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ALCUNI SAGGI CONSIGLIATI DA ARTSLIFE


 Raffaello Sanzio “Il sogno del cavaliere”


 

1 / Magritte e la natura

Miguel Draguet


René Magritte, Souvenir de voyage, c. 1961, Gouache sur papier, 34 x 26 cm, Collection privée, Bruxelles, © ADAGP, Paris 2008

 

ArtsLife presenta il saggio di Miguel Draguet, curatore della mostra Magritte – Il mistero della natura a Palazzo Reale (Milano – dal 21 novembre 2008 al 29 marzo 2009)

Nel 1929, Magritte dipinge Il falso specchio con un occhio monumentale in cui si riflettono un cielo e le sue nuvole informi. Così, Magritte visualizza quello che la sua pittura giunge a raffigurare dopo il rifiuto dell’astrazione: «l’uffizio dell’occhio» – secondo la formula di Leonardo da Vinci – nell’equivalenza tra spazio psico-fisiologico e spazio matematico. Ma, come il titolo indica, questa possibilità di conoscenza attraverso l’immagine intesa come specchio è indizio, per Magritte, di una falsificazione. Eppure, il pittore non ha mai rinunciato a questa logica. Più tardi, la riprenderà per fare dell’immagine il riflesso dell’atto stesso di guardare, in una sorta di ontologia dello sguardo che ogni spettatore prolunga. Dal 1927 al 1936, dal Falso specchio a Oggetto dipinto: occhio, Magritte conferma la dimensione arbitraria di un percorso fatto di norme e codificazioni, di sistemi e di regole. Nella prospettiva dell’esperienza di una realtà che non rientra in alcuna forma di linguaggio o di rappresentazione ma nell’esperienza come forma di conoscenza immediata. Una realtà che, sotto la penna di Magritte, si confonderà con il “Mistero” – termine sufficientemente ambiguo per dispensare il pittore da qualsiasi definizione precisa – per inglobare tutto quello che, giorno dopo giorno, resiste all’ordine del sapere. 
Questo “Mistero” ha conosciuto numerose definizioni nel corso di tutta l’opera di Magritte. In ultimo, non è altro che la natura in quello che essa ha di non riconducibile alla cultura. Magritte lo ha ben presto associato all’amore come «forza difensiva» dell’uomo che si confronta con il mondo. Nella natura, come nell’amore, egli percepisce una forza che coinvolge l’uomo «in un mondo incantato fatto esattamente su misura [per lui] e che è difeso mirabilmente dall’isolamento». Questo contatto privilegiato rivestirà un ruolo centrale nella missione che Magritte assegnerà all’“arte pittorica”.Ha modo di precisarlo in un testo del 1936: «ricercare un nuovo mezzo di conoscenza più che provocare con mezzi nuovi il piacere estetico». Seguiremo la strada tracciata senza perdere il senso di una progressione che va dal 1920 al 1967. In quasi mezzo secolo, Magritte ha sviluppato un pensiero che ha nutrito la sua opera. In modo sistematico e accumulando fonti che spaziano dalla poesia alla filosofia, da una riflessione sul linguaggio a una meditazione sulle strutture del pensiero. La natura sarà onnipresente in questo cammino progressivo. Da una parte, fornendo una miriade di temi che l’artista esplorerà e combinerà a piacere e, dall’altra, costituendo la cornice di ogni cosa, quell’englobant, a partire dal quale si determinerà ogni forma di conoscenza. 

L’orizzonte astratto 
L’astrazione ha costituito per Magritte un momento essenziale di preparazione alla scoperta del Canto d’Amore di de Chirico. Ha creato un orizzonte di attesa che si potrebbe riassumere – a rischio di semplificare abusivamente – nella gioia di dipingere liberamente fondando nel contempo un nuovo linguaggio plastico affrancato dai vincoli della raffigurazione classica. Magritte è assorbito all’epoca da ricerche sul disegno pubblicitario – linee pure e colori brillanti formano una retorica in sintonia con i tempi – che trovano nella pittura uno sfogo senza limiti né costrizioni. Per lui, l’astrazione è una festa della forma e del colore nell’entusiasmo di un progetto avanguardista votato a cambiare il mondo. 
Nel 1919, l’incontro con Victor Bourgeois e Aimé De Clercq, così come l’amicizia con il pittore astratto Pierre-Louis Flouquet, ha permesso a Magritte di assimilare gli elementi del linguaggio cubista all’utopia «modernolatra» del futurismo, che l’artista definirà, in La linea della vita, una «sfida lanciata al buon senso». A poco a poco, l’astrazione gli si è imposta. Non tanto come sistema fondato su una nuova visione del mondo quanto piuttosto come luogo di effusione in cui l’individuo si libera nell’ebbrezza del colore. Il paesaggio dipinto nel 1920 ne è testimone. La frammentazione delle forme incontra il desiderio di rendere dinamica la composizione. In questo mosaico variopinto, l’oggetto si atomizza in sfaccettature mentre l’immagine si afferma nella sua dimensione decorativa. Magritte non rinuncia tuttavia ai temi che esplorerà per tutta la vita: ritratti, nature morte e nudi corrispondono a scene di strada che testimoniano il suo entusiasmo per la vita moderna. L’ispirazione è urbana anche se i temi trattati rimangono in larga misura dipendenti dal suo gusto per la natura. Congedato dall’esercito nel settembre 1921, Magritte lo scrive all’amico Pierre-Louis Flouquet:

munito di colori e tele di qualità inizierò presto un grande quadro a cui penso da tempo: organetto di Barberia per strada, donne, fazzoletti rosso vermiglio, vento che porta via, bambini che ballano, altri che guardano […] curiosi, alberi, case, sole! Malgrado questo, il futuro non mi pare meno tragico, finalmente adesso lavoro e se faccio un’opera bella, è molto.

Nel novembre 1921, Magritte viene assunto dalla ditta Peters-Lacroix ad Haren dove il pittore non-figurativoVictor Servranckx operava già in qualità di direttore artistico. Specializzata in carta da parati, l’azienda si proponeva, stando a Magritte, di lanciare una linea di prodotti di ispirazione modernista. Il suo entusiasmo passa attraverso un’iniziazione alle tecniche del mestiere con le sue regole «che sono leggi di armonia ben determinate». A cominciare dal rispetto delle due dimensioni intrinseco alla funzione decorativa. I progetti conservati testimoniano questo «stile modernizzato senza fantasia» che Magritte e Servranckx declinano in serie. 
Seppur presente nella pittura sotto forma di paesaggio o di figure prese in prestito dal suo repertorio – nudi, cavalli, fiori… – la natura non costituisce un elemento determinante del pensiero che l’artista sviluppa nell’ambito della partecipazione ai circoli dell’avanguardia. Nel 1922, Magritte redige in collaborazione con Servranckx il manifesto L’arte pura. Difesa dell’estetica che rappresenta un’accorata difesa dell’astrazione e allo stesso tempo di un’arte utilitaria che segua il modello dell’architettura. Questo testo reca l’impronta delle concezioni di Magritte. Pur partecipe della vulgata modernista, mette in risalto la funzione dell’opera che è quella di «far scaturire AUTOMATICAMENTE la sensazione estetica nello spettatore». Magritte si tiene lontano dal radicalismo modernista che, sulle colonne della rivista d’avanguardia “7Arts”, in data 11 gennaio 1923, proclamava la scomparsa di una «industria che non risponda ad alcun bisogno architettonico, estetico o igienico». Al contrario, il pittore assimila la perfezione della forma al suo «aspetto decorativo spirituale». L’automatismo – senza però circoscrivere una qualsiasi surrealtà ancora nel limbo – qualifica la sensazione suscitata dall’immagine.  Quest’emersione a cui Magritte rimarrà fedele attraverso il tema del Mistero permetterà di distinguere l’opera dalla realtà. Quando dichiara che «per conseguire il massimo (la perfezione relativa, unica possibile), l’opera d’arte, come qualsiasi altro oggetto, deve avere una natura distinta e preoccuparsi solo di assolvere integralmente la sua missione essenziale», Magritte libera l’orizzonte pittorico dai lavori d’occasione: decorativi o pubblicitari. Uno dei meriti di questo testo risiede nella netta distinzione tra l’estetica alle prese con l’arte indipendentemente dalla realtà e il funzionalismo la cui finalità sociale non si cura della nozione di opera. Al di là della spaccatura si contrappongono definitivamente utilitarismo collettivista e pensiero individuale. Ossia per Magritte un «pensiero puro». 
Così, il pittore si svincola dalla dottrina avanguardista quale si è diffusa a partire dal costruttivismo russo. Impossibile, per lui, confondere l’ingegnere e l’artista, che guardano in direzioni diverse se non antagoniste. Lo attesta il valore dell’oggetto:

