuppa invertita”): al piano superiore acqua e terra e a quello inferiore, che si vede al centro del padiglione intubarsi a pozzo nella colonna dei “cervelli”, il cielo. La narrazione insiste nel sottolineare la sensazione di incapacità di affrontare la realtà relativa in rapporto a quella comune. La percezione adeguata dei rapporti personali rispetto a quelli globali. Ma non c’è scampo: osserviamo tutti in silenzio città di mare, isole, sommerse da alti flutti, dai quali nubi minacciose e nebbie tossiche irradiano mani tentacolari verso ciò che resta di case e villaggi privi di vita. Come non vedere una singolare, quanto certamente non voluta, premonizione di quanto accadde lo scorso mese di marzo nella terra del Sol Levante? La complessa architettura di quest’opera mostra una maturità superiore per progettazione, ma ancora qualche schematismo formale da cui l’artista riesce ad affrancarsi con solida tecnica e belle innovazioni nel disegno, riconoscibile e originale al medesimo tempo.
Voto: 6 ++.
La vicina rappresentanza di Corea mi stupirà ancor di più. C’è un tratto, nelle scelte biennalesche di questo Paese, che si distingue per non abbandonare mai la purezza formale e la necessità culturale di coniugare estetica e profondità del messaggio. Una sorta di “firma” che anche quest’anno si presenta nella sua veste migliore. L’artista Lee Yongbaek, noto in patria per la sua maestria nella videoarte nonché per la sua efficace e sapiente coniugazione di impegno politico e arte visiva, esprime con la rassegna a lui interamente dedicata (“The Love is gone, but the Scar will heal”) l’ambiguità di una società apparentemente circondata dal bello e permeata dal rispetto per la tradizione inserita, pur tuttavia, in contesti quotidiani terribili e angoscianti. Dalla raffinata Corea parte un monito per le genti del globo. Magnifici trionfi barocchi di fiori di ogni foggia e specie nascondono (anzi: proteggono conniventi, tradendo così l’incauto ammiratore) armi micidiali già impugnate per uccidere (“Angel Soldier – Photo”, in 5 scatti). Abbondanti messe di pesci coloratissimi nascondono la finzione di una pesca miracolosa che tale non può più essere, tant’è che il pesce è in realtà l’esca che lo riproduce (“Plastic Fish”). Specchi barocchi rimandano con suoni assordanti l’immagine della loro rottura attraverso la riproduzione, seducente e rallentata, del colpo che li distruggerà (altro che Pistoletto e i suoi mille mondi possibili a colpi di mazzuolo!…) in una stanza che accoglie un rito continuo e implacabile di fratture (“Broken Mirror”). Una pietà michelangiolesca è costruita con monumentali stampi per manichini d’artista: lo stampo è la Vergine e la figura risultante il Cristo compianto (“Pieta: Self-death”), mentre altri due esemplari lottano plasticamente (“Pieta: Self-hatred”) a compensare la compassione e riportare il pubblico alla cruda realtà della violenza.
La realtà rovesciata è la verità. Il resto è illusione in cui ancora qualcuno spera di poter esistere.
Semplice, efficace, tecnicamente perfetto.
Voto: 7 –
Troppo facile esaltarsi poi per la straordinaria, commovente, sublime, cattedrale senza déi di Cristoph Schlingensief, giustamente premiato con il Leone D’Oro, mentre in patria qualcuno ebbe a ridire sull’opportunità di tale gratificazione (il mondo è davvero a rovescio: da noi una cosa simile sarebbe impensabile!). Il Padiglione della Germania è trasformato nell’ultimo simulacro, l’ultimo grido disperato dell’artista – morto di cancro pochi mesi prima della 54a Biennale – allestito dai suoi collaboratori che in più di un’occasione hanno dichiarato di sperare di aver eseguito al meglio ciò che il loro Maestro aveva predisposto da tempo (pudore e modestia, da noi, altrettanto irreperibili…). E’, difatti, questa “Eine Kirche der Angst vor dem Fremden in mir” la seconda opera (concepita per Fluxus Oratorio durante la Ruhrtriennale del 2008) di una trilogia sulla malattia, terapia e agonia di Schlingensief, che nei video non nasconde il suo terrore, la negazione della morte e la sua disperazione per dover lasciare il mondo, gli amici, l’arte… I mezzi sono molteplici e di diverse provenienze stilistiche e culturali: B-movies, objets trouvées, ready-made, musica wagneriana, liturgia cantata… tutto concorre a presentare imponentemente la parabola dell’esistenza dell’artista e dell’uomo, le sue costrizioni, la dolcezza del ricordo, la bellezza di piccole cose che hanno valore solo per chi le accolse e ne fece ordinari tesori di vita quotidiana, il dolore per non comprendere la Divinità e non accettarla. La mancanza di una qualsivoglia salvezza oltre il ruolo sacro dell’artista (in ciò riallacciandosi all’amato Beuys) non permette redenzione, ma solo la disperazione di non avere tempo a sufficienza per raccontare ancora. E’ la rappresentazione di un’umanità nuda, sensibile, piena e eroica che rimane come il più alto livello cui un artista possa giungere per darne conto in termini ridondanti, eccessivi, scioccanti senza mai – miracolosamente – eccedere, in un equilibrio formale che è principio di perfezione artistica.
Voto: 7 e mezzo.
Ma ciò che incanta davvero è la bellezza (posso finalmente utilizzare questo termine?) dei suoi quadri, un’affermazione che non avrei pensato di concepire nel 2011 in una Biennale che ritorna al concetto e alla complessità linguistica e mediale come ormai si dava per scontato non dovesse più essere.
Voto: 7 – (e ulteriore ++ perché il folder informativo è tradotto anche in italiano!)
Altro protagonista annunciato è al Padiglione della Gran Bretagna: Mike Nelson presenta la variante veneziana dal titolo “I, Impostor” di un’opera già vista presso la “cugina” di Istanbul nel 2003 (“Magazin: Büyük Valide Han”). A parte l’inevitabile sottile fastidio derivante dal sapere che l’installazione non è una prémiere, snobismo che devo farmi passare perché a tutto, naturalmente, c’è spiegazione, dico subito che se l’artista con questo titolo intendeva qualificare se stesso c’è riuscito in pieno. Il Padiglione ospita la ricostruzione di un’area di un antico caravanserraglio di Istanbul, con alcuni annessi e laboratori (fra cui la camera oscura di un fotografo che ha abbandonato appese centinaia di immagini) poveri e laceri che documentano le condizioni dei residenti (temporanei o meno) del luogo. Di complessa visita, ha costrizioni di percorrenza che obbligano al numero chiuso, anche per via dei livelli di transito, uno superiore e l’altro inferiore, che affaticano l’avvicendarsi del pubblico. Nelson, che vanta una selezione in short-list di un Turner Prize oltre a diversi importanti riconoscimenti, fa della sovrapposizione percettiva-visuale (“io non sono me, e se mai fosse me, sarei qualcun altro”) e del cortocircuito cultural-temporale la sua poetica. Il caravanserraglio allestito a una biennale turca è ora in quella veneziana (contigua anche per la presunta “letteraria” similarità delle due importanti città levantine), la quale ospita l’Inghilterra in un padiglione in stile neoclassico, a propria volta un “falso” architettonico. Per me: troppo complicato, troppo concettoso, troppo didascalico, anche se incredibilmente ben costruito, e con un retrogusto amaro di astuzia artistica (duplice) che non mi abbandona durante tutto l’arco della visita.
Voto: 4/5.
Nel Padiglione francese, giganteggia l’imponente, macchinosa, costruzione in tubi innocenti di Christian Boltanski, che amo molto e che forse non è qui al suo meglio, ma che riesce a coinvolgere in un labirinto ben più fluido di quello del vicino collega anglosassone. Nell’installazione “Chance” (e ancor più nel labirinto d’ingresso “Loop”) sono presenti tutti i temi di Boltanski, il ricordo, la memoria, l’appartenenza a un unico, deperibile genere umano, la caducità dell’esistenza, il senso della fine, che conduce – attraverso l’accettazione dell’eterno ciclo – alla rinascita continua, inevitabile, casuale e al destino sempre aperto della nuova vita. La mescolanza delle sorti, il caso che sceglie la morte di uno e la nascita dell’altro sono questioni che occupano la creatività dell’artista che rende con intelligenza (e qualche caduta: il display con il numero dei morti giornalieri e, nella stanza opposta, quello con il numero dei nuovi nati – doppio rispetto al primo – è simbolo troppo esplicito, troppo esteriore) il senso di estraneità del genere umano alla gestione partecipe della propria esistenza. E così trova la sua giusta spiegazione la serie di tre sedie da comari allineate al di fuori dell’ingresso del padiglione, dal retro delle quali, all’atto di sedersi, una voce lugubre o suadente ci domanda sibillina: “E’ l’ultima volta?/Is it the last time?”. Ma poiché sia io che la mia amica siamo scaramantiche (quanto basta) e sanamente irridenti la fine che giungerà fra mill’anni anche per noi continuiamo una, due, tre, dieci e più volte ad alzarci e risederci, nell’inutile apotropaico tentativo di combattere contro un destino che, per ora, non ci fa paura.
Chi intende divertirsi con i “giochi del caso” inventati da Boltanski (è prevista anche, per i vincitori, una sorpresa inviata direttamente dall’artista) si potrà cimentare su internet in www.boltanski-chance.com.
