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dOC 13. La storia delle cose. Le cose della storia

Francis Alÿs, Reel-Unreel, 2011, video documentation of an action In collaboration with Julien Devaux and Ajmal Maiwandi. Photo: Francis Alÿs
dOCUMENTA 13, Halle

La supposta contrapposizione tra la Biennale di Venezia e dOCUMENTA di Kassel sappiamo tutti che non esiste. Due filosofie troppo diverse. Una linearità, quella tedesca, che in Italia latita. Una ricerca curatoriale concreta, vera e profonda quella di dOCUMENTA, che a Venezia c’è raramente e più spesso si limita ad inventare un titolo della rassegna vacuo e generico. La Biennale ha finito per assumere l’aria di un mercatino etnico, addensato in una logica nazionale che è bellissima perché vintage. E’ divertente e pittoresca, mondana e attentamente casual: l’ideale per gli uffici comunicazione e p.r.

Sulle rive della Fulda lo spettacolo è diverso. Diverso e più difficile, anche incomprensibile a volte o troppo politicamente scorretto. E’ una visione del mondo lucida, confusa o personale. Ma sono lenti aggiuntive che dobbiamo indossare. Tutto questo in laguna è scomparso da tempo, ma senza piagnucolare, è bene che le filosofie non si sovrappongono anche perché i nostri budget e le nostre tempistiche nello scegliere i direttori sono diverse: mediterranee e rilassate. Perfino fataliste.

E allora perché andare a vedere questa dOCUMENTA 13 che ha scatenato polemiche curiose, inviperite  e personalistiche contro la direttrice, Carolyn Christov-Bakargiev? La risposta è semplice: è una grande edizione di una grande  rassegna che ogni 5 anni ci mostra una “versione dei fatti artistici”  senza preoccuparsi se siano recentissimi o sconfinano nell’immenso Novecento. Senza geografie dominanti. La direttrice artistica ha poi alcune caratteristiche di storia personale che la rendono particolarmente autorevole a fare qualcosa che lega storie e situazioni. Nata negli USA da una madre piemontese e da un padre bulgaro, ha studiato a Washington e Pisa, vive a Roma, ha diretto il Castello di Rivoli con mostre non in linea con la precedente programmazione, ma nello stesso tempo ha pagato il suo debito all’Arte povera con uno spazioso volume sul movimento edito da Phaidon. La Christov-Bakargiev ha colto l’occasione della direzione artistica di Documenta, che in genere capita una volta sola come la vita o la morte, e ne ha fatto un manifesto della sua sensibilità, delle sue idee, cioè un progetto curatoriale stile Harald Szeemann, per ricordare il santo patrono di tutti i curatori d’arte. Ha avuto anche una grande disposizione al rischio, il coraggio di affrontare con la propria testa quel fenomeno sempre più difficile da inquadrare, sempre più intrecciato con affari e mercati, come l’arte contemporanea. Lei è partita da se stessa e dalla visione dell’arte che ha accumulato nel suo mezzo secolo di vita e trent’anni d’ esperienza, senza affidarsi a un tema che potesse in qualche modo inscatolare tutta la manifestazione che ha la consueta complessità. Ha pensato in grande, forse troppo in certi casi, anche se si sa che il pensiero scappa da tutte le parti, espandendo la rassegna a Kabul, Alessandria e al Cairo (una settimana) e a Banff in Canada. Se si vuole portare il mondo al centro dell’arte bisognerà probabilmente portare l’arte nel mondo.

Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice di dOCUMENTA 13 a Kassel (Foto: Eduardo Knapp/Folhapress, ILUSTRADA)