Gli oggetti fabbricati dall’uomo devono raggiungere la perfezione; è questa la sola vita che egli può dare loro. Le forme organiche possono vivere, nonostante i loro difetti, grazie alla volontà di vivere che ha dato loro la natura.

Magritte non si considera un produttore, ma fondamentalmente qualcuno che guarda il mondo per scoprirne l’intima bellezza. Questo sguardo vuole essere interrogativo. È garante di una forma di conoscenza immediata che richiede un’esplorazione sistematica e un perpetuo rimettere in discussione. Rompendo con il leitmotiv dell’integrazione della pittura non-figurativa nell’architettura, Magritte rivendica l’autonomia – se non l’autarchia – della pittura nello spazio della realtà. La pittura non può limitarsi al ruolo di ancella dell’architettura né a quello di decorazione neutra per il muro. Afferma il pittore: «Non si fanno dipinti in funzione del muro, ma muri per fornire una dimora all’uomo e agli oggetti di cui egli si serve». Contrapponendo «l’opera-vita» alla «funzione-teoria», Magritte riconosce all’immagine una potenza vitale che il dadaismo sfrutterà:

Un quadro appeso a una parete può essere un elemento di disordine, ma tale disordine è solo apparente; è causato dalla vita; è inevitabile, fatale; in un senso più profondo, è l’ordine: una legge.

L’elogio del disordine naturale sottende all’esplorazione delle sue meccaniche segrete. L’Arte pura si distingue dagli appelli per una pura plasticità. Alla forma sistematica, Magritte contrappone l’immagine come universo in sé.Un universo spirituale distaccato dalle convenzioni sociali e dai sistemi di raffigurazione per scoprire nell’esperienza naturale una nuova possibilità di inventare il mondo. 

Per leggere il saggio integrale, clicca 

QUI 

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2 / Libertario coltivatore di Ingegni,
Aldo Mondino!

 

Vittoria Coen

Aldo Mondino, Dervisci, 2000, olio su linoleum, 91 x 121 cm 


ArsLife presenta il saggio di Vittoria Coen, curatrice della mostra dedicata alla figura dell’artista Aldo Mondino, scomparso nel 2005. Le opere di Mondino sono messe a confronto con tre artisti che hanno lavorato nella sua ‘bottega’, Federico Guida, Roberto Coda Zabetta e Davide Nido.MONDINO AND FRIENDS è allestita fino al 21 febbraio 2009 alla Galleria Poleschi Arte di Milano.

LIBERTARIO COLTIVATOREDI INGEGNI, ALDO MONDINO!
Nessuna chiesa artistica è riuscita a catturarlo interamente. Con alcune di esse ha intrecciato relazioni amichevoli, più o meno strette, difendendo sempre spazi propri nei quali sperimentare a suo piacere tutto ciò che è sperimentabile.
Perché, allora, sarebbe venuto meno a questa vocazione di navigatore senza bandiere, di fronte a giovani artisti pronti a fare esperienze, a giocarsi il proprio percorso, a rischiare quanto è necessario per potersi poi riconoscere in senso davvero autentico?
I risultati si vedono, ora che lui non c’è più fisicamente, ma i segni della sua amabile disponibilità così stimolante sono presenti nelle opere e nello spirito di tre dei suoi assistenti oggi artisti apprezzati e molto diversi fra loro: Roberto Coda Zabetta, Federico Guida, Davide Nido.
Mondino padre di numerosa prole, senza distinzione di caratteri biologici o culturali. Abbiamo trovato in lui una sorta di sperimentazione, non ci stancheremo mai di dirlo, anche perché sottolinearlo è già un contributo alla peculiarità della sua vena creativa. Mondino non teme le mode, affronta spavaldamente il rischio di apparire controcorrente. In realtà, se non inventa correnti nuove, e non avrebbe senso farlo per un uomo come lui, inventa una spregiudicatezza giocosa e gioiosa che credo non abbia uguali.
Dallo studio a Parigi, a quello di via dell’Orso a Milano al glorioso bar Jamaica, per esempio,  dove molti artisti si trovavano, alla magnifica casa in Monferrato, Mondino era consapevole che tutti i cambiamenti della sua vita facevano e avrebbero fatto parte di un percorso di ricerca e di invenzione in cui vita e arte si erano sempre mescolate, e con il contributo di quei giovani a cui lui sapeva infondere entusiasmo e voglia di sperimentare.
Il suo viaggio creativo è noto a molti, e certamente anche le recenti antologiche a lui dedicate contribuiscono a rafforzarne il ricordo.
E’ un vagabondare continuo il suo, dalle prime esperienze concettuali degli Anni’60 e ‘70 (dalle Tavole anatomiche di impronta surrealista alle Quadrettature e ai numerosi Collages realizzati con veline colorate, quasi a reinterpretare il Modernismo in chiave ludica, fino alle geometriche Bilance). Un artista sempre attento Mondino, ad essere se stesso, anche quando prende in giro bonariamente Casorati con una serie di ritratti che inserisce ovunque, dalle tele alle magliette alle tende di plastica e alle porte, anche quando, lui pittore, affronta la scultura con invenzioni infinite, da elefanti di cioccolata a torri di torrone, a pesci che camminano su gambe che sembrano trampoli, di giacomettiana memoria.
Cioccolata, zucchero, caramello, fagioli, chicchi di caffè, cioccolatini incartati, insieme naturalmente ai più tradizionali bronzo, vetro, terracotta…fanno Mondino Gran Gourmet del contemporaneo, Chef intelligente, creativo e originale di quella straordinaria cucina di tecnica e invenzione che è l’arte.
Quel suo girovagare nel mondo, sempre curioso di tutto, soddisfatto della sua leggera miopia che gli impediva di distinguere bene gli oggetti tanto da farglieli reinventare con nomi diversi, i giochi di parole nei titoli delle opere che spiazzano l’osservatore (Raccolto in preghiera, Dino-Jarre, Scultura un corno, Pounds, solo alcuni esempi) lo portavano a riscoprire la vita, tutti i giorni, anche nelle cose più normali, come andare a comprare il pane a Fubine, a trecento metri da casa sua, vestito come un viaggiatore degli Anni ’30, con i mezzi guanti e i pantaloni alla zuava, a bordo di una stupenda Morgan, ironico e raffinato come sempre.
In questa mostra alla Galleria Poleschi Arte, è raccolta una sintesi efficace e interessante del suo percorso ricco e articolato, che traccia, fra l’altro, la storia di una relazione che per Mondino ha avuto un’importanza decisiva per la sua esperienza artistica e intellettuale: il rapporto con l’ Oriente.
Il suo sguardo si è rivolto ripetutamente all’interpretazione che gli artisti europei, da Delacroix e Beardsley in poi, per esempio, avevano dato di mondi inizialmente solo sfiorati, per il desiderio di evadere, prima, e di trovare poi, come fu per le Avanguardie del primo Novecento, la strada per la sintesi ideale tra forme e contenuti nell’espressione estetica definita “primitiva”, in particolare quella africana.
L’Oriente è l’altro, che entra dentro di noi. Sovverte l’ordine precostituito e disegna forme e orizzonti imprevisti. Scompagina la prospettiva rinascimentale, descrive il tempo e lo spazio in modo diverso. Nella fissità dei soggetti e nella minuziosa descrizione dei dettagli, dell’arte giapponese, o indiana, per esempio, del passato, l’uomo dell’Occidente ritrova linfa vitale, vi si immerge gradualmente per cercarne l’essenza.
Mondino, artista contemporaneo, ne coglie, in particolare, l’aspetto spirituale. Nascono i grandi dipinti con temi ebraici, le feste religiose, i Rabbini, nasce la scoperta della danza come forma, di preghiera nei Dervisci levitanti, di rituale misterioso nei Gnawa, dagli originali copricapo decorati con conchiglie.
L’Oriente delle pitture su vetro, gli Iznik, e dei tappeti di eraclite, sconfina anche nella Spagna dei tori e dei toreri, fino a ricomporsi in un fiume di cioccolatini coloratissimi, Gange View, una delle più recenti invenzioni.

