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Piero della Francesca e Valerio Zurlini

Un ciuffo setoso, una vecchia Citroen Traction Avant: Daniele Dominici (Alain Delon) nuovo supplente del liceo classico, arriva in una Rimini uggiosa, invernale. Aria da poeta maledetto, o solo da docente annoiato; barba leggermente incolta, aspetto trasandato, sigaretta tra i denti ed un frusto cappotto color cammello. Ma è il regista, Valerio Zurlini, ad “insegnare” qualcosa. Il film è La prima notte di quiete (1972), un titolo mutuato dal poeta tedesco Goethe: l’allusione è ad un verso dell’autore che si riferisce alla morte come prima notte in cui “si dorme senza sogni”. In una scena, si assiste ad una brano indiretto di critica d’arte: un’ecfrasi di Dominici\Delon su di un’opera di Piero della Francesca, la Madonna del Parto. Si tratta di un’immersione nell’opera di Piero che, dietro le apparenze di un copione cinematografico, o, a livello di fiction, di una descrizione rilassatamente amatoriale di un gitante, rivela una profondità di analisi in grado di cogliere le mezze tinte liriche dell’opera del pittore di Borgo San Sepolcro.

All’uscita da scuola, Daniele si trattiene con una giovane allieva, fumando una sigaretta. Vanina – questo il nome – aveva colpito il professore dacché era stata l’unica a scegliere il tema Purezza e peccato nel mondo di Alessandro Manzoni nella provocatoria “rosa a due” di tracce indicata da Dominici durante la sua prima lezione: l’altra traccia, assai più abbordabile, era stata Parlate di voi stessi. Il professore sta per andare a visitare una delle opere più importanti del Rinascimento, dice. La ragazza vorrebbe per caso venire? L’invito è evidentemente accettato, ma il viaggio insieme non viene mostrato: ellissi funzionale all’immersione totale, improvvisa, inattesa nell’affresco di Piero, su cui la macchina stacca tramite un close up sulla viso della Madonna, mentre Delon fuori campo comincia a parlarne:

Eccola, nel 1460 la comunità contadina di Monterchi, ordinò a Piero questa Madonna. Gli autori della commissione non erano Papi, né principi, né banchieri, e può darsi che all’inizio Piero abbia preso il lavoro un po’ sottogamba. Malgrado questo, ecco il miracolo di questa dolce contadina adolescente, altera come la figlia d’un re. Il silenzio della campagna intorno a lei è così compiuto; finora probabilmente si è divertita a confidarsi con le sue bestie, le chiama per nome e… e ride.
Poi a un tratto è tutto finito poiché attraverso i secoli, il destino ha scelto proprio la sua purezza. Lei ne sembra compresa ma non felice, forse già sente oscuramente che la vita misteriosa che giorno per giorno cresce in lei, finirà su una croce romana come quella d’un malfattore.
E secoli dopo un grande poeta, [Dante Alighieri] le si rivolgerà con queste sublimi parole: «Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio, tu sei colei che l’umana natura nobilitasti, sì che il suo fattore, non disdegnò di farsi sua fattura». Probabilmente non avrebbe neanche capito.


Assunta nella fecondità del proprio valore critico, a dispetto della funzionalità interna al film, l’ecfrasi dell’opera di Piero della Francesca mostra un’aderenza all’opera dell’artista di apprezzabile profondità. Né le notazioni, pure utili, alla committenza (“non erano Papi, né principi, né banchieri…”), né il geniale corto circuito all’opera di Dante sono decisivi per rinvenire il nocciolo poetico dell’affresco. I riferimenti al “silenzio”, alla “purezza”, ma soprattutto un’espressione “è tutto finito, attraverso i secoli”, sembrano ricreare, attraverso la breccia verbale, quell’aria assorta, atemporale che spira, per via di una rigorosa calibratura formale prospettico-cromatica, dal dipinto di Piero, e che, permanendo attraverso i decenni più o meno uguale a se stessa, resta la cifra inimitabile del suo carme pittorico. E la sua cifratura: visto che anche l’allusione alla “vita misteriosa che giorno per giorno cresce in lei”, mentre si afferma come indicazione pertinente all’iconografia dell’opera ed alla sua inespugnabilità emotiva, rimarca un carattere proprio della pittura di Piero della Francesca, che trasmuta dall’estrema leggibilità all’ineffabile liricità di un Empireo non solo formale.

“Termine fisso d’eterno consiglio”: davvero, allora, richiamarsi all’Alighieri acquista una sensatezza illuminante. Tanto più tenendo conto del suggello, lapidario e malinconicamente conversativo, con cui Dominici\Delon chiude la propria incantata ma lucida disamina: la contadina, una Madonna sorprendentemente pasoliniana, non può afferrare in pieno un disegno che la sovrasta. In questo contrasto tra un’esistenza contingente, limitatamente umana, ed un “termine fisso d’eterno consiglio”, sembra persino di poter recuperare il preludio alla svolta “fiamminga” di Piero alla corte urbinate, allorché l’astrazione delle forme cubizzanti assumerà la pelle di mobili rifrazioni della pittura di Fiandra: l’empirico che diventa Empireo.

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2 Commenti

  • Non ho mai capito perché la sceneggiatura faccia dire a Daniele, professore di italiano, uno strafalcione imperdonabile: Piero della Francesca è della metà del Quattrocento e Dante, che visse a cavallo tra Duecento e Trecento, scrisse quei versi circa 150 anni PRIMA, non certo “secoli dopo”.

  • Bello! Più interventi così!

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