E allora capita al visitatore che cominci il percorso con il Friedericianum, costruzione museale punto di riferimento e starting point del percorso, di trovarsi alle prese con lettere tra la direttrice e gli artisti, sale attraversate da folate di vento che sono opere d’arte create (volute)  da Ryan Gander e da  opere di Julio Gonzales, mitico scultore surrealista, con accanto una foto delle stesse e i visitatori che le videro nel 1959. L’inizio è abbastanza orticante, eccessivamente spoglio, il nome e gli statements della curatrice sono ovunque, ma quando poi si va nella Rotonda e ci si trova di fronte alle bottiglie di Morandi oltre ai suoi quadri, alle foto e gli oggetti che hanno scandito il rapporto tra Lee Miller e Man Ray con un parallelo tra la love story tra Hitler ed Eva Brown o agli oggetti d’arte danneggiati durante le mille guerre che si combattono, allora capiamo che dobbiamo attivare la nostra rete neuronale per sopravvivere. Dobbiamo leggere molto anche i testi di Francesco Matarrese, concettuale pugliese che rinunziò a fare arte negli anni Settanta. Anche questa è una scelta artistica.

Frideriacianum / dOCUMENTA 13 / Kassel / 2012, Photo © Nils Klinger

Sicuramente le magnifiche relazioni tra gli oggetti, gli artisti e la memoria sono uno degli aspetti più interessanti di dOCUMENTA 13 e delle scelte della Christov-Bakargiev. L’opera “Oggetto indistruttibile” di Man Ray, cioè l’occhio dell’ex amante Lee Miller montato su un metronomo, è uno dei simboli dell’esposizione. Il legame tra la vita privata, quella individuale, e l’astrazione impersonale del tempo è un esempio di come l’arte sia qualcosa che può nascere dalla polvere di via Fondazza a Bologna (Morandi) e diventi qualcosa di universale per dei motivi che possiamo solo intuire e mai giustificare assertivamente.  Avere davanti opere che parlano di storie diverse e dimenticate accanto a quelle note e acclarate, offre la sensazione che nel tempo e nello spazio ci sia posto per un’altra storia dell’arte e che tutte le nostre classificazioni sono provvisorie e appartengono alla Fiera delle Vanità del mondo contemporaneo. Nella Rotonda del Fridericianum ci si può rimanere anche qualche mese, se avete tempo.

Nell’Ottoneum, che è un museo di Storia Naturale, artisti come Mark Dion, Maria Theresa Alvez, Jimmie Durham o Claire Pentecost allargano il discorso   all’importanza culturale non solo di vivere la natura, ma anche di conoscerla, di classificarla per viverla meglio e più intensamente. La Natura è l’eterno rimosso dell’uomo contemporaneo: oggetti e semi, il parallelo non regge nella normalità, ma la curatrice ci dice e ci mostra i nostri legami non solo con gli altri uomini ma anche con il mondo naturale.

Alla Documenta-Halle l’opera di Thomas Bayrle da sola vale il biglietto e se non l’avete pagato vi divertite ancora di più.  Uno dei fondatori del Pop in Germania con Sigmar Polke e Gerhard Richter ha esposto opere magnifiche e all over per ricordare non solo la proliferazione degli oggetti ma anche la loro vitalità. I motori aperti e rivelati rispetto alla loro collocazione segreta nei cofani delle auto e dei camion, le centinaia di migliaia di chilometri di autostrade rappresentati da migliaia di stampi di cartone il cui colore grigio racconta il cemento delle autostrade, o gli aerei formati da centinaia di aerei più piccoli, stanno a indicare quanto gli oggetti siano intessuti con la nostra realtà, quanto dipendiamo da loro, quanto non ne possiamo fare a meno dal punto di visto sensoriale e psicologico. Non solo pratico. Straordinari i lavori di Bayrle e intensi, che fanno sembrare la spettacolare video-installazione di Nalini Malani  qualcosa di artificioso e curioso, poco autentico. Ma l’accumulazione mista alla rabbia c’è nell’appunto Anger workshop realizzato da Stuart Ringholt nella Neue Galerie. Nella lunga galleria di cose e personaggi, di foto, di souvenir provenienti da epoche abbastanza recenti, si sedimentano le incazzature di quanti hanno partecipato a questo seminario terapeutico. L’arte fa bene, è una terapia. Attraverso l’arte relazionale ci si può sfogare delle proprie (e altrui) frustrazioni. Se invece ci si vuole distrarre in modo serio e culturale, conviene visitare la grande sala realizzata da Susan Hiller in cui alle pareti ci sono testi di cento canzoni popolari che possono essere ascoltate in cuffia. L’artista le chiama “box di madeleine” avendo letto Proust o quasi, ma quello che conta è che è veramente piacevole farsi cullare da questo universo sonoro e poetico, che sentiamo riesca veramente ad appartenerci. La musica è universale, la sentiamo fisicamente non solo con le orecchie, diventa qualcosa del nostro dna e ci accompagna ovunque. La Hiller ci dice dolcemente che la memoria è musica, un po’ alla Oscar Wilde, ma anche  che la nostra storia materiale è fatta di note e armonie, di un fluido sonoro che avvolge l’universo o almeno il mondo che frequentiamo.