Si continua a sostenere che questo nostro tempo è il tempo della disillusione, se ne ricercano diligentemente i primi segnali risalendo nella storia dell’arte occidentale, sottolineandone ogni sintomo. Il momento giustifica ogni diligenza. Ma lo sapevamo già da tempo che esiste un dinamismo (vogliamo chiamarlo sommessamente dialettico?) di cui è intessuta la natura degli uomini e perciò la loro storia: bene-male, luce-tenebre, e concediamoci anche apollineo- dionisiaco, per quanto l’espressione possa apparire oltremodo datata.
Tutto già detto, registrato, analizzato. Nessun periodo storico sfugge a certi passaggi. Nel mezzo del più raggiante gusto, del bello, della gloria di vivere, possono apparire segnali di nebbia, premonizioni negative, stanchezze. In quello che fu il modello dell’ultravincente Boucher, Watteau, l’erotismo senza problemi delle immagini galanti così gradite alla società francese, e non solo, di un Settecento che ci piace pensare spensierato, ma che ha già una sorta di presentimento, quello che si vede nell’Embarquement pour Cythére, proprio di Watteau, fa sospettare, nella sua ambiguità, una sottintesa distanza e un sentore, un avviso di crepuscolo. Nelle su fasi intermedie e meno avvertibili, può avere tante facce.
Il nostro secolo e i suoi antefatti ancora tanto incombenti per noi che siamo obbligati a tenerne conto, ci dà molto da fare in questo senso. Quanto Goya c’è, per esempio, nell’inquietante autoritratto giovanile di Pollock del ’33? Quanto senso di perdita e di sconfitta dell’America del secondo dopoguerra, vittoriosa di una vittoria davvero epica, di fronte ad una crisi sociale che coinvolgeva duramente gli artisti? Usare la tela “come un’arena”, come ebbe a dire il critico Harold Rosenberg, era tutto ciò che restava loro, versare la loro rabbia nel groviglio informale, dipingere al di là di qualsiasi pertinenza e obbedienza, varcare magari uno dei tabù, quello della bellezza femminile violentandola con le mostruose virago di de Kooning, che dovette difendersi dall’accusa di essere uno che odiava le donne.
Come risponde Roberto Coda Zabetta alle provocazioni e ai dilemmi del postmoderno? Intanto, da ciò che si può vedere fino ad ora, ibridando immagini, corrompendo segni con altri segni, sogni con altri sogni, lottando a favore dell’irriconoscibilità, manomettendo, deviando, dando strenuamente segni contraddittori. Nel suo sistema compositivo si direbbe che la sua prima aspirazione sia liberarsi della forma. Quando non può fare a meno di se stessa, e non può farlo perché i volti urgono nei suoi mezzi espressivi, ci sono con forza, egli fa di tutto per disturbarla, insultarla, disarcionarla, in una miriade di segni che entrano in ogni pur ridotto dettaglio fisiognomico dei volti alterati.
E’ una lunga storia, quella dell’offesa alla forma, ma qui la fisicità pura (se è mai esistita) cede totalmente alla psichicità, un’esigenza dell’artista, forse il riscatto di una spinta interna che si proietta poi senza remore all’esterno.
Un versante noir si tinge a volte di rosso, la macchia accompagna la difformità. Ma nell’abisso dell’informe c’è anche una splendida esplosione, una ricchezza dissipativa di segni, linee, colori. C’è una natura che vuole farsi sentire, mescolando quello che è, nonostante tutto, il controllo che l’artista esercita, con l’euforia della liberazione del mezzo.
I volti dilatati, affidati al solo gesto e alla poliedricità della moltiplicazione senza centro, sembrano puro pretesto per l’operazione artistica, fra ciò che appare solo limitatamente percepibile e ciò che è stato intenzionalmente dissipato. E qui si gioca l’intero procedimento. Partendo da una speciale attenzione alla psichicità, sbiadisce ogni, sia pur modesta allusività, e tutto appare così trasceso e, paradossalmente anestetizzato. Nei lavori più recenti compaiono, spesso accanto a questi volti, sottili e raffinati soggetti orientali, fanciulle e imperatori. E il contrasto tra la matericità dei volti e la piatta linearità e preziosità di questi ultimi rende potentemente il senso del rapporto Oriente- Occidente, ancora più chiaro nei lavori in bianco e nero.
Non abbiamo paura della pittura, dunque. C’è stata finalmente, una rivoluzione che le ha reso, diversi anni fa, il diritto di esistere. E la pittura, a suo modo, con i suoi strumenti, ne sta approfittando ampiamente.
Federico Guida rientra perfettamente in questo risveglio. I suoi ritratti, le immagini, i volti, le membra, i gesti, gli atteggiamenti, ogni dettaglio che li riguarda, non hanno subito l’intervento di filtri e mediazioni. La loro realtà è terribilmente veridica.
Impariamo a conoscere queste persone, e non vediamo su di loro interventi di maquillage. Se in un certo senso sono icone, in senso non sacrale e paradigmatico, naturalmente, ma con i loro propri nomi, la loro autenticità senza tempo ci permette di spegnere qualsiasi oppressiva voglia di catalogazione, stilistica o psicologistica.
Dell’impietosa curiosità, dello scavo e dell’espropriazione del corpo umano, si parla ormai da tempo. Anche Guida ha fatto un suo percorso nel buio, ma ad un certo momento si è armato del coraggio che era necessario per affrontare un problema: prendere in consegna le derive negative, i segni del cambiamento del corpo umano, senza scivolare in orientamenti “lombrosiani”, senza cadere nell’iperrealismo, né concedersi interamente all’espressività, dando questa volta spazio primario ai diritti della pittura, a tutto ciò che la riguarda, profondità, sfumature cromatiche, a ciò che è fisicamente umano da sempre, e non solo in un secolo particolare, quello delle opulenze rubensiane, per esempio, che si può esprimere in arte.
Certo Guida dispone dell’arma del colore, tutt’altro che trascurabile rispetto al tema centrale del soggetto in sé e della sua funzione in un argomento sempre scottante, che è quello dell’interiorità nella figurazione. Credo anzi, che a questo proposito la tecnica sia perfettamente all’altezza dello scopo. E’ con autentico rispetto umano che l’artista si accosta, lontanissimo, comunque, da qualsiasi enfatizzazione scandalistica modaiola, a certe espressioni e a certi segni di sofferenza e di decadenza, che vediamo in molti dei suoi modelli. Sui corpi che possono essere stati offesi in tanti modi, dal tempo, dalla violenza, l’artista stende una lieve eppure intensa, quasi consolatoria, confortante materia cromatica che tocca, allo stesso tempo, la drammaticità e una riconquistata linea di compostezza che direi classica. Dal buio emergono corpi femminili illuminati dalla fiamma e non dalla luce al neon.

