“L’Italia dopo l’Italia”, una serie di nove lezioni di storia ideate da Editori Laterza, ha dedicato un appuntamento anche al cinema. Il 2 maggio scorso Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della Sera e Io Donna, ha tenuto una lectio dal titolo sarcastico ed emblematico: “L’Identità italiana al cinema: da I soliti ignoti a I soliti idioti”. Prima di entrare nel vivo, però, è giusto affrontare la dura realtà. Una volta entrati nella location dell’incontro, la magnifica Basilica Madonna delle Grazie a Milano, è bastato uno sguardo fugace per scorgere un tappeto di teste bianche, mentre solo qua e la spuntava con timidezza qualche capo ricciuto. Nonostante il riferimento ad uno dei tormentoni young dell’ultimo periodo, gli unici ad essere interessati sono ancora gli over 50. Riflettiamo.
L’impronta nostalgica si dipana anche durante l’incontro, che inizia subito con degli interrogativi scomodi. Mereghetti ha proprio avuto il merito di dare voce a insistenti dubbi che gli appassionati di cinema covano nelle loro menti da circa un decennio: il cinema italiano è ancora lo specchio della società e del paese? Qual è l’immagine dell’Italia che viene proiettata oggi? Quali sono le differenze con i riflessi del passato?
Quella mostrata senza dissimulazione da Mereghetti è la sofferenza, la nostalgia di qualcuno che al cinema vuole bene veramente e che si raccapezza poco in quell’immagine del paese sghemba e alterata che le pellicole nostrane riflettono da qualche tempo a questa parte. Perciò guarda al passato, per cercare di capire cosa non funziona in Checco Zalone o nella coppia Biggio-Mandelli, che tanto fanno sbellicare il pubblico.
Siamo ben lontani dai tempi di una coppia ben più famosa: Don Camillo e l’Onorevole Peppone, che con le loro zuffe davano voce a quell’ attaccamento alla terra e quell’ estremismo politico che tanto caratterizzava l’era post-fascista, in cui si rivendicava il valore della diversità dopo un ventennio di uniformità forzata. Senza scurrilità e senza iperboli la mitica saga, oltre che strappare un sorriso e provocare un senso di empatia nello spettatore, ha riscosso un miliardo di lire al botteghino in tempi sospetti: gli anni ’40. Chapeau.
Ma questo è solo il primo esempio del radicamento del cinema italiano alla realtà, alla società e i suoi limiti. Erano i tempi in cui il cinema si nutriva della gente, dei suoi problemi e dei suoi punti di vista; il suo compito era quello di masticare tutto in chiave ironica o realistica e riproporlo alle masse per mostrare, senza troppi complimenti, pregi e difetti, perseguendo due obiettivi centrali di quest’arte: consapevolizzare e migliorare. E’ successo con Un Americano a Roma (1954), dove il mito d’oltreoceano, che prende piede nel dopoguerra, svanisce di fronte ad un invitante piatto di spaghetti. E’ successo in Altri Tempi (1952), in cui si rafforza una nuova immagine di donna, non più legata a fornelli e prole ma consapevole del proprio corpo e affamata di potere e successo. Inizia l’era delle maggiorate, baby, l’uomo diventa sempre più bamboccione e incapace di tenere a freno l’esuberanza femminile.
A quanto pare sono proprio il boom economico e la corsa ai guadagni gli imputati numero uno, colpevoli di aver modificato l’equilibrio funzionante tra cinema e pubblico a partire dagli anni ’60 –’70. Il primo smette di essere lo specchio del secondo ed entra in una nuova fase: l’indirizzamento alla riflessione. Cosa rimane? Mereghetti lo definisce la “Sindrome da Ultimo dei Mohicani”, in realtà si tratta di quel senso di rimpianto e sconfitta a cui dà voce Salvatores nei film degli anni ’80 (Ricordate Marrakesch Express o Mediterraneo?).
Insomma il cinema non è più in grado di leggere i valori dell’Italia. Secondo il critico cinematografico si è creato un circolo vizioso che coinvolge un populismo di grana grossa e regionalismi spicci, entrambi manovrati dalla mano poi non così invisibile del marketing, che esula da scelte culturali accorte. In film come I Soliti Idioti o il deludente Benvenuti al Nord, “non si va oltre la risata”, apostrofa Mereghetti. Dietro al trionfo dei dialetti e del tipico orgoglio d’appartenenza non c’è altro che una mera offerta ai pubblici regionali, priva di nuovi orizzonti identitari. Nonostante il leit motiv nostalgico e le critiche sferzanti ai nuovi box office, il critico si ricompone e invita a non rimpiangere l’età dell’oro, ma ad essere più esigenti quando si tratta di ridere al cinema.
Bella lezione. Niente da dire. Se non fosse che uno dei dubbi iniziali rimane: è veramente solo una questione di marketing? Data l’eco e il successo in sala che queste pellicole hanno raccolto sembra che sia giunta una risposta più che concreta da parte del pubblico, che ha scelto di seguire i personaggi dalla Tv al grande schermo e di spendere i soldi del biglietto. E se questi film fossero lo specchio dell’Italia moderna? Un’Italia in cui dilaga l’ignoranza, dove l’italiano è davvero diventato un optional non solo per le classi medio-basse, in cui l’arte viene abusata e bistrattata da Uomini & Donne mediocri e con il deficit dell’attenzione? Mereghetti ha dimostrato di essere più nostalgico di quanto abbia lasciato intendere, dedicando le briciole alle ultime argomentazioni e ripetendo a grandi linee (facendosi forza di esempi visivi) le idee espresse in “Nuovo Cinema Populista”, articolo apparso su LaLettura il giorno prima dell’incontro.
Peccato, inoltre, che si sia trattato di un incontro a senso unico, senza l’intervento del pubblico. Il dubbio, perciò, rimane irrisolto e nebuloso, come le probabili soluzioni pratiche per superare questo “periodo no” del cinema italiano, che Mereghetti si è dimenticato anche solo di nominare.
INFORMAZIONI:
Qui trovate il programma completo e la presentazione dell’evento di Laterza: http://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=736:lezioni-di-storia-milano-litalia-dopo-litalia&catid=108:news-eventi&Itemid=101