Rossella Biscotti marca probabilmente la migliore presenza tra i giovani italiani troppo spesso afflitti, vedi la Favaretto alla Hauptbanhof, da questa matrice decostruttiva che dovrebbe marcare la differenza con il Moderno, ma rischia sempre di arenarsi nell’ovvio o nel polisemico, vecchio difetto della filosofia. Anche la Christov-Bakargiev la usa e ci piacerebbe prima o poi capire in quale accezione e contro quale metafisica.

La Biscotti ricorda il processo sull’Autonomia e Potere Operaio del 7 aprile 1979, caratterizzato dalla diatriba tra Toni Negri e il presidente della Corte. L’artista con un lavoro eccezionale di ricostruzione storica ha realizzato un editing audio del processo e ha realizzato in cemento dei calchi della celebre aula bunker del Foro Italico a Roma. L’effetto è notevole e il rispecchiamento tra il luogo e le parole in cui sono state dette, ricostruisce un processo fondamentalmente ideologico che ha caratterizzato la nostra storia. Biscotti, nata proprio in quegli anni, cerca anche di capire l’attualità dei dibattiti tra pensiero e ideologia e quanto sia essenziale riscattare questa memoria per capire l’Italia di oggi.

Molti quindi gli italiani presenti, finalmente. Dovevamo aspettare una direttrice artistica quasi italiana per vedere qualche nome e opera nota anche a Kassel. C’è Boetti, Fabio Mauri, Gianfranco Baruchello, Pierpaolo Calzolari, Nanni Balestrini  oltre a quelli  già ricordati e naturalmente la loro presenza testimonia anche della centralità della nostra arte che a livello internazionale non va oltre i soliti noti tra Poverismo e Transavanguardia, aggiornata al genio di Cattelan.

dOCUMENTA quindi diventa un’occasione per spaziare nell’arte contemporanea con scelte importanti, anche se certi inserimenti di artisti provenienti dai mondi paralleli sembrano forzate e anche il legame con la decorazione certe volte rischia di diventare un messaggio di confusione e di debolezza. La cura dei cataloghi, ben tre, oltre a 100 fascicoli con note e idee degli artisti che vi hanno partecipato, offre l’idea di una manifestazione che vuole continuare a fare discutere anche quando, il 16 settembre, terminerà.

L’immenso parco del Karlsaue da solo meriterebbe una visita guidata, e ci vuole mezza giornata per vedere e rivedere. In questo parco sulla Fulda ci sono i sedimenti storici di dOCUMENTA, manifestazione nata nel 1955, che nei decenni ha lasciato valore alla città peraltro brutta e anonima come poche. Anche questa è una scelta decisiva. In ogni dOCUMENTA vi sono opere che restano alla città e s’innervano nella sua storia e nella sua immagine. A Venezia questo non accade. Non solo, probabilmente, per questione di denaro. A Kassel, questa edizione costa quasi 25 milioni di euro di cui il 57% autofinanziati (sic)  cioè soldi raccolti da sponsors, vendite, contributi di fondazioni, mecenati, pazzi e prodighi, distribuiti in 4 anni dal 2009 al 2013. L’ultima edizione la videro 650 mila persone più del doppio di Venezia. Anche i numeri appartengono alla Storia o solo le idee?

Francis Alÿs, Reel-Unreel, 2011, video documentation of an action In collaboration with Julien Devaux and Ajmal Maiwandi. Photo: Francis Alÿs

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