Davide Nido, o del colore. E’ questa la prima sensazione che nasce dalla sua pittura o che si conserva immutata anche nel corso delle modifiche che è andato apportando al suo lavoro, più dell’inesausta vena inventiva di forme informi eppure sempre forme, di vuoti pieni, rari vuoti, quasi sempre pieni, più del vorticoso vortice che non ha soste.
Nessuna casualità sembra di poter leggere in queste particolarissime conformazioni, piuttosto un saggio equilibrio geometrico; attenta ricerca di compensazioni in una pittura evidentemente molto compositiva, molto ritmica, molto musicale, al ritmo di una partitura veloce: dire tutto prima di rischiare di dimenticarsene.
Dunque anche istantaneità, quel tanto che può suscitare un sospetto di improvvisazione, come essere in preda all’effetto di una sostanza chimica. Ma abbiamo già detto, malgrado l’ovvia gestualità, il dinamismo è accompagnato sempre da un’instancabile voglia di sondare, indagare, andare al fondo di ogni possibilità. Affollare non significa, infatti, disordinare o soffocare.. Dopo tutto, l’universo non conosce il  vuoto.
Ma le geometrie non euclidee di Nido non sono fatte per essere costrette all’infinito. A furia di inseguire l’infinitamente piccolo si potrebbe finire nella cristallografia o nel visionarismo.
Nel 1956 l’olandese Escher dipinge un’opera nella quale uno spettatore in una galleria d’arte vede (naturalmente crede di vedere) il quadro che sta osservando fuso con la galleria stessa, parte integrante dell’ambiente. Una complessa struttura matematica, tutta da decifrare, ha al centro uno spazio vistosamente vuoto, bianco, centro dell’opera, centro della prospettiva, e finalmente centro di attrazione per chi guarda
Vogliamo chiederci il perché di questo vuoto in una struttura tanto complessa da diventare ansiogena. Potrebbe essere semplicemente il bisogno di respirare: Escher ha passato buona parte del suo tempo d’artista a cercare di afferrare l’inafferrabile, nelle strutture, un gioco molto serio e impegnativo.
Le forme dell’immaginario e i colori che le hanno costantemente accompagnate, si sono liberate ad un certo punto, la simultaneità e l’obbligo di comporsi in strettissima disciplina, hanno ceduto le armi.
Anche la scelta del mezzo è un’indicazione di percorso, un’indicazione tutt’altro che secondaria. Nido sceglie la colla a caldo, morbido strumento tecnico, complice eccellente di effetti plastici aggiuntivi, propositivi di nuove avventure. Le texture si sono complicate, i coriandoli hanno acquistato consistenza, volume, corporeità, un fondato sospetto di fisicità.

 

Roberto Coda Zabetta, Senza titolo, 2004,
olio su tela, 150 x 150 cm
Federico Guida, Stone, 2008, olio su tela, 122 x 91 cm

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3 / Capolavori della pittura olandese e fiamminga

 

Bernd Lindemann


Anonimo della scuola di Rembrandt,
L’uomo con l’elmo d’oro, 1650-55 circa, 
olio su tela, 67,5 x 50,7 cm

Nell’ambito della mostra “Da Rembrandt a Vermeer: valori civili nella pittura fiamminga e olandese del ‘600” aperta fino al 15 febbraio 2009 al Museo del Corso di Roma,ArsLife propone il saggio del curatore Prof. BerndLindemann, direttore della Gemäldegalerie di Berlino.

 

Dopo le mostre “Capolavori dalla Città Proibita. Qianlong e la sua Corte” del 2007 e quella della stagione passata, “Il ‘400 a Roma – La rinascita delle Arti da Donatello a Perugino” è la volta dell’arte fiamminga ed olandese. Il Museo del Corso con questa mostra si pone l’obiettivo di indagare lo sviluppo del genere degli interni domestici dedicati all’intimità familiare, testimonianza delrinnovato contesto sociale e dei valori civili dell’Olanda del Seicento. Grazie alla collaborazione con la Gemäldegalerie, da cui provengono le opere esposte, si potranno ammirare La Ragazzacon il filo di perle di Vermeer, Il Cambiavalute di Rembrandt, Il Ritratto di Tommaso di Carignano Principe di Savoia di Anton van Dyck, Il Paesaggio con l’impiccato di Rubens, solo per citarne alcuni.

CAPOLAVORI DELLA PITTURA OLANDESE E FIAMMINGA
Non esiste forse altro paese in cui nel breve volgere di cento anni siano stati dipinti così tanti quadri quanti durante il XVII secolo nelle Province Unite, in Olanda, come questa terra viene comunemente chiamata allʹestero, o nei Paesi Bassi, per rispettare il nome che essa si è data. Si stima che tra il 1600 e il 1700 vennero realizzati, in piccoli e grandi centri di pittura, non meno di 5 milioni di dipinti, un dato ancora più sorprendente se si pensa alla diffidenza verso le immagini sacre professata dalla chiesa riformata calvinista sin dalla sua prima diffusione. Lʹondata iconoclastica che ne derivò fu tale da rendere indisponibile la più classica destinazione delle maggiori produzioni artistiche: le ampie chiese delle cittadine olandesi accolgono ancora oggi i fedeli con nude pareti intonacate a calce, con ambienti spogli ed essenziali, dove non si indulge in alcun ornamento. Iscrizioni e stemmi possono talvolta ingentilire le lapidi e sporadiche immagini decorare le balaustre delle gallerie ma gli altari rimangono rigorosamente aniconici.