Voto: 6+
Nel bel Padiglione dell’Australia ci attende un artista che più concettuale non si può. Hany Armanious, molto famoso in Patria, riproduce in calco citazioni dell’arte passata o oggetti poveri, rinvenuti per caso, dei quali riconsidera struttura e funzione e per i quali predispone una nuova modalità di lettura. Il calco non è ottenuto in materiali nobili, come per sottolineare la distanza ulteriore fra la techné dell’artista classico e la propria, ma in poliuretano. L’azione si risolve infine nella distruzione dello stampo e dell’oggetto/matrice originale, sempre nel solco di una contro-metafora del fare artistico. Il calco ottenuto è destinato a divenire opera d’arte e rimarrà unico e non più riproducibile. Per visitare la sua mostra biennalesca “The Golden Thread” mi addentro in una rada selva di scarni pannelli costellati da un gruppetto di puntine da disegno, un testone picassiano che osserva un brutto vaso di cristallo assemblato a un traballante tavolino con abbondante nastro adesivo (“Effigy of an Effigy of Mirage”), un piedistallo rugginoso che regge una tavola di recupero su cui giace un mattone azzurro (“Relative Nobody”, 2010), una figura totemica composta da cesti sovrapposti da cui spunta una “testa” costituita da una teiera rovesciata che contempla un tavolino essenzialissimo (“African with Doctor” opera sul tema assai amato dell’indagine di culture antiche e distanti geograficamente). Ma il messaggio è troppo complesso, artificiale, il procedimento tecnico, che rappresenta in nuce la poetica dell’artista, troppo poco intuibile, troppo sotterraneo. Tutto necessita di eccessiva spiegazione, senza che vi sia un moto spontaneo o un’intuizione poetica più profonda. E’ come se Armanious considerasse se stesso il centro dell’universo e soltanto a sé dovesse rendere conto del suo fare. Un “egoismo” (o un egotismo?) insopportabile.
Voto: 4+.
Molto affascinante invece l’operazione di recupero della memoria (e la dolcezza cui a tale recupero l’artista si arrende con grande evidenza) come atto personale (anzi, intimo) che diventa universale nel Padiglione delle Repubbliche Ceca e Slovacca, che anche due anni fa ci stupì per la bellezza della scelta curatoriale. Dominik Lang (1980), nella grande installazione “The Sleeping City”, ricolloca e dona nuova linfa vitale alle sculture del padre Jiří, che smise di scolpire, per l’imposizione di tassativi canoni formali negli anni più bui del blocco sovietico, prima che egli nascesse. Le opere, morte nella casa paterna, tornano a comunicare al figlio immagini di vita anteriore, risorgono con straordinaria efficacia, anche in frammenti ricomposti e nuovamente rielaborati in guisa artistica perché disposti attraverso soluzioni fantasiosissime da meccano settecentesco. Il gap cronologico fra le opere del padre e la complessa architettura che ridona loro senso e vita costruita dal figlio non solo non stride, ma si risolve come non vi fosse altra soluzione possibile per tornare ad un’unità finalmente raggiunta attraverso gli anni. E’ un modo bellissimo di coniugare arte, vita e lettura della Storia che ho già visto (con esiti diversi, ma altrettanto efficaci) in un’operazione condotta dal gruppo DNAProjectbox di Venezia (di cui già scrissi su Arslife) e che sempre mi affascina per la possibilità di lanciare attraverso il passato – che non viene tradito, ma anzi è fonte di ispirazione vera – un solido messaggio estetico e formale. Mi piace molto e invito il visitatore a soffermarsi a lungo per esplorare gli infiniti sorprendenti particolari di un’opera che racchiude meraviglie da ogni orizzonte visivo.
Voto: 6/7.
Buona la prova di Alejandro Cesarco e Magela Ferrero del Padiglione dell’Uruguay. Nella rassegna “Un lugar común” entrambi gli artisti indagano sul senso delle parole, delle parole scritte in modo particolare, del diario, della narrazione di fatti personali che organizzano un coacervo disperso di emozioni, di percezioni emotive del vivere per identificare infine una patria (l’Uruguay) eletta non per motivi politici o nazionalistici, ma per affezione, amore, istinto, necessità. Sebbene per entrambi potrei dire che le modalità espressive siano ancora in via di definizione, esiste una sincera volontà comunicativa attraverso l’arte che appiana alcune ingenuità formali e alcune forzature. Malgrado tutto, in particolare per la fotografia di Magela Ferrero, questo padiglione indica una via emozionale forte e pregnante che sembra comune a molte ricerche artistiche dell’America Centrale.
Voto: 5 e mezzo
Nel Padiglione dei Paesi Nordici, quest’anno in gestione alla sola Svezia (e nelle prossime due edizioni a rotazione “ceduto” a Finlandia e Norvegia), gli eleganti spazi di Sverre Fehn ospitano la grande installazione del “bosco artificiale” (“Windows, Trees and Inbetween”) di Andreas Eriksson, pittore e scultore dalla palette di colori freddi e freddissimi – con nuances che riscaldano a sorpresa – tipicamente nord-europea (che amo in modo incondizionato e che riconosco ormai fra mille “mani nazionali”). L’artista delinea paesaggi intravisti dal limite ottico di una finestra, della quale restituisce anche l’opacità del vetro, il riflesso di un oggetto al di qua dell’ambiente naturale. Una meta-visione. A terra, tracce di vegetazione e fauna, in piccole fusioni di bronzo che sembrano indicare il passaggio di un incendio devastatore, conferiscono ulteriore innaturalità alla Natura rappresentata. Una grande tela posta sulla parete di fondo (“Behind a tree”, 2010-11) dà l’impressione di essere più il ricordo di un albero che una prova dal vero. Intrigante, anche se saputello, direi. La seconda artista della rappresentanza svedese, Fia Backström nel suo singolare progetto “Borderless Bastards (multi-culti abc)” opera finalmente il salto concettuale da molti atteso: la negazione della Biennale sia come spazio fisico (non è giusto che ogni nazione abbia un proprio padiglione entro il quale esporre e non possa varcarne il limite architettonico) sia come spazio culturale (nessuno ha il diritto di affermare che questa è arte greca, norvegese, egiziana, russa, ecc., possedendo l’arte canoni intrinseci che travalicano i confini geopolitici e le istanze contingenti dei popoli). Per esprimere l’ambizioso progetto, l’artista dissemina i Giardini di “statue” (cartelloni sagomati bidimensionali) rappresentanti gli emblemi iconici dell’arte dei diversi paesi partecipanti (il discobolo di Mirone per la Grecia e così via), scelti attraverso banali ricerche sul web. Ai piedi di tali statue, la cui definizione segue la sgranatura poco attraente dei pixel, come moderno plinto, è un riproduttore sonoro che, dalla voce in lingua originale di artisti e uomini di cultura delle nazioni rappresentate, sciorina una lunga serie di luoghi comuni su quel Paese, sulla sua gente, sulle sue credenze. Sarcastica, l’artista individua ciò che ognuno di noi presume conoscere delle altrui civiltà nel momento in cui varca i cancelli della Biennale e si appresta a giudicare artisti che non conosce se non superficialmente (quando va bene). Geniale, benché non molto efficace per la difficoltà di “fruizione”, come direbbe, con l’ormai consueto orrendo gergo tecnico, chi, per l’appunto, visita la Biennale da addetto ai lavori (e non la gode, ma la “fruisce”)…
Voto: 6+.
Il Padiglione della Danimarca riserva più di una sorpresa. In primo luogo, la rassegna “Speech Matters”, curata da Katerina Gregos, ospita molti artisti “foresti” che si misurano con il concept del critico: la complessa questione della libertà di parola, che interessa non soltanto i regimi autoritari ma anche le più antiche e consolidate democrazie del globo. Corretto è quindi coinvolgere più voci e farle convergere in una sorta di Speakers’ Corner (di fatto riprodotto nell’area esterna del Padiglione con il “Pavillion for Revolutionary Free Speech” di Thomas Kilpper, Germania 1956, che permetterà a letterati, sociologi, studenti, semplici passanti di intervenire in pubblici dibattiti), zona franca dove ogni artista esprime la propria idea di identità nazionale, di appartenenza al genere umano, di libertà d’espressione.
La facciata del Padiglione è occupata dall’immenso murales “Imposition Symphony” di Stelios Faitakis (Grecia, 1976) che nello stile dell’iconografo bizantino illustra in 6 capitoli i principali episodi della storia recente di repressione, censura e illibertà. Zhang Dali (Cina, 1963) presenta 22 immagini di propaganda (“A Second History”, 2003-2010), sottolineando il ruolo fondamentale del mezzo fotografico per la costruzione infingarda di una realtà parallela e lontana dalla verità. Taryn Simon (USA, 1975) con “Zahra/Farah” espone l’immagine sconvolgente del frame finale di un film di Brian De Palma (Redacted) sulla storia di Farah, ragazza irachena (interpretata dall’attrice Zahra poi esule politica in USA a causa di questa partecipazione) rapita, stuprata e infine uccisa insieme alla sua famiglia, sterminata mentre si consumava la violenza sulla giovane, da soldati USA nel 2006. La tragedia, il cui film venne contrastato sia in Iraq che negli Stati Uniti, ritorna in tutta la sua terribile evidenza nel libero padiglione danese. Tala Madani (Iran, 1981) documenta in piccoli quadretti dal tratto infantile, crudo, grottesco e fortemente espressionista, il sopruso operato – per lo più dal maschio ma non solo – nella quotidianità del singolo come nelle fondamentali espressioni di una società ben strutturata. Han Hoogerbrugge (Olanda, 1963) invia in un gustoso video animato (“Quatrosopus”) la sua percezione personale circa i responsabili contemporanei della costrizione che in vari modi obbliga al silenzio. Si sorride acidamente quando, fra le vignette, appare un Berlusconi connotato dal sorriso da Gatto del Cheshire con cui viene ormai identificato dall’occhio straniero…
Voto: 6 – (con una maggiore attenzione al percorso, un poco caotico, il padiglione avrebbe raggiunto un punteggio superiore)
Il mondo in cui viviamo e che abbiamo voluto è surreale, a ben osservare. La noncuranza con cui passiamo dal serio al faceto, da ciò che interessa le radici ontologiche e filosofiche della nostra esistenza con la “superficie” più gretta e arraffona è oggetto della derisione degli artisti che costruiscono un classico organo a canne da cattedrale per il cui funzionamento il pubblico è pregato di inserire una carta di credito (“Algorythm”), a fine “transazione” sarà prodotto un suono (la cui casuale varietà è impostata tonalmente dal compositore Jonathan Bailey) che creerà un’atmosfera ilare e straniante al contempo.
