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JEAN CLAIR CONTRO LA CULTURA DA BORGATARI. MA DOVREBBE SAPERLO: OGNI STILE È ALL’ALTEZZA DEL PROPRIO TEMPO, QUINDI NON FACCIA TROPPO IL CAGACAZZI

Non ci resta che reagire. Il virus plutocratico del marketing ha infettato l’organismo dell’arte contemporanea e a tale degenerazione si deve rispondere con un’opposizione reazionaria. Questa la tesi del rispettato intellectuel Jean Clair, già direttore del Musée Picasso di Parigi e conservatore del Patrimonio di Francia, nonché direttore della Biennale veneziana del 1995 e membro dell’Académie française, l’indignato speciale di cui l’editore Flammarion ha recentemente dato alle stampe l’ultimo pamphlet: L’ hiver de la culture (L’inverno della cultura). Ne ha parlato Vincenzo Trione sul compassato Corrierone lo scorso 8 agosto e in attesa che arrivi per davvero il Generale Inverno e che Skira ne pubblichi l’edizione italiana, ci piace riparlarne qui. Chi scrive basa le proprie riflessioni sulle anticipazioni apparse sui giornali e in Rete e dichiara fin da ora di essere pronto a rimangiarsi ogni sua parola, qualora la lettura dell’edizione italiana del libro di Jean Clair – prevista per novembre 2011 – dovesse smentirne in toto o in parte le assunzioni.

Jean Clair equipara i musei a grandi magazzini edificati per attrarre il più alto numero di visitatori, massa anonima impaurita dal presente che va a vedere la grande mostra per distrarsi un po’. Mentre l’artista, evidentemente considerato dall’intellettuale transalpino alla stregua di una figura mitopoietica, lungi dall’essere un profeta – e quando mai lo fu? -, s’è ridotto a fautore illetterato di provocazioni. Jean Clair lamenta la scomparsa della cultura intesa come religiosità laica, ora ridotta a vuoto simulacro – e figurati se un francese non chiama in causa l’inutile Baudrillard, pensatore molto sopravvalutato -, governato dalla logica mercantile che impone di offrire un prodotto anziché il capolavoro di pura bellezza dei vecchi tempi andati. Giocando con le parole, come son soliti fare i pensatori francesi sulla scorta di Derrida, Deleuze e compagnia brutta, lo storico dell’arte enfatizza le vestigia della cultura come reliquario culturale – nel senso, non c’è più la cultura, c’è solo il culturale – , idolo per i gonzi che passano la domenica a visitare la grande mostra al museo/centro commerciale.

Come sono noiosi, questi intellettuali che al pari dei comunisti credono di saperla lunga arrogandosi il diritto di mostrarci la verità, a noi coglioni inabilitati a percepirne le sovrastrutture che ingannano il nostro senso critico.

Jean Clair s’indigna del declino avviato dalle post avanguardie e si scandalizza degli scandali, tacciando le sperimentazioni di un Andres Serrano, un’Orlan o una Cindy Sherman di vuoto esibizionismo e tronfio egotismo: artisti narcisi che si beano dell’ostensione dello schifo, titillatori del disgusto e della violenza. E pure ignoranti: Jeff Koons, Maurizio Cattelan, Takashi Murakami e il resto della banda hanno marinato la scuola – nella fattispecie, la bottega di un maestro -, sono senza talento, senza mestiere e conoscono solo le strategie di marketing.

Ma proprio qui casca l’asino. Ed è una realtà che Jean Clair, dall’interno della sua torre d’avorio, finge di non vedere. Non esiste una distinzione fra cultura alta e cultura bassa, esiste piuttosto la cultura tout court, con tutte le declinazioni che essa assume in un dato contesto epocale. E ognuna di tali declinazioni è uno stile egualmente dignitoso, in quanto riflesso di un’epoca, oggettiva e misurabile. Deprecare la decadenza della modernità perchè essa non incontra il proprio gusto, rimpiangendo una non meglio precisata età delle regole classiche, è un vezzo che un critico non può concedersi: un critico non è un turista e il suo sguardo deve prescindere dal soggettivismo dei gusti personali.