 

Cosa rese possibile una produzione artistica così prolifica e, soprattutto, cosa portò le Province Unite a scrivere un capitolo fondamentale della storia dellʹarte europea? Tra i molteplici fattori che possono essere chiamati in causa si deve innanzitutto ricordare la vitalità di una tradizione pittorica che risaliva agli inizi del XV secolo, il periodo dʹoro del ducato di Borgogna, e che, grazie alla ricchezza delle città dei Paesi Bassi e al livello di professionalità richiesto dalla corte borgognona, già rientrava di diritto nel novero delle grandi prestazioni artistiche europee. Le province settentrionali avevano fatto parte del ducato di Borgogna, in un passato ancora vivo nel XVII secolo; se, nella coscienza collettiva, il re spagnolo a cui esse si ribellavano aveva indegnamente usurpato lʹeredità borgognona, portandola alla rovina e cancellando gli antichi privilegi, la fedeltà al buon governo dei duchi di Borgogna rimaneva ancora intatta e in loro nome venivano eletti gli stadolder, la massima carica politica.

In secondo luogo i Paesi Bassi impararono a rapportarsi con lʹarte in modo diverso rispetto agli altri paesi europei. Tramontata lʹarticolazione in corte, convento e consorterie religiose, nuove realtà erano emerse: le élites cittadine, sempre più ricche e numerose (nella sola Amsterdam la popolazione era passata da 60.000 abitanti nel 1600 a 135.000 nel 1640), avevano scoperto, di pari passo con la nobiltà europea, come i dipinti fossero un simbolo di potere, oggetti da collezionare avidamente. LʹOlanda era, dʹaltra parte, la mecca del commercio e di conseguenza anche la pittura poteva diventare una merce. Lʹasperità del territorio e il paesaggio frastagliato da cime selvagge e impervie rendevano la Svizzera pressoché inaccessibile; nei Paesi Bassi, invece, le distese pianeggianti erano solcate da una rete di canali scavati per regolare lʹafflusso idrico, che si dimostravano, allo stesso tempo, vie di comunicazione straordinariamente efficaci, più pratiche e veloci di qualsiasi percorso sulla terraferma. Gli scambi commerciali, fino ad allora incentrati su spezie, tessuti e bulbi di tulipano, si estesero gradualmente anche ai dipinti, ed è per questo motivo che molti quadri olandesi non sono di grandi dimensioni: la maneggevolezza e il minor ingombro li rendeva più semplici da piazzare sul mercato. Ciò spiega anche, in ultima analisi, la diffusione su scala internazionale delle opere olandesi del XVII secolo e la loro immancabile presenza in quasi tutte le collezioni museali del mondo, a differenza, per esempio, dei lavori del Trecento e Quattrocento italiano. Il loro successo commerciale fu tale che, almeno fino alla fondazione di musei civici, erano pochissimi i dipinti di questo periodo conservati in patria.

 

Contrariamente a quanto avveniva in Italia, al numero da capogiro di dipinti si accompagnarono pochi esempi dellʹarte sorella, la scultura. Ovviamente lʹaperta ostilità che la dottrina calvinista manifestava nei confronti delle immagini di culto ne fu in parte responsabile, ma contribuì anche la carenza di magnifiche corti con immensi giardini disseminati di sculture. Diversa sorte ebbe invece lʹartigianato: i lavori in argento di un orefice del calibro di Johannes Lutma sono, ed erano, oggetti di lusso, così come le maioliche monocrome in blu o in brillanti colori variopinti.

 

LʹOlanda non fu mai un terreno fertile per le accademie. Le mancò unʹistituzione paragonabile allʹAccademia di San Luca di Roma, in grado di far valere la propria autorità e di vigilare affinché i pittori si adeguassero, nella fase compositiva, a norme prestabilite, soprattutto per la rappresentazione di temi storici particolarmente significativi. Ciò non comportò in alcun modo, tuttavia, una riflessione meno intensa, articolata e complessa sulla pittura, sulle sue possibilità, sui suoi compiti e sui suoi diversi generi e stili. Il racconto storico fu senzʹombra di dubbio anche per i pittori olandesi il più nobile compito con cui confrontarsi.
Le soluzioni a cui essi arrivarono, però, si differenziarono radicalmente da quelle elaborate negli stessi anni in Italia e in Francia, o persino nelle vicinissime Fiandre: la verosimiglianza storica da perseguire nelle ambientazioni e nelle fogge dʹabito, lʹadeguatezza dei sentimenti da far emergere nei ritratti (passioni e stati dʹanimo dei protagonisti), tutti quegli aspetti, in sostanza, rigidamente codificati nelle accademie ricevettero in Olanda unʹattenzione imbrigliata da un dogmatismo decisamente meno severo.

Nella produzione pittorica olandese del XVII secolo i quadri a soggetto storico non costituirono in ogni caso la percentuale più alta. Il contributo di gran lunga maggiore venne da generi che la critica dʹarte classifica come inferiori rispetto alla narrazione storica: ritratti, scene di genere, paesaggi, nature morte. Indubbiamente fu una conseguenza del processo di mercificazione della pittura: su un mercato così anonimo, una scelta tematica meno orientata e limitata facilitava le operazioni di vendita. Rimane di per sé affascinante, però, osservare il modo in cui gli artisti seppero reagire a circostanze e vincoli. In un rigoglio di creatività senza precedenti, sfruttarono ogni possibilità offerta da questi generi pittorici, sviluppando le tematiche in mille sfaccettature e conferendo dignità artistica a scene e oggetti che nessuno avrebbe mai pensato di poter rappresentare.

Le opere di pittura fiamminga in mostra testimoniano lʹautonomia del percorso culturale intrapreso dalle province meridionali, rimaste fedeli alla corona spagnola e tornate in seno al cattolicesimo in seguito alla guerra e alla Controriforma. I rapporti artistici, dʹaltra parte, non siinterruppero così nettamente come la storia dellʹarte ha sostenuto per generazioni: proprio lapittura paesaggistica aveva compiuto nelle Fiandre i primi importanti passi verso lʹemancipazione e un piccolo paesaggio di Peter Paul Rubens, con la sua atmosfera pesante e inquietante, ne mostra tutta la potenza e la carica inventiva.

Cornelis de Vos, 
Ritratto dei figli dell’artista Magdalena e Jan-Baptist
1621-22 circa, olio su tela, 78 x 92 cm

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4 / JAMES RIELLY
Things that go bump in the day

Luca Beatrice

 


James Rielly, “The 4 corners of the world” (particolare), 2008, olio su lino, 153 x 244 cm.  

Dal 18 dicembre 2008 sino al 28 febbraio 2009 -presso lo Studio d’Arte Raffaelli a Trento- si svolge la personale dell’artista contemporaneo inglese James Rielly, con il titolo: “Things that go bump in the day”. La mostra è curata da Luca Beatrice (che insieme a Beatrice Buscaroli curerà il Padiglione Italia alla Biennale veneziana del giugno 2009). Ecco il suo testo critico scritto per questa mostra di Rielly. Una lucida analisi che introduce alla conoscenza del panorama britannico dell’arte contemporanea

 

Treak or treat?
Testo di Luca Beatrice

“Un fronte freddo autunnale arriva dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere. Lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine. Neanche un bambino nei giardini.”
Jonathan Franzen, Le correzioni, 2001

Un paio di settimane fa mi sono imbattuto in un’immagine al limite tra bellezza e terrore. Era una foto che mostrava con fierezza lo stadio sportivo di una qualche cittadina della Corea del Nord in cui un integerrimo pubblico di spettatori si era diligentemente abbigliato a festa. Dall’insieme dall’alto si staccava un bambino con abiti tradizionali e nel pugno la bandiera del partito, che sventolava con gioia.