Nello stesso ordine di pensiero, le altre opere vogliono far riflettere sul contrasto e sullo scarto di ormai difficile individuazione fra i simboli americani più noti e amati (la statua della libertà, lo sport e il culto del fisico, l’esercito, il lusso delle prime classi nei voli intercontinentali…) e la loro inevitabile commistione con la trivialità e la pochezza delle nostre vite prive di contenuti.
Ma giunge uno sferragliare dall’esterno: un atleta si appresta a correre sopra un tapis roulant che con la rotazione della pedana muove il cingolato di un immenso tank da guerra ribaltato sotto-sopra (“Track and Field”): la figura elegante del corridore mette in moto, dall’alto di quella singolare postazione, una macchina da guerra inoffensiva. L’opera migliore, per me, è comunque la meno spettacolare: un video che gioca sull’ubiquità dell’azione umana e artistica e sull’annullamento delle distanze geografiche attraverso un elemento che le accomuna visivamente (“Half Mast/Full Mast”). Separando orizzontalmente il campo visivo e riproducendo due diversi paesaggi dell’isola portoricana di Vieques uniti da un’asta da bandiera che occupa l’intero quadro del video e frange la linea mediana divisoria, si innesta un particolare asset visivo: attorno all’asta (in un paesaggio come nell’altro) si svolgono attività che paiono appartenere a entrambe le aree geografiche senza soluzione di continuità. Difficile da descrivere, ma davvero bello.
Voto: 6 e mezzo
Mi attendo come sempre grandi cose anche dal Padiglione d’Israele, che quest’anno presenta Sigalit Landau con una mostra dal titolo “One man’s floor is another man’s feeling”. La caratteristica dell’artista israeliana è di far convergere una serie di opere di differente progettazione mediale attorno un’unica idea, creare una sorta di “parco scientifico” mediante il quale il visitatore possa apprendere un concetto più e più volte ripetuto in forme differenti e da diverse angolazioni concettuali. Ama particolarmente l’area del Mar Morto (che vorrebbe fosse luogo di unione fra Israele e Giordania attraverso un ponte di cristalli di sale), emblematica dal punto di vista storico e geo-politico, per esprimere la propria poetica dai contenuti universali e in questa Biennale riassume significativamente ogni aspetto della sua arte in maniera efficace e esteticamente accattivante. E così le reti regalate dai pescatori di Jaffa non contengono il frutto del lavoro e del mare, ma un meraviglioso cumulo di cristalli luminosi e traslucidi, privi di vita (“Salt Crystal Fishing Net”). Un bellissimo video (“Salted Lake”) gioca sul calembour visivo degli scarponi da lavoro ricoperti di sale posti sulla superficie ghiacciata di un lago centro-europeo: nell’arco di una giornata essi scioglieranno il ghiaccio e lentamente sprofonderanno nell’acqua limpida. Pare una metafora ben riuscita sull’illusione del mascheramento, di ciò che vorremmo essere e che non potremo, per quanto ci sforziamo a dissimulare comportamenti non nostri, mai divenire. In questo gioco pericoloso, chi finge è destinato a perire lasciando l’altro intatto benché ferito. Dalla balconata del primo livello dove si trovano tutte le opere descritte, si osserva un tavolo circolare con alcuni video che mostrano una bimba sotto di esso che gioca e mette in fila le scarpe di coloro che sono seduti ad ogni postazione (“Laces”). Anche qui l’illusione del doppio livello di lettura è penetrante (persone vere siedono ai computer e osservano le immagini di un’azione che non li riguarda ma che coinvolge il proprio spazio), ma l’ultimo atto è nel piccolo giardino esterno del padiglione: le scarpe che la bimba ha accuratamente riposto giacciono in circolo prive dei proprietari su quello che pare essere una sorta di cenotafio. Ogni vita, ogni esperienza hanno destino comune.
Tutte le opere di Sigalit Landau sono “mosse” idealmente da un intricato sistema di condutture (“The Pump Sculture”) installato al livello terreno del padiglione che rumorosamente producono energia per le attività intellettuali svolte al piano superiore.
Poetico, di grande impatto visivo e concettuale, alto in alcune trovate espressive.
Voto: 6 +.
Voto: 7
Nel nobile Padiglione di Finlandia, disegnato da Aalvar Aalto come struttura lignea temporanea su suggerimento dell’amica e collega Maire Gullichsen e poi rimasto così perché fortemente identitario della cultura finnica, l’artista dalle molteplici radici tecniche ed espressive (ceramica, pittura, video…) Vesa-Pekka Rannikko presenta il suo tentativo, affascinante ma per me ancora imperfetto, di costruire le dimensioni mancanti agli oggetti proiettati attraverso la sovrapposizione di immagini sino a che la percezione dell’occhio umano riesce a modificare essa stessa la realtà e a renderla tridimensionale. Il padiglione di Aalto è parte integrante dell’opera di Rannikko (“All Structures are instable”) al punto che l’ingresso è mascherato da ondulati d’acciaio e pali variamente disposti. L’interno è poi modificato in funzione dell’installazione. Le azioni dei diversi video, proiettati simultaneamente e sovrapposti nell’ambiente, sono indipendenti ma concorrono a formare un’unica narrazione con un unico protagonista che vive molte esperienze contemporaneamente. L’intenzione è stimolante, ma la resa ancora da definire.
Voto: 5+ (perché il progetto è elevato e merita credito).
E, invece, un’ariosa corte in fronte al padiglione statunitense accoglie con inusitata semplice eleganza (è la prima volta che vedo camerieri in divisa che porgono trionfanti le glacettes di champagne o prosecco ai tavoli) i visitatori affaticati che una buona organizzazione smista nella scelta di panini gustosi alla pasta di bretzel (da non credere!), freschi tramezzini davvero veneziani (da credersi ancor meno!), insalate vere e nonà la Gilardi… Un trionfo, insomma. Fra noi mortali assisi al fresco, si aggira anche, in un giovedi qualsiasi, un tranquillo François Pinault che si gode i Giardini in solitudine. Voto: 8, ma non c’entra con l’arte, quanto con lo stomaco in modalità pasto-veloce.
Rinfrancate, affrontiamo, prima di entrare nel clou della festa, il Padiglione di Olanda, dove una varietà di intellettuali di diversa estrazione è stata coinvolta a ridiscutere il ruolo dell’Artista in quel Paese, nel quale sostegno alla didattica e alla creazione artistica, nonché partecipazione attiva dello Stato nella progettazione culturale sono sempre stati garantiti e costituiscono un vanto della patria di Rembrandt, Hals e Vermeer nonché di Rietveld e Stam. Oggi quell’idillio subisce i colpi di un progressivo decremento di fondi e d’interesse anche da parte, sembra, della comunità tutta che sempre trovò nell’identità nazionale e nei forti legami di questa con la cultura e il progresso nelle arti un suo punto di forza. In questo senso gli artisti e gli intellettuali, chiamati “alle armi” per questa strenua difesa – pur in via di ridefinizione del sistema – dell’arte e della comunità ad essa afferente, costruiscono un grande ambiente comune caratterizzato da corners assegnati a ciascuno diversi per stile costruttivo e funzioni. I partecipanti sono accomunati dal desiderio – mi pare – di fornire un nuovo impulso all’arte olandese senza per questo negarne le intime (nonché anch’esse tradizionalmente acquisite) relazioni conla Storia di altri Paesi.
Per “ Opera Aperta/Loose Work ” si intrecciano le opere e le azioni degli artisti visuali JohannesSchwartz, JokeRobaard e BarbaraVisser, la graphic designer MaureenMooren e gli architetti HermanVerkerk e PaulKuipers. Oltre a ciò, la Fondazione Mondriaan che presenta il progetto si allea con la Fondazione Olandese per la Letteratura e l’Archivio per le Arti Performative: da questo connubio sono scelti lo scrittore SannekevanHassel e il compositore YannisKyriakides.
Interessante proposta, allestimento accurato e scenografico, un po’ troppo freddo e attento alla perfezione, un’abitudine alla quale gli olandesi, che qui dovevano sporcarsi le mani e convincere con una passione cui non sono forse mai stati adusi, non rinunciano neanche nel momento del bisogno…
Voto: 5/6.