Prendersela col mercato, poi, è come sparare sulla Croce Rossa. L’arte, senza il mercato, non esiste. Una volta erano papi e imperatori, ora collezionisti e galleristi, ma l’arte si è sempre appoggiata all’economia – nel senso puro del termine, di amministrazione delle cose domestiche, cioè di cose nostre. E il marketing è uno strumento cui nessun artista, neppure il massimalista ideologo anticapitalista di turno, può rinunciare, se non vuole che la sua opera resti confinata nelle quattro pareti dello studio (quando fai veicolare la tua mostra in modo da massimizzarne la visibilità, adotti con ciò stesso una strategia di marketing, anche se non maneggi danaro). Lo stesso discorso si applica ai grandi nomi e alle grandi mostre. Una mostra in un museo ti può cambiare la vita, ma questo museo è una struttura che deve realizzare profitti, pena la chiusura (almeno in teroria dovrebbe essere così). Fatemi conoscere un artista che non vorrebbe che la sua opera fosse vista da qualcuno, se possibile in un numero maggiore di amici e parenti più stretti. Idem per quanto riguarda la retrospettiva del grande artista, ordinata dal grande curatore presso il grande spazio istituzionale. Ma perché ciò avvenga, urge sporcarsi le mani. Il che non significa equiparare un quadro a un panino, ma assumere dentro sé l’idea che non esiste l’opera d’arte autonoma e sussistente, luccicante nel firmamento come una stella fissa. E come l’intende Jean Clair. L’arte non è forma pura. Credere che essa sia solo esperienza spirituale significa cadere nel misticismo e perdere il contatto con la realtà.

E un critico, se non soffre d’agorafobia, col mondo là fuori deve – dovrebbe – sistematicamente fare i conti. Jean Clair scambia per realtà le proprie sofisticherie: s’indigna di quanto oggi ci propinano gli operatori del settore (artisti, galleristi, direttori di musei, curatori, collezionsiti, giornalisti. E qui casca un’altra volta l’asino, perchè quello dell’arte è un sistema complesso che non si può categorizzare secondo schemi concettuali monolitici), ben lontano dall’afflato universale che promana da quelle opere che ci interrogano drammaticamente su temi sociali (Jean Clair cita Zoran Music, e va bene. Ma a questo punto anche quel furbetto di Boltanski dovrebbe rientrare nella categoria delle eccellenze e questo va già meno bene). E non v’è nulla da fare, se non opporre un aristocratico atteggiamento di reazione all’imbarbarimento estetico vigente: una volta i vecchi CCCP predicavano “socialismo o barbarie”. Ora, secondo Jean Clair, non ci resta che essere reazionari. Ma non si capisce a chi o a cosa e verso dove si debba riorientare lo sguardo.

Vincenzo Trione scomoda il Pasolini degli Scritti corsari e l’Oswald Splenger del Tramonto dell’Occidente come paraventi d’eccellenza con cui misurare il pamphlet L’ hiver de la culture. L’efficacia di tali illustri rimandi esplicativi sarà verificata, ma per ora questo Jean Clair sembra più simile allo Julius Evola di Rivolta contro il mondo moderno: velleitarismo intellettuale sopraffino estraneo alla dura realtà.

L’Accademico di Francia dovrebbe saperlo: Alois Riegl disse che ogni stile è all’altezza del proprio tempo. Se Jeff Koons espone il suo cuore pendente nella reggia di Versailles e tutti vanno a vederlo – con grave scorno di Jean Clair -, ciò non significa che la cultura sia scomparsa, ma piuttosto che il classicismo ha rotto le balle (e Koons, a esser rigorosi, non è poi così all’altezza della nostra epoca, dal momento che la morte ha più fans del sesso. Ecco perché Damien Hirst è la blue chip dell’arte contemporanea). La diade progresso vs reazione è l’araba fenice che risorge in ogni contesto epocale: fa parte del gioco. E Jean Clair, malgré luie il suo aristocratico sprezzo per i tempi moderni, sta giocando questo gioco. Non v’è nulla di male. Come non v’è nulla di male se Maus, la graphic novel di Art Spiegelman, convive insieme ai disegni di Zoran Music su Dachau e Buchenwald: l’una non val meno degli altri (poi, certo, io preferirei acquistare un disegno di Music, e senza doverci per forza vedere soltanto un tributo alla Shoah, ma non per questo mi ergo a vessillifero di un’eccellenza culturale). Jean Clair sembra volersi opporre a una cultura da borgatari a difesa della cultura alta – quale? -, ma di ritorni all’ordine e indignate cassandre la storia è piena, così come di falsi profeti che pretendono di applicare alla realtà le sofisticherie cresciute nell’etere del loro cervello.

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