Alle volte gli ideali societari sono in grado di svuotare scrupolosamente la coscienza identitaria e il derivato è una ripetizione, noncurante del singolo, di cloni immobili e senza spirito.

Dall’estremo dell’immagine sopra descritta, ma così accade in parentesi ben più “normali” e socialmente concilianti, la ripetizione spersonalizzata di stilemi dettati dal comune vivere, porta con sé una icastica drammaticità.

“Please take advice”, fate attenzione, per piacere.

Una fila di scolaretti in rosso guarda con impassibile conformità a un richiamo che li ordina e li rende identici (sia in espressione e postura).

Pirandello ha messo in scena un teatro che era la rappresentazione della tragicommedia dell’uomo moderno: un personaggio alla ricerca di se stesso, intrappolato nel “Giuoco delle parti” di maschere sociali e tr4avestimenti costruiti su misura per lui.

Il grande orrore quotidiano è quello di trovarsi allo specchio un giorno di ordinaria quotidianità e scoprire che il nostro naso pende leggermente verso destra, e per un paranoico meccanismo mentale di fragilità, spogliarsi delle proprie sicurezze fino a sfiorare la follia. Senza successo. Con lenta e silenziosa assurdità dilagante.

Nelle “Correzioni” Jonathan Franzen annuncia l’arrivo lento e implacabile di un temporale che, per tutta la durata della narrazione, spazzerà via i valori e le regole di una famiglia per bene del dopoguerra americano: il tentativo incessante di “correggere ogni deviazione dal giusto” approda in una realtà di disperazione irrisolta e depressioni negate. Il silenzio imposto da una educazione di discutibile efficacia, trasmette l’incomunicabilità di una umanità travestita e innaturale.

Anime immobili, imprigionate in ruoli a loro pre-assegnati, mettono in scena il teatro della vita: una commedia spietata e satirica per uno spettacolo già visto. Già visto sì, perchè i personaggi sono attori noti.

Sembra allora di guardare e guardarsi, nei quadri di James Rielly, come in uno specchio.

I suoi ritratti incorporei sono il riflesso della società perbenista e conservatrice, in grado di mostrarsi per il suo lato di ottimismo e inquieta serenità, celando l’altro aspetto contraddittori che si autocritica e autodistrugge. Il volto di un bambino coperto da una sacchetto di cartone, quattro scheletri di fanciulli in partenza, lo scatto di un quadretto familiare con orsacchiotti nuovi e vecchi, la sfilata paradossalmente senza gioia di un carnevale dai contorni sfumati.

Là dove regna la calma e la tranquillità, si annida un sentore di marcio e corruzione attaccato a sorrisi e occhi languidi che annuiscono a con statica indifferenza allo scorrere del vivere quotidiano.

Un bambino che fuma una sigaretta, inquadratura fissa – solo i suoi occhi e il gesto che porta alla bocca il fumo in una sorta di loop – era l’assurda visione di Maria Marshall nel video “When I grow up I want to be a cooker” del 1995. La mostra “Common people” andata in mostra alla fondazione Sandretto a Torino nel 1999 portava in Italia la visione dissacrante della società inglese vista dai suoi giovani artisti. Certo più efficace di tanta “pubblicità progresso”, la feroce critica dell’universo benpensante anglosassone, ha trovato riscontro nell’arte di esporre la naturale quotidianità, mostrata nella sua sicurezza e virtuosità. Senza fronzoli o imbastiture, la realtà si è fatta soltanto un po’ più reale.

Negli anni novanta il bisogno era quello di stupire, provocare e generare lo shock, quello delle emozioni, della riluttanza, dell’orrore e della denuncia sociale. Il senso, dopo anni di benessere economico e celato ottimismo, era dettato dal bisogno di evadere e di causare l’incidente con il pensiero comune.

Gli artisti anglosassoni, soprattutto quelli provenienti dalle periferie metropolitane, hanno attutito la caduta originata dalla trasgressione del punk londinese, assumendo un atteggiamento di critica vera e propria, vagamente militante, che derideva la società formalmente corrotta che li aveva partoriti. Lo hanno fatto con una mostra “Sensation”, onda d’urto di un’offensiva fredda e senza veli che ha fagocitato la doppia natura – conservatrice da una parte e liberale dall’altra – dell’universo british e della società occidentale più in generale.

“Sensation” con la sua galleria di immagini violente, sfacciate e crude, doveva invocare la realtà e la sensazione per l’appunto, rivoltando quel sentimento di empatia con le ossessioni della contemporaneità.

Lo hanno fatto gli yBa con madonne di sterco di elefante, bambini siamesi e multisessuati, uomini morti e iperrealisti, sesso e sangue sparpagliato un po’ ogni dove.

Accanto a tanto accanimento visuale e sensoriale, ci sono stati anche casi silenziosi di espressioni più contenute, la cui efficacia prese forma nel gesto pittorico, teso e pacato insieme. Eppure i flat painting di Gary Hume in equilibrio statico tra contorno e ombre, le grandi tele scritte di Peter Davies o le monocromie materiche e gestuali di Jason Martin hanno trasmesso, con la stessa forza emotiva della mucca in formalina di Damien Hirst o della tenda, feticcio erotico di Tracey Emin, il sentimento di distacco e di apatia che la nuova generazione si trovava a vivere.

James Rielly scelse in quegli anni la strada di una pittura neo-fauve e naif che immortalava, in tele di piccole dimensioni, ritratti di sconosciuti e di adolescenti. “Random Act of Kidness” erano cartoline di volti e figure saldamente immobili.

Oggi il suo lavoro si discosta dalla mera figurazione di adolescenti in bilico tra bellezza e disperazione – intravista in visi segnati da ematomi o tagli – seppur conservando una predilezione per quegli sguardi vergini eppure già così colpevoli di non si sa quali crimini. Con il nuovo secolo, lo shock visuale non ha più il valore di traumatizzare o sensibilizzare occhi ormai allenati a immagini di terrore e paura. Non ne abbiamo più bisogno, anzi, il bombardamento sistematico di immagini al limite tra realtà e incubo, dimostrano che il secondo ha preso il sopravvento sulla prima. La realtà p portavoce di un comune orrore ricamato sui suoi idoli e sistemi di pensiero.

“Malocchio e gatti neri, malefici misteri/il grido di un bambino bruciato nel camino/Nell’occhio di una Strega il Diavolo s’annega/E spunta fuori l’Ombra; l’Ombra della Strega!/La Vigiliad’Ognissanti han paura tutti quanti/E’ la Notte delle Streghe/chi non paga presto piange”. John Carpenter, La notte delle streghe, 1978

La notte della festa celtica di Halloween, l’antico rito della Shamain, in cui si credeva che gli spiriti del bene e quelli del male prendessero corpo nella nottata dedicata ai morti, risuona in particolare nella cultura anglosassone con il ritornello “Treak or treat?”