Nell’attiguo Padiglione del Belgio, curato da Luc Tuymans (la selezione del colore, la purezza della sottrazione del gesto pittorico, uno dei più grandi artisti internazionali degli ultimi trent’anni…), pensiamo di trovare tutt’altro rispetto a ciò che vediamo. “Feuilleton: Les sept péchés capitaux” è un coacervo di opere diverse nelle tecniche e sovrapposte, sovrabbondanti, accumulate e dissonanti (l’immagine di Berlusconi ferito dal souvenir del Duomo è contigua a quella di Pasolini sulla spiaggia di Sabaudia, attraversata quest’ultima da una pennellata greve). Sta nella prima repulsione il senso del lavoro dell’artista AngelVergara, che confida non tanto nel classico tema della rappresentazione delle nostre abiezioni più profonde (che non sembrano davvero protagoniste, a ben vedere) quanto nello choc dato dal provocatorio accostamento di linguaggi diversi non congruenti (davvero incongruenti) per formare il pubblico a un livello di osservazione e di comprensione parallelo e più distaccato rispetto a quello che ci vede coinvolti in una realtà confusa e caotica. A me sembra che le qualità formali siano piuttosto evidenti ma che l’insieme risulti troppo concettoso, irrisolto, faticoso. Tuymans ci assicura che è ciò che vuole l’artista, ma – con enorme dispiacere nei confronti del mio amato pittore di ombre immaginate – non è ciò che voglio io.
Voto: 5.
Nel nostro temporaneo percorso a ritroso, è il Padiglione della Spagna, che ci dicono interessante quanto mai, ma c’è molta gente. Decidiamo di non perdere tempo prezioso e di rimandare la visita (errorissimo!). E quindi ci dirigiamo all’ex Padiglione Italia che un super-curatore dotato di super-poteri orbeterraquei come Vittorio Sgarbi non ha reclamato per sé, l’unico atto che avrei concesso volentieri al suo ego, perché avrebbe avuto un senso, per una volta, collettivo e identitario e avrebbe accontentato anche i più restii a concedere allo show-man credito anticipato.
Rinunceremo al Padiglione di Spagna (vedremo poi, per mancanza di tempo), che riceverà posteriore visita e votazione, con mio dispiacere.
PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI o PADIGLIONE CENTRALE
Il Palazzo delle Esposizioni espone la mostra di Bice Curiger, “Illuminazioni”, che individua il carattere, la poetica, lo stato dell’arte secondo la studiosa zurighese, direttrice di questa edizione della Biennale veneziana. La seconda parte di questa fatica, che trova ospitalità all’Arsenale, sarà trattata nel mio II itinerario.
La bella opera di Latifah Echakhch (1974, marocchina, vive e lavora in Svizzera) accompagna il visitatore dall’ingresso dei Giardini sino al Padiglione Centrale; con “Fantasia” del 2008,la Echakhch sintetizza la vanità delle riunioni ufficiali dei molteplici Enti inter-nazionali costituitisi nella seconda metà del XX secolo che intervengono per decidere le sorti del globo, spesso a sproposito, spesso con soluzioni inefficaci e impotenti, spesso con veri e propri atti d’arbitrio. I pennoni senza bandiere e senza identità, abbandonati a se stessi e destinati a inclinarsi sino al rovinìo, non hanno però quella potenza espressiva che una simile installazione richiederebbe: collocati in un ameno giardino, fra deliziose casette anderseniane, in un vialetto di chiassosi e arzilli turisti della cultura, dissipano vanamente il loro messaggio.
E così appare anche (decorativo…) l’intervento in facciata di Padiglione del newyorkese Josh Smith che spennellazza il titolo della mostra, sbrodolandone le letterone. Sembra un’operazione fashion più che un’opera d’arte.
Ma sul cornicione sopra le colonne, si srotolano a schiera i piccioni del nostro Maurizio Cattelan che ci benediranno un po’ ovunque anche all’interno del percorso espositivo. E’ l’esplicita citazione di “Tourists” già presentata alla Biennale del 1997, qui rinominata “Others” con un massiccio incremento di elementi impagliati a guardia (o irrisione) dei visitatori. Molto su quest’opera del 2011 è stato detto e scritto anche perché costituirebbe il commiato del Padovano dalla scena pubblica dell’arte. Non desidero anticipare nulla del mio giudizio sulla mostra della Curiger, perché – in teoria, e a parte i titoli di convenzione che devono colpire per attrarre l’occhio e i giornalisti prima della vernice – una mostra impostata dal curatore eletto della Biennale di Venezia dovrebbe avere una linea precisa, una continuità di intuizioni espressive, un intento didascalico (del proprio concepire l’arte hic et nunc) e uno slancio nella contemporaneità più stretta che trascini (e motivi) risolutamente tutto l’evento che s’impagina su di essa. I piccioni di Cattelan sono presentati in Biennale nel 1997, moltiplicatisi (per clonazione post mortem?) arrivano al 2011. Qual è lo scarto semantico che distingue le due opere? Per ora non aggiungo altro…
Nella hall circolare ci accoglie l’eccellente pensilina festiva con 80 luci intermittenti della serie ”Marquee” prodotta espressamente per la Biennale 2011 da Philippe Parreno, l’artista algerino che amai già due anni fa qui a Venezia, e che sintetizza con efficacia, senza rinunciare ad una poesia difficile da trovare altrove (me ne accorgerò…), la sua gratitudine per la manifestazione ma anche il rispetto per l’Ospite che entra nel gioco della rassegna sotto i migliori auspici.
In effetti, lo straordinario ”Spazio Elastico” del 1967-8 di Gianni Colombo, uno dei nostri migliori cinetici, sembra seguire questa inclinazione allo stupore intellettuale inaugurata dal giovane collega, ma è installato in un cuneo strettino, il che lo rende forse ancora più affascinante, ma non permette una piena e soddisfacente navigazione in un ambiente che il pubblico ricrea ogni volta secondo la propria inclinazione e secondo il caso. Mi stupisce comunque la citazione.
Sulla parete opposta del largo corridoio (in realtà un ottagono attraversato da un lungo camminamento) che porta alla sala maggiore del Padiglione, in antitesi (o, meglio, sintesi) a Colombo, un tuffatore disegnato in un continuo fuoco d’artificio, elegantemente carpia il proprio corpo e s’inabissa nel vuoto. “The Jump Video” di Jack Goldstein, infelice artista canadese morto suicida nel 2003, nel 1978 e con mezzi innovativi che apriranno infinite possibilità alla ricerca sul corpo umano in azione all’interno del proprio spazio vitale, dipinge con maestria un uomo di luce, lo mette in moto, si innamora del singolo, incommensurabile, inimitabile istante del volo, e non abbandona la luce a cui è devoto sino alla fine del suo movimento di vita.
La prima sala, pivot della mostra curatoriale, raccoglie i tre grandi teleri di Tintoretto (l’ “Ultima Cena” del 1591-4 da San Giorgio Maggiore, il “Trafugamento del corpo di San Marco” del 1562-6 e “La creazione degli animali” del 1550-3 dalle Gallerie dell’Accademia) che tanto hanno fatto parlare di sé, anche in relazione a una sorta di “gara” fra curatori che ritengono trovare ispirazione col richiamo alle radici del Contemporaneo nell’arte dell’Antico. Sulla carta, l’operazione, ancorché azzardata, ma accettabile in ambito teorico e di relazione estetica da circostanziare, se mai, con infiniti distinguo, qui ci trova sbalorditi: cosa dovremmo fare del sublime “Trafugamento” fra piccioni ammiccanti e video noiosi, fra scritturini su cartine e fotografie minimal, pezzi di pongo e proiezioni lenticolari? Quale nesso dovremmo cogliere con l’Oggi che non sia intuibile anche in ogni innovatore dal ‘200 in poi, italiano, spagnolo o fiammingo? Perché Tintoretto e non El Greco o Rembrandt? A parte il discutibile omaggio lagunare, Bice Curiger compie il primo passo falso, con l’intenzione ingenuamente letteraria (o scientemente provocatoria, il che sarebbe peggio) di ricomporre uno choc culturale fra epoche differenti per inquietudini e dilemmi artistici, sociali, politici, fra mondi che non sono affini se non nella decantazione di un calendario che numera giorni e anni e che riferisce di evoluzioni le cui origini senz’altro si trovano nelle ere precedenti, ma che sono, nella cultura dell’Uomo, talmente distanti da non poter essere più richiamate se non con un inutile, del tutto irrazionale paragone.
La citazione disturba, disturba l’arroganza e la pretesa di mostrar di sapere (la Curigerpiù di noi) perché Tintoretto sia obbligato a discorrere con Bruno Jakob, l’altro unico occupante la sala, e le sue invisibili, albeggianti pitture di vapore (antitesi sin troppo facile alla luce, ma l’antitesi non regge perché fondata su un luogo comune formale urticante…). Mi disturba anche sapere che sino a Novembre le tre antiche meraviglie non torneranno nelle loro preziose sedi per il capriccio intellettualoide di chi non sapeva far altro che addomesticare il Veneziano ad un esperimento che non gli si confà. Davvero irritante.
Se queste “Illuminazioni” sono di superficie, lo saranno anche gli “Oscuramenti”…
Nell’ampia sala sotterranea che due anni fa ospitò il lussureggiante giardino geneticamente modificato di Nathalie Djurberg e a cui si accede dai Tintoretti malmenati, il buio è talmente assoluto che non ci si avvede neppure delle poche persone sedute a terra (non ci sono sedie), talché è arduo non rovinarvi sopra maldestramente. Il quasi-quarantenne ierosolimita Omer Fast proietta il suo “Five Thousand Feet is the Best”, una lunga intervista a un operatore di un aereo telecomandato Predator B. La lentezza del dialogo e delle immagini (del tutto avulse dall’argomento guerresco) fanno pensare a un film della Nouvelle Vague (così, alla buona) con caratteristi tanto espressivi quanto distaccati dal contesto. E’ eterno, compulsa alla claustrofobia, impossibile da seguire per intero (come molte altre opere video della rassegna), soprattutto per l’assurda mancanza di una qualsivoglia seduta. Una fatica che non si può chiedere al visitatore e non rende omaggio all’artista, un’inutile prova di resistenza senza fascino, calata da un’altezza imperscrutabile (nel vero senso della parola!) che rende i magnifici e impegnativi video di Douglas Gordon una passeggiata per gli occhi.
