Print Friendly and PDF

Mater Dolorosa

Come scrive Stella Cervasio sulle pagine di La Repubblica. “Chi va al museo Madre ha l’ accesso sbarrato a 16 sale, gran parte delle opere prestate da grandi collezioni non le vede già da tempo. Per trovarne alcune, deve andare a Sorrento, dove l’ ex direttore Cicelyn ha esportato un’ opera, o a Madrid e Venezia”.

E ancora: “Una visita al Madre in disgrazia è un modo per verificare quanto sia stata evocativa per l’ arte contemporanea l’ architettura di Alvaro Siza: sedie girate verso il nulla e secchi d’ acqua rovesciata rischiano di sortire l’ effetto Alberto Sordi e signora che sbeffeggiano la Biennale nel film “Vacanze intelligenti”. C’ è anche la memoria di una “ferita” che ancora brucia, “Wound”, di Anish Kapoor, l’ artista della grande tensostruttura di piazza Plebiscito, rimasta sulla parete come un profilo di pigmento rosso. L’ unica traccia dell’ opera del grande anglo-indiano tornata nel museo irlandese dal quale era stata prestata”.

Tuttavia, non dovrebbe sorprendere, a maggior ragione  un osservatore attento come la Cervasio, lo stato di salute del Madre di Napoli, forse l’unico museo al mondo privo di una collezione propria. Voglio dire che le bugie hanno le gambe corte o come direbbe un contrabbandiere navigato “la cassa prima o poi deve salire a galla” alludendo evidentemente al teorema di Euclide.

Dunque, spiazza tutto questo clamore sulla vicenda del Madre, come se una certa politica culturale avrebbe potuto produrre ben altri risultati che non il lento e irreversibile declino di carrozzoni inefficienti e ispirati a logiche da prima repubblica (d’altronde è un dato di fatto che gli enti pubblici napoletani sono in default). Eppure fino a qualche mese fa non c’era un giornalista in tutta la regione Campania che avesse avuto l’ardire di entrare nel merito di una politica attenta più all’effimero che alla sostanza.

Un museo, il Madre, che nel breve ma dispendioso corso di vita, non ha acquisito neanche un’opera d’arte raccattando a destra e a manca comodati d’uso o donazioni da parte di chi pure aveva qualche interesse a rilanciare le proprie collezioni private con ingenti investimenti pubblici.  Ma già a gennaio scorso le prime avvisaglie di una situazione diventata ormai impossibile: sul tavolo di un vertice tra la Regione e la Scabec, la società che gestisce i servizi del museo di via Settebrini, incombeva il macigno dei dodici milioni di euro vantati da vari creditori nei confronti della Fondazione Donnaregina che fa capo alla Regione da cui dipende il Madre.

Eppure c’è stato chi ha difeso l’operato di Cicelyn in una vera e propria apologia – così recitava il titolo – apparsa sulle pagine del primo quotidiano cittadino: “Il Madre è l’istituzione in cui Napoli si confronta con la scena contemporanea delle arti, provando a ripetere, con le varianti dettate da un grande spazio espositivo, lo schema della galleria di Amelio che tanta parte ebbe nell’apprendistato di Martone e di Falso Movimento”. Affermazioni piuttosto ardite, così come il paragone con colui che per primo aprì la città al contemporaneo inaugurando una stagione assolutamente irripetibile. C’è poi il particolare poco trascurabile che Lucio Amelio non dilapidava montagne di soldi pubblici ma arrischiava investimenti propri con capacità imprenditoriali, a quanto pare, del tutto sconosciute al direttore del Madre.

Direttore che ha fatto del museo il simbolo di una stagione politica finita e che oggi butta benzina sul fuoco: “Chi ha stabilito che l’ opera di Carl Andre (che peraltro la vedova del gallerista Konrad Fischer rivuole) va da sola in una stanza, che Paladino si accosta a Pisani? Queste cose deve deciderle un curatore”. A quanto pare Cicelyn ne contesta l’ assenza: “Il direttore non viene nominato da un anno, ma il vero problema sono i fondi privati che non sono arrivati, come da modifica dello statuto e i fondi della Regione pari a zero. Se volevano ammazzare il Madre bastava dirlo, non era necessario cambiare lo statuto”.

Nelle sale rese inaccessibili da transenne (quasi l’ intero secondo piano) sono rimaste solo cinque opere. Per una, quella di Gianni Pisani, “Incidente”, è in corso una querelle: l’ artista la vuole indietro, perché chi l’ ha prestata al Madre purtroppo non c’ è più e Pisani teme anche per le sorti del suo lavoro. Percorsi anomali per i visitatori, ridotti a cinque al giorno, ma si annuncia una svolta per il museo di via Settembrini: “Dovremmo essere alla vigilia dell’ arrivo delle misure che aspettiamo – dice l’ amministratore Pierpaolo Forte – nel frattempo alla Fondazione abbiamo predisposto tutto quello che serve: il museo è una macchina pronta per ripartire ma manca la benzina. La prossima settimana la considero decisiva. E intanto esponiamo quello che abbiamo”.

Ma, a parte le incapacità gestionali e le dichiarazioni propagandistiche, quello che è più mancato in questi anni è un lavoro di storicizzazione. Si è preferito bypassare le enormi difficoltà che una ricostruzione dei fatti che hanno segnato la vita artistica della città avrebbe comportato. Forse, per non scontentare nessuno – d’altronde le rivalità e gli screzi tra le gallerie storiche sono proverbiali –  o più probabilmente per creare una discontinuità con il passato in nome di una svolta politica e culturale senza precedenti. Qui, più che altrove, sta la debolezza del progetto museale di Cicelyn che giustificherebbe almeno in parte il numero sempre crescente dei suoi detrattori.

Ma non sia detta l’ultima parola, speriamo che il Madre si salvi e che la nuova direzione faccia i conti con il passato. Non solo con quelli economici, s’intende.

Commenta con Facebook

leave a reply

*