“Dolcetto o scherzetto?”. La notte di Halloween ci si traveste – le tradizioni fan presto a diventare commercio – per party al sangue e feste stregate. Il binomio divertimento-terrore è presto fatto e scheletrini, fantasmi, streghette e assassini sono i soggetti preferiti per una bonaria mise da horror movie. Un misto di paura e scherzo, per una notte si mettono in scena antiche credenze e nuovi terrori.

Il cinema ha così attinto dalle maschere di morte e di pinocchi trasformati in assassini per far tremare e terrorizzare. L’horror di John Carpenteer inventa storie a partire proprio da bambini che cantano una filastrocca nelle notti di luna piena e che si trasformano da adulti in assassini spietati dai ghigni malefici. I film dell’orrore, partendo dai sogni – o meglio incubi -, finisce per raffigurare paure recondite non poi così tanto irreali, che quasi alleggeriscono, con un certo gusto alla suspance emotiva, spesso rinforzata da effetti splatter o eccessi di gusto noir, quello che è il set di incubi ben più reali.

Il sogno del conservatorismo britannico, infatti, ha cominciato a vacillare di fronte a tanta violenza implosa proprio là dove sembrava regnare la discretezza di una società moralmente controllata e spiritualmente incorrotta.

In Italia i casi di follia assassina in territori dove era impensabile credere che si potesse esternare non sono certo mancati (dai vari delitti “in villa e tra i rampolli di famiglie assolutamente per bene). Forse la noia, forse l’assurdo meccanismo malcelato nei desideri irrisolti del nuovo millennio.

Un surrealismo tragicomico. Lo stesso che prende forma nella narrazione meta-reale di James Rielly. Frammenti di quotidiano decontestualizzati e congelati in un attimo di elegante fermezza compositiva.

I suoi soggetti aleggiano in territori senza corpo e là dove appare accennato (“Where is the boat”) la non presenza fisica dell’elemento raffigurato acquista senso di inquietudine e pena.

L’efficacia della sua pittura e della sua non-critica – che è in questo suo essere ancora più accanita e sconcertante – enfatizza lo spiazzamento percettivo di questo valzer di ritratti umani.

Maschere e travestimenti: Where is the Party? Verrebbe da chiedersi, eppure i titoli dei suoi lavori aiutano a spiegare – o a spiazzare, confondendo – la vera natura di quello che vediamo. “The war is on its way”, “The four corners of the world”, “Learning about life”: sotto il velo dell’apparenza, volti pallidi e immobili rivelano un’irrequietezza nervosa di una generazione nevrotica e problematica, figlia di un’introspezione che la rende vittima e carnefice insieme.

L’abilità dialettica del mutismo pittorico risiede nel saper toccare, attraverso stringati spunti narrativi, sfiducie e ossessioni inespresse.

Tristemente ironico, volutamente drammatico, la realtà ordinaria estrapolata dal suo contesto, diventa surrealtà dai toni pastello che malcela un’inquietudine esistenziale.

Che siano intenti in un gioco per grandi o vittime di uno scherzo dal sorriso amaro, certo i personaggi di Rielly guardano impietosi al loro essere tristemente soli. Una carrellata di destini umani dai contorni indecisi. Lo sguardo, quello sì, non lascia spazio a commenti, parla per così dire, nel silenzio della sua lontananza.

 

 
James Rielly, “I think you were older than me once” 2004/2008, olio su tela, 45,5 x 41 cm

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 5 /Il Nouveau Réalisme ieri, oggi e domani

 

Renato Barilli

 

 

Nell’ambito della mostra “Il Nouveau Réalisme dal 1970 ad oggi. Omaggio a Pierre Restany” aperta fino al primo febbraio 2009 al PAC di Milano (web), ArsLife propone il saggio del curatore Renato Barilli. 