Riemergo dal baratro e procedo già senza capire dove devo andare.
E difatti entro in una stanza dove altro scialbore smorza la potenza del ‘500: i talismani che Gedewon, artista etiope accostumato agli insegnamenti della chiesa ortodossa del suo Paese, traccia con sottili segni a matita e penne a sfera e rari colori tenui carte propiziatorie dai titoli emblematici “Unknown”, “Talisman” o “Popularité”, seguendo una sorta geomanzia rituale che attinge al sincretismo delle origini del culto cristiano e che destina l’opera dell’artista-sciamano (definitivamente, assolutamente sciamano) al pubblico che ne trarrà guarigione. Lodevole tributo, interessante fenomeno, opere mediocri che non superano la giusta considerazione “occidentale” per un autore che deve più all’etnografia che all’arte vera e propria. E chi se ne importa se io non sono politicallycorrect: questi ghirigori sbiaditi e apotropaici non attirano l’occhio e paiono fuori posto.
Retrocedo in un ambiente dove si proietta il video di Nathaniel Mellors“Hippy Dialetics (Ourhouse)”: i due protagonisti, esaurite tutte le possibilità comunicative, cercano – quasi scavando – all’interno delle reciproche fauci il significato di parole che non sembrano convincere né l’uno né l’altra. Mi dicono che è metafora squisitamente politica, ma a me pare di vedere qualcosa di più profondo e che mi piace di più. Vorrei non limitare quest’opera alla pur nobile urgenza sociale ben rappresentata. E’ davvero interessante. Con “Venus of Truson (Prehistoric Photogrammic Originals)”, del 2011, cinque fotogrammi (di una serie di 23, tutti sold out ciascuno per550 pound con cornice su ICA, giusto per dare una nota di colore…) in monocromia, mi pare di riconoscere il medesimo estro formale di notevole levatura.
Ottima la sala di Cindy Sherman, costruita come di consueto attraverso le sue famose metamorfizzazioni qui concepite come grandi murales in PhotoTex incollati alle quattro pareti. La presenza inquietante della gigantessa, tutt’altro che gentile se pur immersa in zuccherosi paesaggi da idillio campestre, piace sia per la perfezione dell’impianto narrativo, sia per la maestria dell’architettura, ma anche per la rassicurante abilità e la sottile, inquietante decadenza chela Sherman, consumata polimorfa, riesce a suscitare senza cedimenti in ogni nuova impresa.
Subito di seguito, superando il varco protetto da una minacciosissima “Eva” shermaniana, entriamo in un ilare spazio in cui bimbi spiaccicano e cincischiano enormi quantità di pongo rosso-bianco-nero (colori della bandiera egiziana) su pareti e pavimento per espressa richiesta del gruppo (o artista) anonimo Norma Jeane che con ”Who’s Afraid of Free Expression – # Jan25 (# Sidibouzid, # Feb12, # Feb14, # Feb 17…)” non ha necessità di spiegare il motivo e la circostanza della sua partecipazione in Biennale, in particolare considerando (ma non necessariamente) i colori della malleabile plastilina. I bambini o chi agirà come loro cambieranno il mondo. Anch’io smodelliccio un salsicciotto bianco/rosso perché non resisto mai ai giochi artistici e penso che bello sarebbe seminarlo in giro come novella Cadere. Ma questa è l’unica cosa che il liberissimo visitatore non può fare. Peccato.
Che Dio benedica Pipilotti Rist che domina con una tale abilità le potenzialità formali, espressive e artistiche dei suoi video da sembrare mano rubata alla pittura o alla fotografia, ma non è: è la mano santa della video arte, e tanto basti. I piccoli gioielli “Laguna”,“Prisma” e “Anti Materia” del 2011 sono tre vedute veneziane di un Canaletto in preda ai fumi della psichedelia sulle quali si incidono video immaginifici e seducenti di corpi fluttuanti, nascite, tempeste solari e albe atomiche…. E’ talmente bello l’insieme e così emozionante verificare che qui – davvero e non per forzatura – Venezia parla ancora il linguaggio della contemporaneità fornendo “buon materiale” per menti acute e veri artisti, che non so proprio che altro dire.
Un altro ierosolimita, pressoché coetaneo del collega “interrato” nell’antro sottostante la luce tintorettiana, Seth Price, occupa un’intera sala costellata con le sue tecniche miste su PETG o polistirolo, particolari per quell’essenza informale che sembra riesumata in modalità nuova. Tutte le opere sono del 2011 e hanno titoli come “Paper”, “Noodles”, “Lipstick”,“Untitled Yum” o più complessi. Non riesco a capire se mi piace: c’è qualcosa di inspiegabilmente nuovo che attira e qualcosa di indubitabilmente “vecchio” che repelle. E’ molto amato, ma non capisco tutto il clamore. Dovrò vederne altre, di opere di questo artista così inusuale ma apparentemente privo di qualità (un musiliano dichiarato? Forse).
Da questa sala di colori sfocati e cordami colanti, salgo verso l’ammezzato che ospita il para-padiglione (ambiente che contiene opere di altri artisti) di Monika Sosnowska. “Antechamber” è un interno di casa piccolo borghese concepito a forma di stella, le cui pareti sono arredate da una dozzinale carta da parati. Porte si aprono per accedere in stanze costrette e astrusamente trapezoidali entro le quali trovano posto le “collezioni” dei proprietari. Molto ben concepito e in tono con il proposito del para-padiglione (io me lo terrei volentieri anche per uso futuro…).
Nell’appartamento impossibile della Sosnowska, David Goldblatt fotografa in bianco e nero dal 1963 la vita, la realtà e l’evoluzione epocale delle relazioni sociali in Sud Africa. Il taglio delle immagini è da reportage, ma la straordinaria bellezza delle foto aeree di agglomerati urbani, “Areals”, o degli scorci di Johannesburg fra baracche e quartieri alti o simboli di un consumismo solo immaginato dai più e dei ritratti intensi e preziosi di ex-detenuti per cui, oltre il nome prende spazio in didascalia la loro storia di inutile perdizione per motivi di “banale” miseria, rivela una tale dignità di intenti, una gentilezza di sguardo che ogni frammento, anche il più crudo, possiede in sé una forza estetica disarmante. Il contrasto su cui gioca l’artista e che colpisce il pubblico è riuscito. Vera, e non commiserante, bellezza nei bassifondi e nelle storie ingenerose di chi per caso si trova nell’altra metà del cielo. Sarebbe bastato poco (pochissimo) e Blitz Maaneveld non avrebbe mai ucciso l’uomo con cui aveva giocato a carte sino a poco prima…
In un’unica stanza, il londinese Haroon Mirza fa da perfetto contraltare alle fotografie del suo “coinquilino”: nell’installazione “Sick”, luci e suoni di traffico e di esterni variamente concepiti e predisposti con diffusori sonori precipitano il visitatore in un’atmosfera che poteva essere solo immaginata dalle sognanti velature di Goldblatt. Come dire, hai provato a credere che la bellezza salverà il mondo, ma il mondo è questo: una catena di lucette tremolanti per relazioni fugaci, rumori incessanti e fastidiosi, scatti interrotti di civiltà. Non mi dispiace, anche se mi aspetto di più dall’altra opera in Arsenale. E laggiù, andrà molto meglio, in effetti.
Scendiamo quindi nuovamente al circuito curigeriano.
Sigmar Polke pretende il giusto omaggio per la sua recente scomparsa in un’ampia sala all’interno della quale l’occhio scivola ammaliato (dopo la doverosa sosta su “Polizeischwein”, ove un’anonima guardia di frontiera è inginocchiata accanto al famoso maiale con cappello d’ordinanza, opera presentata nell’edizione biennaliera 1986 all’esterno del Padiglione tedesco) sui dolenti e magnifici quadri della serie “Strahlen Sehen” del 2007. Reti metalliche, resine su tessuto, tecniche complesse e minuziose, immagini di umani colpiti dalla “luce” della divinità, della ragione, dell’intuizione improvvisa… Commovente e bello.
Passo in uno sguincio e quasi non mi avvedo dei piccoli, curiosi collages di Cyprien Gaillard, trentenne parigino, che presenta una parte della sua serie del 2010 “Angkor Beer”: amene cartoline di nazioni esotiche sono impaginate elegantemente e confezionate con un suggello costituito dall’etichetta delle birre locali e internazionali diffuse dal commercio globale. Niente si salva: nei più reconditi luoghi di vacanza dorata, il fascino è definitivamente perduto con i simboli (accettati, persino graditi) di uno scambio di merci che ci farà perdere il senso della distanza fra civiltà e della salutare identità culturale. Abbastanza efficace, anche se il messaggio richiederebbe più impegno espressivo.
Gabriel Kuri mi piace sebbene – come spesso qui – appare “decorticato” dal contesto. Anzi, la poetica e geniale scultura “Three Arrested Clouds” del 2010, per la quale due pietroni dal colore di ferro appesi in aggetto uno sopra l’altro alla parete trattengono in prigionia tre paia di calzetti di cotone appallottolati e diligentemente impilati quasi magro ripieno di un panino da Titani, è bella davvero. Mentre l’uso di materiali poveri in guisa esteticamente accattivante, se ridondanti o troppo essenziali, mi piace meno (come l’asticella di bambù/colonna che si perde nel soffitto della sala, ad esempio).
