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Il neoclassicismo per Hugh Honour

 

Le prime tre pagine del quarto capitolo del libro di Hugh Honour “Neoclassicismo” (Einaudi 1980 e 2010) sulla profonda e controversa relazione tra Natura e Ideale.

Scrive l’autore nella Premessa: “Il termine Neoclassico ha perso le sue connotazioni spregiative e ora è spesso utilizzato in senso positivo, ma indiscriminato, per indicare qualsiasi ritorno delle forme classiche in epoca post-rinascimentale.

Ma per ciò che riguarda l’arte del tardo Settecento, a mio parere, per comprendere appieno i problemi che essa comporta, è ancora utile distinguere tra l’imitazione dell’antichità, accademica o dettata soltanto da una moda, e lo studio serio dell’antico, compiuto alla ricerca di quella che allora veniva definita la <buona strada> per raggiungere il vero stile – una concezione artistica intimamente connessa agli ideali dei filosofi dell’Illuminismo.”

 

La natura e l’ideale.

I bozzetti in terracotta di Canova presentano a prima vista un vivo contrasto con i suoi marmi squisitamente lavorati. Essi hanno una audacia, un’immediatezza, una spontaneità, una vitalità quasi palpitante, per cui sembrano anticipare Rodin.

Agli occhi dei moderni sono più suggestivi delle opere finite, così fredde, così teneramente e incontentabilmente calcolate, così ferme: i più ostili potrebbero dire così insipide, affettate e inerti. E in effetti sono state citate come prova di una frattura schizofrenica nella personalità di Canova. Tuttavia il suo non è stato un caso isolato. Sergel, Flaxman, Chinard, Dannecker e altri hanno eseguito modelli in creta altrettanto liberi e opere finite in marmo altrettanto sistematicamente misurate che Canova. Due amanti che si vedono in uno schizzo di Sergel, autore di marmi quanto mai rifiniti, appaiono non solo disegnati in modo molto libero, ma si abbracciano con un abbandono estaticamente appassionato che parrebbe sfidare ogni regola classica. Si direbbe che egli abbia preso sul serio il suggerimento di Winckelmann di <disegnare con fuoco ed eseguire con flemma>.

In un altro passo Winckelmann osservava: <come la prima pigiatura dei grappoli dà il vino più squisito, così la materia morbida di chi modella e lo schizzo su carta di chi disegna ci rivelano il vero spirito dell’artista; a tal punto che nel quadro o nella statua finita il talento dell’artista è fino a un certo punto nascosto dalla rifinitura che egli ha cercato di imprimere alla sua opera>.

Pochi anni dopo Diderot riprendeva la stessa idea sviluppandola maggiormente. Tolte dal loro contesto, queste osservazioni potrebbero citarsi come prova di una preferenza precocemente romantica per l’abbozzo rispetto all’opera finita. E di fatti bozzetti di Canova e disegni di Sergel sono stati inclusi in una mostra dell’arte romantica, come esempi, si può presumere, di uno spirito romantico che si dibatteva per uscire dalla camicia di forza del neoclassicismo. Ma si tratta di un’idea quanto mai fuorviante. Infatti una fiducia nell’Ideale sta alla base dell’atteggiamento neoclassico verso l’abbozzo non meno che verso l’opera d’arte finita.

Un bozzetto di Canova rappresenta il suo primo tentativo di realizzare una forma ideale. Quello per il Cupido e Psiche ce lo mostra mentre si sforza di risolvere il problema fondamentale della composizione, cioè il rapporto tra due figure semisdraiate che si abbracciano. E una prima formulazione a priori da cui dipenderà la logica della soluzione finale. Di fatto essa è così astratta e generica che potrebbe benissimo essere un bozzetto per il suo gruppo di Venere che incontra Adone, al quale lavorava press’a poco nello stesso momento. Tuttavia i problemi che Canova si poneva in questi bozzetti non si limitavano agli aspetti astratti e formali, cioè raggiungere un perfetto equilibrio e una piena unità senza nulla perdere in verosimiglianza e varietà. Infatti nel Cupido e Psiche, come in tutte le grandi opere d’arte, si uniscono perfettamente forma e idea e in più l’opera è stata concepita su più livelli di significato: come una composizione tridimensionale di forme intrecciate e di armonici contrappunti, che si snodano attraverso una serie di passaggi fluidi e apparentemente senza tensione; come una rappresentazione idillica di amore giovanile (di fragile adolescenza e di membra tenere come palpebre) con tutta la sua rorida innocenza e purezza; e, a un livello più profondo, più simbolico, come un’immagine di <amore-morte>, cioè di quel momento di perfetta reciprocità nel trasporto della passione fisica in cui si vive uno stato di unione quasi mistica, <al silenzioso punto in cui il mondo sembra girare>.

Il metodo di Canova era di realizzare un certo numero di questi bozzetti e successivamente procedere attraverso ulteriori schizzi esplorativi ed esperimenti, ognuno dei quali definito e articolato in modo più elaborato del precedente, fino a un modello finale delle dimensioni dell’opera vera e propria.

Questo metodo corrisponde assai da vicino a quello propugnato da Goethe nel 1789. L’artista dovrebbe cominciare con lo studiare le differenze tra i singoli individui, scriveva Goethe, poi con uno scatto di immaginazione sussumere ogni individuo in un unico atto di visione o sintesi intuitiva e così, salendo di astrazione in astrazione, rappresentare alla fine il tipo o l’universale visto nella sua armonia e purezza indivisibili sub specie aeternitatis. L’artista nella ricerca di queste forme ideali cercava di sondare verità eternamente valide al di sotto delle diversità superficiali e degli accidenti della natura: e né i suoi abbozzi né le sue opere finite si possono valutare nei loro propri termini senza una certa comprensione dell’atteggiamento Neoclassico verso la Natura e l’Ideale.

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