Una dichiarazione di morte inaccettabile
Le roi est mort, vive le roi: questa la sacra formula con cui in Francia veniva sancita la continuità dinastica da un sovrano all’altro. Mi piace iniziare queste pagine facendo echeggiare, e valendomi della medesima francofonia, un altrettanto solenne Le Nouveau Réalisme est mort, vive le Nouveau Réalisme. O almeno, così avrei esclamato se fossi stato presente alla conclusione delle entusiasmanti giornate del novembre 1970, che a Milano ebbero il compito di celebrare il primo decennale dalla nascita del movimento.
Quella decisione, presa in comune dai membri del sodalizio allora presenti, me la ricorda con garbata insistenza Daniel Spoerri nelle conversazioni che il tentativo di organizzare la presente mostra mi ha spinto ad avere con lui. In particolare, Spoerri non può mancare di ricordare che proprio a lui spettò il compito di organizzare l’Ultima Cena per quelle giornate e, assieme a essa, l’ultimo atto di vita dell’intero gruppo; e in qualche misura lo stesso grande patron, il mentore e capofila dell’operazione, Pierre Restany, seppure obtorto collo, dovette sottoscrivere, accettare il duro passo. Ma poi, in tutta la sua attività successiva, finché vita scorse in lui, ebbe a smentire quell’infausto pronunciamento, continuando a dimostrare che la nascita e lo sviluppo del Nouveau Réalisme restavano la grande avventura della sua esistenza, lo scopo principale per cui era nato. Da quel momento, non c’è stato evento, mostra, manifestazione relativa a qualcuno dei firmatari dell’atto iniziale cui Restany negasse un caldo, solidale, entusiastico appoggio. Anche se, beninteso, egli fu pronto a inseguire altre piste, tra cui conviene ricordare almeno quella che si presenta con segno opposto rispetto all’operazione novorealista. Questa consiste nel dare la parola agli oggetti usciti dall’industria, ai prodotti dell’artificio umano, portandoli a stiparsi, ad agitarsi in primo piano.
Invece, l’avventura da lui affidata al Manifesto del Rio Negro è proprio contrario, sta nel rendere un riconoscimento alla natura quando si presenta nel modo più selvaggio e primordiale, come muro di vegetazione in cui l’uomo quasi non riesce a penetrare. Insomma, potremmo dire in formula che l’intera carriera di Pierre è stata rivolta ad attrezzare due percorsi dell’uomo, ciascuno di essi Il Nouveau Réalisme ieri, oggi, domani
Renato Barilli entro una giungla, in un massiccio e quasi impenetrabile “tutto pieno”, l’uno dato dall’universo degli oggetti industriali, l’altro da una natura vergine e incontaminata.
Il primo compito della presente mostra è di rendere onore a Pierre, con un riconoscimento che Milano e l’Italia gli devono, considerati i lunghi suoi periodi di residenza presso di noi, e di operosa attività prestata a riviste, gallerie pubbliche e private, istituzioni, quasi rinnovando il destino già adempiuto da un suo grande predecessore francese, perfino nell’amore quasi esclusivo per Milano, Stendhal. E come meglio ricordare Pierre se non appunto attraverso la scommessa critica essenziale della sua carriera, cioè il Nouveau Réalisme? Per rendere, tuttavia, più denso e utile il presente omaggio, conveniva superare quella data di morte presunta, che al critico stesso era stata strappata dai compagni di via, divenuti insofferenti dello spirito di colleganza, desiderosi di procedere ormai ciascuno per la sua strada. Ho già detto che, almeno mentalmente, lui quell’atto di decesso non l’ha mai controfirmato. Ma in fondo, fin qui, si potrebbe pensare che egli fosse vittima della pretesa di rimanere fedele a una propria creatura anche dopo che per questa erano spirati i termini giusti di sopravvivenza: un atto di pigrizia mentale, di nostalgia, non troppo rispondente a quanto stava proponendo la ricerca artistica più vivace e dinamica degli anni post settanta. Questo, però, è il punto cruciale dell’omaggio a Restany qui tentato: non credo affatto che l’impresa novorealista fosse chiusa, allora, e già pronta per essere consegnata alla storia. Essa è rimasta viva, presente, attuale e, dunque, il critico aveva ragione nell’insistere a darle un suo pieno appoggio. Come è noto, proprio l’anno scorso, 2007, Parigi ha organizzato al Grand Palais, sotto l’abile regia di Cécile Debray, una bella ed esauriente ricostruzione degli anni giusti del movimento, di quel decennio 1960-1970 che le giornate milanesi ebbero a celebrare così bene. Nulla da dire, in termini strettamente filologici e storici, quello è stato il periodo di esistenza ufficiale del movimento, con un massimo di riconoscibilità, e anche di partecipazione collettiva. Proprio per rendere questo senso di adesione comunitaria, la mostra parigina si è guardata bene dal dividere le varie presenze in box separati: le opere dell’uno e dell’altro protagonista si vedevano gomito a gomito, perfino col rischio di confonderne le rispettive paternità, come era inevitabile, visto che in quel fascio d’anni i diversi autori s’incontravano,  si rubavano le idee l’un con l’altro, davano luogo a una stretta simbiosi. Il 1970, senza dubbio, ha significato la cessazione di un procedere in comune, di una stretta cooperazione, ciascuno dei protagonisti da quel momento ha preso una propria strada, le occasioni d’incontro e di collaborazione si sono rarefatte. Eppure, non per questo i singoli esponenti della prima fase sono venuti meno alle coordinate cui avevano aderito, questa è la tesi di fondo che mi spinge a celebrare la preveggenza critica di Pierre anche nella fase post settanta. La formula ha retto alla prova, ciascuno dei vecchi firmatari le è rimasto fedele, sebbene riprendendola, ampliandola, potenziandola con ricette personali. C’è stata una diaspora, ma, si parva licet, quasi nel senso in cui gli apostoli dopo la Pentecoste hanno portato il Verbo di Cristo in aree diverse della carta geografica, ma con sostanziale rispetto del messaggio ricevuto. E il messaggio che ciascuno dei novorealisti ha ripreso e potenziato per suo conto serve ancora, gode di piena attualità – questo il senso della presente mostra –, costituisce un bene di cui la comunità europea deve andar fiera, sostenendo grazie a esso una robusta opposizione agli influssi provenienti da oltre Atlantico, dagli Stati Uniti, che molti vorrebbero continuare a considerare come la principale fonte autorizzata di esperienze e innovazioni per tutto l’Occidente. Perché gli Stati Uniti hanno il diritto di essere orgogliosi dell’eredità di Rauschenberg e di Johns, e invece noi dovremmo relegare César e compagni nei ripostigli inattuali della storia, negli archivi polverosi del passato? Forse che Spoerri non è attivo e vitale più che mai, con proposte che consuonano con quelle provenienti da uno Steinbach o da una Kiki Smith? E i monumenti eretti da Arman sono forse inferiori a quelli di Oldenburg? E gli sviluppi di Deschamps non sono forse suscettibili di reggere il confronto col miglior Koons o con Mike Kelley? Insomma, riandare oggi su quanto i vecchi leoni del Nouveau Réalisme ci hanno proposto dopo il 1970 corrisponde un poco a esibire i meriti, il prestigio dell’euro contro la supremazia, un tempo ritenuta insuperabile, del dollaro. Europa contro Stati Uniti, in una sfida, sia ben chiaro, amichevole, di leale competizione, nell’interesse superiore della creazione artistica, e quando già l’Occidente sa bene di essere insidiato sempre più da vicino dalla riscossa degli altri continenti. E davvero il Nouveau Réalisme può assumere una rappresentanza per l’intero Vecchio Continente, in quanto la sua casa madre fu la Ville Lumière, capace, attorno agli anni sessanta, di esercitare forse per l’ultima volta il suo ruolo di crogiuolo di forze provenienti dall’intera Europa, funzionando da melting pot in cui i contributi degli artisti di nascita francese si fondevano con quelli di chi proveniva da Paesi diversi, alcuni addirittura spiazzati, rispetto alla centralità delle vie dell’arte: la Bulgaria di Christo, la Romania di Spoerri, la Svizzera di Tinguely, l’Italia di Rotella. L’Ecole de Paris agì appunto per l’ultima volta come ideale luogo d’incontro e di sintesi, ma ben sapendo di dover cercare riscontri in altre piazze in patria e fuori, e soprattutto a Milano, che grazie a Restany, e all’apporto del suo grande amico e collaboratore Guido Le Noci, insediato nella Galleria Apollinaire, seppe divenire una seconda patria del movimento, quasi introiettandolo, e rivivendo attraverso di esso, la lontana stagione di audacie legate all’esplosione del Futurismo, negli anni d’oro tra il primo e il secondo decennio del secolo. E dunque, omaggio a Restany, ma a lui rivolto per così dire in itinere, per un prodotto che non è affatto da archiviare, ma che al contrario mostra di essere ancora dinamico, nei pochi sopravvissuti, e che comunque lo è stato in chi ci ha già lasciato, fino all’ultimo istante di vita. Un prodotto di cui l’Europa, il mondo, sente ancora il bisogno, in quanto risulta pienamente rispondente ai parametri della ricerca attuale. Pertanto, l’esame qui condotto degli esiti scaturiti dal Nouveau Réalisme, in questa curiosa fase posteriore alla sua morte ufficiale, intende rispettare scrupolosamente due parametri: occorre andare a esporre
opere prodotte dopo quel limite fatidico, limitandosi ad appena qualche minima documentazione di quanto fatto in precedenza dai singoli, nel periodo aureo e ufficialmente consacrato del movimento; e bisogna anche che tali opere risultino del tutto in linea con le coordinate teoriche del movimento. L’azione congiunta di questi due criteri porta a eliminare soltanto due dei firmatari dello storico documento di fondazione, nel novembre del 1960: Yves Klein, perché ahimè deceduto poco dopo, e dunque non sappiamo come avrebbe continuato la sua azione; e Martial Raysse, perché forse è stato l’unico tra i firmatari che in seguito ha deviato verso altri orizzonti, confluendo nel clima della Pop Art, venendo dunque meno alle premesse iniziali. Ma gli altri hanno diritto di esserci tutti, mentre addirittura mi rifiuto di concedere loro il diritto al negativo di sottrarsi a questa chiamata. Essi hanno continuato a marciare con grande rigore e costanza lungo la rotta già imboccata, non solo, ma, ecco un altro requisito essenziale, in genere ciascuno di essi ha ampliato le premesse da cui era partito, ha potenziato, ingigantito il proprio lavoro, ricavandone prestazioni superbe, spettacolari e, appunto, come già detto, del tutto in linea coi migliori requisiti dell’attuale ricerca internazionale. Vediamo, qui giunti, di condurre una specie di “chiamata” per andare a verificare su ciascuno dei soggetti in questione la presenza o meno di tali parametri. […]

Per leggere il saggio integrale, clicca QUI (Scarica il PDF)

 

 

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