La scelta di esporre Luigi Ghirri da parte della Curiger è talmente estranea a qualsivoglia pertinenza all’interno di questa rassegna, a meno che non si intenda che Illuminations sia una costellazione di monadi e non una mostra con un progetto critico definito, che – per rispetto del grande emiliano – non intendo neppure giudicarla. E arresto la penna, profondamente irritata. Un altro omaggio a sproposito? Una captatio benevolentiae che lascia il tempo che trova.
E anche l’intervento dei pur eccellenti Fischli e Weiss sembra abbandonato al caso, ancora una volta, fondato su questioni che sembrano dettate dall’esigenza di compiacere il pubblico con qualche nome di spicco o qualche opera di sapore “rassicurante”, cosicché lo si attraversa senza quasi volerlo osservare.
Del resto, nella sala seguente, lo svedese Karl Holmqvist ripercorre lo stile razionalista in architettura del nostro più celebre Ventennio con l’ennesima citazione. Essendo egli principalmente poeta, riesco ad apprezzare l’idea di mettere in luce in modo brutale (ma squisitamente ammaliante) l’iperbole connessa al “monumento” e all’epoca storica di riferimento, emblema quanto mai efficace del distacco fra l’identità di un popolo, la sua natura e la sua cultura e la politica dei governi che, laddove intensifichino un legame solo esteriore con la comunità che dirigono, significano invece lo scollamento fra quest’ultima e la concreta azione politica.
Tuttavia la sala è confusa da altre opere che mal si pongono a contorno di questa imponente “città nuova”. E’ un vero disdoro: perdono inesorabilmente efficacia le prove (altrove senz’altro importanti) sia di Guy de Cointet che fa dell’ “ortografia misterica” la ricerca di un’esperienza linguistica innovativa per la California degli anni ’70 e ’80, sia soprattutto dell’interessante ma quasi invisibile Jeanne Natalie Wintsch, singolare rappresentante di artbrut ante litteram che anticipa forse la medesima ricerca di de Cointet, con un maggior distacco dalle imposizioni formali, una più profonda consapevolezza della funzione (terapeutica?) del segno. L’artista, nata a Varsavia nel 1871, ricoverata poi in ospedali psichiatrici svizzeri e morta nel 1944, si abbandona a una consapevole, impressionante modernità. Meriterebbe approcci più seri e non confinati a quella passione (ormai s’è capito) per la comunicazione pura, la grafia, l’estetica del segno che arricchisce chi lo esegue (e quindi diviene Essere Superiore) di cuila Curiger è probabilmente preda.
Riprendo il percorso cercando di esaurire (in barba alle numerazioni della mappatura, ormai inutile) l’ala del Padiglione che sto percorrendo per poi tornare verso l’ingresso principale.
Mi piacciono i racconti che Marinella Senatore dipana attraverso i molteplici interventi sonori di 500 “attori” fra studenti dello IUAV, operai ed ex operai di Marghera e le loro famiglie: ognuno lancia una breve nota autobiografica, intensa, sulla fatica del lavoro, sull’onore e la dignità. L’opera, “Estman Radio Drama (A radio Drama in 4 chapters)”, 2011, è stata trasmessa anche attraverso radio locali. La bellezza sta nella composizione a più mani (voci) che conferisce ulteriore lustro all’idea di un’identità collettiva ritrovata con la necessità di rendere conto della propria esistenza nel lavoro.
Elegante, anche se sommessa, l’opera di R.H. Quaytman, bostoniano, che amministra con levità i suoi studi tutti europei (dal National College of Art and Design di Dublino all’Institute des Hautes Études en Art Plastiques di Parigi sino all’Accademia Americana in Roma). Mantiene un equilibrio formale sin troppo estetizzante, anche se, di sicuro, la serie “I Modi, Chapter 22” piacerà pazzamente a più di un collezionista, così come piacque al MoMA e al Museum of Modern Art di San Francisco. Non male: un po’ stucchevole, alla fine.
L’iraniana Nairy Baghramian (1971), di casa a Berlino, propone un menu in salsa dada con omaggio ai Do Forni (celebre ristorante veneziano) allestendo delle tole (tavole da pranzo) che sdilinquono gommose e mollicce sui loro stessi sostegni. Ci sono anche i “do” forni in acciaio. Gradevole quanto gentile calembour, ma si ha la sensazione che appartenga a una cifra personale la quale, trovata la chiave, non si ha intenzione di mollare sino all’ultimo, esausto esperimento.
Passo dall’interno delle sale già visitate e giungo nell’urticante sala di Kerstin Brätsch con i suoi pannelloni poco vario-pinti, le impennate di brutto plexiglass colorato, il suo circuito privo di qualsiasi attrazione, il suo tratto ordinario e affetto dal gigantismo che, in altra dimensione, non avrebbe appello. Scopro che – addirittura – è un gioco: l’artista fonda con Adele Röder nel 2007 DAS INSTITUT, falsa agenzia di import/export con cui pretende aver prodotto questa gran cosa e che ha la specifica funzione di esaltare lo scambio mercificato dell’opera d’arte. Di certo, non di queste orribili telone senza carattere…
E in simile ambito, ma con ben diversa qualità artistica, si muove l’opera precisa e “americanissima” di Llyn Foulkes, che con tratto Pop, ma gusto surrealista, indaga e analizza la società statunitense con maggior partecipazione (e preoccupazione) dei colleghi che sfateranno i miti della Nazione più potente del mondo. Foulkes è preoccupato, e si vede: il noto ritratto di Washington con volto di Mickey Mouse allarmato, l’uomo la cui porzione inferiore del viso è impacchettata da un foglio legato strettissimo con cordino sottile… una risata amara che risalta in questa rassegna e approfondisce il ruolo dell’artista nella società.
Siamo alla fine. Molte volte ci siamo perse (come di consueto), ma non sentivamo la solita ansia di ritrovarci in nome del “corri, guarda cosa c’è qui!”. Cominciamo a sentire il peso della visita, dello sforzo di connettere in un’analisi coerente le opzioni di Bice Curiger per questa Biennale, ed è sforzo notevole.
L’ultima sala che visitiamo ci dà il colpo di grazia. Otto immense telone di Christopher Wool (Chicago, 1955), che scopriremo essere – fra l’altro – serigrafie su lino (perbacco!) con identica immagine in variante limitatissima di colorazione, impegnano l’occhio nell’ennesima futile grandeur da ipertrofia e nell’inutile sforzo di reperirvi un senso qualsiasi, la stanchezza è tale che la delusione, peraltro incrementata nell’ultima mezz’ora, non riesce a trovare le parole per spiegare a noi stesse e reciprocamente perché diavolo dovremmo apprezzare tali terribili macchioni di un Rorschach alle prime prove di stampa (poi, meglio Rorschach, di sicuro!). Titolo (unico per tutte): “Untitled”, manco a dirlo.
Conclusioni : la “sottile linea rossa” di Bice Curiger è contrassegnata da un intellettualismo frigido e compilatorio che più che illuminare, rannuvola. La rassegna – sino a qui: devo ancora vedere l’altra sezione all’Arsenale – pare una tesi scolastica di dottorato alla quale si chiede di essere corretta, comprendere nella scelta delle fonti un po’ di “storico”, un po’ di “nuovo” (con moderazione, per incontrare un gradimento più vasto possibile), un po’ di destabilizzazione colta (inserendo del tutto inutilmente tre meravigliosi Tintoretto), mantenere il legame con l’ “ecosistema di riferimento” (Venezia) e non uscire mai dal tema.
Ma che tema è?
Come spesso accade nelle tesi prudenti, il titolo è roboante e il contenuto modesto non conseguente alle aspettative della copertina in finta-pelle dai caratteri dorati impressi (si usa ancora così?). Lo svolgimento, poi, risente delle “origini” neppur troppo velatamente: numerosi anglosassoni/statunitensi, alquanti svizzeri (non credo di averne mai visti così tanti insieme!), qualche italiano astutamente scelto (non importa se del tutto privo di relazione con il resto), diversi israeliti… Nessuno scandalo, per carità, cautela ovunque. Anche nelle scelte delle stesse opere, in particolare dei più noti (con l’esclusione, forse dell’impagabile Pipilotti Rist, vera Maestra…), si nota la volontà di un tono sommesso, burocratico, da topo di biblioteca, da prima della classe.
Ci sono belle opere (posso dirlo ancora?), ma sembrano spegnersi “là dentro”: in nulla hanno goduto dell’auspicio riverberante del Maestro veneziano, e l’averlo inserito come Ape Regina nel cuore del favo è stato un azzardo mal riuscito che il resto della mostra (e degli artisti) sconta pesantemente.
I piccioni di Cattelan ci seguono con lo sguardo vitreo, già multipli per prossimi incanti fortunati in terra anglosassone (sicuramente), ridacchiando sommessi, come vuole il mito e l’Autore: il fatto è chela Curigernon lo sa. Ritenne forse che l’Italiano poteva contentarsi di qualche illustre nome gettato nel mucchio, qualche eterna promessa che ancora deve affinare le sue armi, un’icona che piace alle signore. Probabilmente ridono anche di lei.
Così sconfortate e anche un poco imbufalite perché noi, alla Biennale, ci teniamo eccome e siamo convinte entrambe che la mostra curatoriale dovrebbe essere il biglietto da visita (non a caso più riverito, atteso, analizzato, pubblicizzato, illustrato, diffuso nelle relazioni e discussioni specialistiche di critici e divulgatori) della manifestazione d’arte più importante in Italia, ci avviamo rimuginanti a varcare il ponticello che separa l’isola dei Giardini da quella di Sant’Elena che ospita il resto dei Padiglioni.
PADIGLIONI NAZIONALI AI GIARDINI SULL’ISOLA DI SANT’ELENA
Il Padiglione del Brasile, progettato nel 1964 nel sito dove era il colonnato semicircolare del Padiglione Venezia e famoso per la sua gentile prossimità con la vasca scarpiana popolata da rospi smeraldini (una vera meraviglia che la recentissima ristrutturazione dell’area ha depauperato dei suoi legittimi residenti – i quali, tuttavia, in fase evolutiva attualmente “girinesca”, vedemmo con piacere si stavano preparando a ridare serenità al luogo), offre al pubblico la parabola creativa di uno dei suoi artisti più noti dell’ultimo cinquantennio, Artur Barrio, nato nel 1945 in Portogallo, trasferitosi in Brasile dieci anni dopo e tornato in Patria nel 1974 con la lotta d’opposizione al regime di Salazar, attraverso la sua rassegna “Registros+(Ex)Tensões y Pontos”.
Barrio è un radicale assertore della funzione politico-sociale dell’azione artistica e si pone in aperto contrasto con le correnti formali brasiliane più note della seconda metà del secolo scorso (il concretismo e l’architettura modernista, ad esempio). Nel Padiglione si respira “aria sporca”, corrotta: rappresentazioni fotografiche (“Situaçoes”, serie iniziata nel 1969 e continuata per anni) di mucchi di rifiuti, scarti organici, discariche in cui sono gettati involucri insanguinati che gruppi di curiosi e polizia osservano con circospezione, i medesimi involti putridi collocati nelle strade e piazze centrali di Rio de Janeiro a significare la “riemersione” di reietti scomparsi per opera degli squadroni della morte; ma anche singolari inquadrature di inattesa bellezza. Nella seconda grande sala, Barrio ritrova i medesimi spunti tematici per realizzare per la Biennale la sua idea di degradazione quotidiana in Brasile e nel mondo. Lorda le pareti casualmente, vi scrive frasi di protesta generica o puntuale, abbandona casse di rifiuti a decomporsi o scarti di mercato del pesce, tende fili come abusivi links elettrici e televisivi da favela…
Malgrado la sua conclamata avversione alla critica e ai premi espressa in un Manifesto nel 1970, Barrio deve aver pensato che, a parabola artistica esperita, poteva permettersi di accettare il riconoscimento pubblico della sua coerenza. In tempi recentissimi, difatti, riceve premi internazionali e l’invito veneziano. Meglio per lui, ma non tanto per noi due povere anime caracollanti fra scarti di varia natura. Non è per avversione contro l’impegno politico in arte, ma contro una consuetudine formale che (a parte alcune opere notevoli degli anni ’70) non ci convince, che non riusciamo ad apprezzare l’opera dell’artista luso-brasiliano, addirittura più distante da noi nell’ultima installazione del 2011 che nei reportages di quarant’anni fa. La denuncia plateale e legata a un proclama che vorrebbe essere atemporale (oltre che universale) inevitabilmente decade nella sua potenza comunicativa, fors’anche per via dell’eleganza del contenitore che stride con la “miserabilità” del contenuto.
Voto: 5- (perché la prima sala è meglio della seconda)
Nel recentemente restaurato, con opera meritoria (fatta salva la strage di rane, che, per la verità, non sappiamo con precisione a chi si debba imputare) da Arzanà Navi e Louis Vouitton, Padiglione Venezia trova spazio il cammino verticale dei grandi ondeggianti sàndoli veneziani (barca affusolata da trasporto leggero lagunare) e dei loro sei oceani fragorosi di Fabrizio Plessi (“Mariverticali”). Il nostro artista, la cui fama ha dovuto – chissà mai perché – esplodere prima all’estero per poi riverberarsi in Patria, ormai è un aficionado della Biennale e opera in questa edizione su commissione della grande marca del lusso. Fatto che fa arricciare più di un naso, ma che trovo del tutto ininfluente, se non addirittura meritorio, per un giudizio intorno a questa partecipazione. I sàndoli con video inseriti in pozzetto sono cosa consueta, per Plessi, e sono stati declinati in molte varianti. Ma in questo allestimento ciò che più colpisce è il fragore, l’effetto sonoro particolarmente avvolgente che sovrasta l’effetto visivo del flusso senza fine dell’acqua.
Buoni i video tutta-estetica delle stanze estreme dell’emiciclo che presentano in bianco e nero tre sezioni tagliate longitudinalmente di onde dagli andamenti differenti, calme, più mosse verso l’alto, zampillanti o spumeggianti. Il “viaggio” (o i diversi viaggi, come mi sembra di capire) del “nauta” contemporaneo è colto maggiormente in quest’opera che riporta Plessi a misurarsi con la visione in movimento puro e non funzionale a una struttura che lo ospiti.
Voto: nessuno, perché Plessi è fuori concorso.
Nel Padiglione dell’Egitto ci attende un omaggio sentito e dovuto, dal titolo “Thirty Days of Running in the Place”, al video artista Ahmed Basiony, ucciso all’età di trentatre anni il 28 gennaio scorso durante il quarto giorno di riprese delle rivolte di Piazza Tahrir al Cairo. Nel grande ambiente rettangolare campeggia un’enorme pannellatura che riceve e riverbera in settori equamente ripartiti frames di storiche performances dell’artista, interessato allo studio scientifico, analitico e sensoriale del corpo in movimento in uno spazio costretto, e di immagini tratte dalle riprese di Basiony dell’insurrezione contro il regime di Moubarak. Le sezioni cambiano di “relazione” in modo casuale e, a poco a poco, si avverte la singolare sensazione di osservare un’unica opera concepita in modo progettualmente sincronico e concettualmente compatto. La breve vita di quel giovane, che corre in assetto sportivo entro un parallelepipedo trasparente e con il capo avvolto in un sacchetto da cui un boccaglio fuoriesce permettendo la respirazione e la registrazione delle reazioni fisiche e psichiche del corpo all’alternarsi di ritmi diversi o di sollecitazioni esterne, e di quello che con la medesima apparente insensatezza di movimento analizza le reazioni del suo popolo agli accadimenti violenti o partecipativi della Piazza egiziana è emblema del “movimento assoluto”. Politico certamente, ma anche epocale, delle migrazioni, degli spostamenti, dell’evoluzione morale e genetica, che ha origine anche dalla morte e dalla rinascita per una vita nuova e diversa.
Non è ragionamento indotto, il mio. Né provocato dalla compassione per l’assassinio di un ragazzo sorridente e intenso. E’ la prova di come l’arte, se passa efficacemente attraverso la vita e la informa di sé, induce e produce l’universalità e comunica non solo un termine di bellezza formale ma anche l’anticipazione estetica e filosofica del cambiamento. Ciò che – almeno per me, qui – non è riuscito all’artista brasiliano. Si può dire “bellissimo”?
Voto: 6/7.
Passo al Padiglione della Serbia, che mi attendo essere essenziale e raffinato come di consueto. Attesa confermata dalla mostra “Light and Darkness of Symbols” di Raša Dragoljub Todosijević, che si avvale dell’Unicredit Award (e quindi, presumo e spero, rimarrà in Italia ed entrerà a far parte di una collezione pubblica). L’artista presenta grandi campionari di oggetti quotidiani acconciati in guisa di display museale (benché apparentemente senza relazione uno con l’altro) o da grande magazzino. Esalta l’ “eccezionalità” che conferiamo a oggetti di nessun valore, la cura con cui cerchiamo di disporre e “proteggere” la loro funzione (non necessaria), la confusione in cui inevitabilmente cadiamo nel far scadere di ruolo un simbolo, ad esempio, politico posto accanto e in relazione con un emblema di normalità quale una vasca da bagno (“Gott liebt die Serben I”, 2011, l’opera forse migliore del padiglione). L’effetto è di una compostezza borghese che viene incrinata da un particolare in apparenza dissonante ma che poi – aggiustata l’osservazione e risolto il primo moto repulsivo – sembra perfettamente collocato senza scarto semantico più traducibile. Buona l’idea, buona anche l’esecuzione con qualche pesantezza e ripetitività.
Voto:6+.
Nel Padiglione dell’Austria scopriamo con Markus Schinwald la quintessenza dell’arte della fascinazione attraverso molti mezzi espressivi: il dipinto (lo stordimento intellettuale connesso alla contemplazione di raffinati ritratti romantici deturpati da mani crudeli e modernissime), l’azione (circolare, priva di senso, verso un traguardo inesistente), il video (la gestualità lenta, surreale e persino ridicola di personaggi persi in una villa abbandonata, dalle cui finestre si immagina un paesaggio di tranquilli giardini e lontane foreste, nella quale gli umani non hanno relazione fra loro, ma rimangono intrappolati – in una sorta di arcano matrimonio fra corpi e pietra, corpi e legno – nelle asperità dei mobili, degli angoli, delle porte).
Il padiglione è occupato da un labirinto di pareti bianche altissime e impenetrabili, aperte al di sotto del ginocchio, cosicché ci avvediamo di possibili altre “minacce” al nostro spazio vitale, rivela in piccole nicchie ritratti di gentiluomini e gentildonne dai tratti delicati ed eleganti, ma, a causa dell’artista che restaurò le tele originali aggiungendo ai volti protesi e tutori, sono resi ciechi, muti e immobili in un bondage sadico cui non possono ribellarsi, inchiodati eternamente dalla mano del pittore. Personaggi emblematici abbandonati in un passato che non parla… In alto, di quando in quando, frammenti di mobilia chippendale (gambe di tavolo, sedie) sono appesi quasi anomali trofei di caccia: la casa che cattura un oggetto, lo fa a pezzi e lo mette in mostra. In fondo al nostro camminare, si apre una stanza riposante dal grande duplice video (“Orient”) sapientemente costruito con un’impeccabile fotografia: in una musica dolente e languida gli abitanti prigionieri di una casa vasta quanto insidiosa sono assaliti dagli oggetti (pacchetti regalo che si assembrano intorno alle caviglie, raggi di luce che trafiggono i corpi, piedi bloccati da un muro che si è richiuso su se stesso…). Tutto conduce all’ossessione, alla schizofrenia, all’allucinazione, ma con un senso di dolcezza che induce a voler volontariamente cadere nella trappola.
Non credo che in Biennale si potrà visitare un padiglione così soggetto alla necessità di esprimere attraverso la bellezza l’inquietudine di una vita che non ci appartiene più. Ci si rimarrebbe ore…
Voto: 7 e mezzo (perché sono tremendamente all’antica e non ho saputo resistere, soprattutto al video).
Sono ormai poco oltre le 17 (del resto non si riesce a impiegare minor tempo per la visita) e ci avviamo verso il Padiglione della Polonia dove ci attenderebbe una trilogia video dell’artista israelita (non polacca) Yael Bartana dal titolo “…And Europe will be stunned”, che narra con toni forti e coinvolgenti della rinascita di un movimento ebraico in Polonia il cui intento è riportare, dopo le vicende della Shoah e della costituzione dello stato di Israele in terra di Palestina, gli ebrei originari dei diversi Paesi colpiti dalle deportazioni naziste nei luoghi di origine. Gli ebrei polacchi, ad esempio, dovranno ricostruire un kibbutz secondo i costumi del Mediterraneo orientale nel luogo dove a Varsavia era il ghetto, distrutto da bombardamenti e incendi a tappeto dai tedeschi nel 1943.
Dico “dovremmo” perché non ci è permesso entrare. L’ultima proiezione (che dura oltre 40 minuti) è iniziata e l’ingresso è vietato. Quindi, lo si sappia, perché noi non sapevamo e non c’era straccio di avviso per questa limitazione che – saputala – ci avrebbe fatto scavalcare un padiglione e entrare in questo, che si presentava assai interessante. Siamo molto arrabbiate, la mia amica e io. Una disattenzione grave, dato che il Padiglione di Polonia si trova alla fine del percorso dei giardini ed è più che probabile arrivarvi a pomeriggio inoltrato.
Solo in Italia accadono certe stoltezze…
Voto: nessuno.
Ci fiondiamo a questo punto nel Padiglione della Romania, perché temiamo saremo costrette a fuggire in tutta fretta al richiamo delle inesorabili richieste di affrettarsi verso l’uscita (a ben pensarci è ridicolo che in estate l’orario di apertura di Biennale e Musei diversi sia solo sino alle 18…). La rassegna ha titolo “Performing History”. Il duo Anetta Mona Chi ş a e Lucia Tkáčová offre un video (“Try Again. Fail Again. Fail Better”) nel quale un gigantesco pallone aerostatico a forma di pugno chiuso non riesce a essere diretto dalla piccola folla sottostante; la scena corre sul filo del ridicolo e ha un bell’impatto visivo: ecco cosa ne è dell’ideologia e della sua fallace applicabilità al mondo reale…
Il resto della sala è costellato da opere storiche dell’importante artista romeno Ion Grigorescu che utilizza il proprio corpo per terribili automutilazioni e una volontaria “sotterraneità” della sua poetica per fare da ideale contraltare (se mai l’avesse immaginato!) con l’irrisione delle giovani colleghe. Ma la realtà è ben poco ilare: confinato dal regime, impossibilitato ad agire, esporre, lavorare, Grigorescu, nato nel 1945, performer delle avanguardie est-europee assomma tutte le istanze degli anni ’70 che riverberavano nel e sul corpo umano la dissociazione fra azione artistica, libertà espressiva, liberazione da ogni costrizione intellettuale e politica. E’ un pezzo di storia dell’arte che non molti conoscono e che vale la pena di approfondire e di mettere in relazione con i movimenti omologhi del “mondo libero” dell’epoca.
Voto: 6 ++
Una grande pannellatura in abete riveste interamente il Padiglione della Grecia, opera dal titolo “Beyond Reform” di Diohandi che ne ricostruisce totalmente l’architettura esterna e interna e che consiglio di non lasciare alla fine della visita, come accade a noi, perché la stanchezza potrebbe non permettere di apprezzare l’intervento fatto di materia naturale variamente combinata dall’artista: luce, acqua, legno. L’interno è una laguna, le cui acque calme sono mosse appena da lievi increspature, al centro una passerella ampia quasi a pelo d’acqua che pare far parte dello specchio liquido; la luce proviene dal basso e dal perimetro della costruzione convogliata in posizioni strategicamente suggestive per confondere i sensi in una commistione dagli impercettibili contrasti fra naturale-artificiale. Un suono continuo contribuisce a consolidare la sensazione di trovarsi nel respiro divino che porta alla concentrazione, alla preghiera e alla miglior percezione del nous… “Ellenicissimo”, un’esperidiana…
L’unico inciampo è un cartello (che non si capisce se dell’organizzazione o dell’artista) che avverte che il Padiglione è stato danneggiato da ignoti, il che sottrae inevitabilmente poesia all’installazione (e dispiace).
Voto: 6 +
Richiami imperiosi da molteplici altoparlanti ci chiedono di avvicinarci all’uscita, di portarci verso l’uscita, di recarci verso l’uscita, di procedere verso l’uscita…
Non abbiamo scampo e ci incolonniamo come automi sfiatati verso l’uscita.
E’ andata anche questa volta. In barba alle assortite malconce articolazioni…
Ma che fare ora? Se non si ha necessità di mutare mise (benché non è certo semplice uscire di Biennale, magari a Luglio, impeccabili come Caterina Cornaro), ci si può fermare, dopo un prosecchino o uno spritz al baretto dei Giardini fuori di Biennale, godendo del panorama su San Giorgio Maggiore, in uno dei locali più amati dalla beautiful people veneziana (che non è quella milanese, tanto per intenderci, perché mai si farebbe infinocchiare a tavola da un apparato che superi il palato). Prenotando con buon anticipo soprattutto nei fine settimana, non si deve perdere la possibilità di cenare al rinomatissimo “Covo” (Castello 3968, tel 041 5223812, chiuso mercoledì e giovedì) , entrando in campiello della Pescaria a pochi passi da Riva degli Schiavoni, poco dopo l’imbarcadero dell’Arsenale, all’incirca a 18-20 minuti a piedi dai Giardini, che già segnalai due anni fa ai biennalieri più accaniti. Poco lontano, un po’ più all’interno (due minuti di strada in più) è la “Corte Sconta” (Castello 3886, calle del Pestrin, chiuso la domenica e il lunedi, tel. 041 5227024), famosissima anche per i foresti, che tuttavia mantiene alta la sua bandiera e rinnova in maniera gustosa e raffinata la cucina veneziana: io non mi lascerei scappare gli gnocchi alle ganasséte di coda di rospo e pisellini freschi…
Ma quest’anno mi sento di consigliare una ricetta per itinerario, pensando ai molti che in Laguna possiedono un amico compiacente, una carbòna altrettanto compiacente (non vi dirò cos’è, ma non è certo ciò che pensate…), magari – come dissi – un pied-à-terre anche minimo o, più semplicemente, tornano al miniappartamento con piccola cucina affittato per il week-end.
Dopo una simile cavalcata, abbisogna un piatto semplice, veloce e molto nutriente.
Bígo’li in salsa
Ingredienti per 4 persone:
400 gr di bígoli (grossi spaghettoni ruvidi di pasta all’uovo)
4 acciughe sotto sale
1 cipolla media
1 bicchiere di olio extravergine di oliva
Vino bianco, pepe
Procuratevi da un pastaio o da un rifornito pizzicagnolo un bel pacco di bígoli freschi o anche confezionati (sono comunque ottimi). Pulire le acciughe mantenendo la polpa. Lavarle accuratamente in acqua corrente e tagliarle a pezzetti non molto grossi. La cipolla dovrà essere affettata, invece, assai sottilmente. Scaldare l’olio in una padella ampia e bassa e buttarvi cipolla e acciuga. Non lasciare che la cipolla “svanisca” o imbiondisca calmierando la cottura con un poco di vino bianco. Lasciare sofegàr il sugo a pentola coperta, mescolando con cucchiaio di legno ogni tanto. Si dovrà ottenere una salsa corposa e sfatta.
Cuocere i bígoli in acqua salata ponendo attenzione a che, se di pasta fresca, non si attacchino fra loro. Scolarli al dente e passarli direttamente nella padella con la salsa ben amalgamata. Saltarli bene sino a che pasta e sugo non saranno un’unica anima.
Aggiungervi sul fuoco (anche se spento) un abbondante macinata di pepe fresco (il migliore di Venezia è da “Mascari” al mercato di Rialto: per pepe e molto altro, questo antico droghiere vale la visita con acquisto).
Servire con l’acquolina in bocca, il profumo nelle narici e, nell’altra mano, già pronto, un bel bicchiere di Tocai (italico) dei Colli Euganei.
Testo e immagini di Cristiana Curti per Arslife