Morandi speaks loudly from London
Nell’arco di tre giorni a Londra a inizio Febbraio saranno esitati ben cinque capolavori del nostro più amato incisore del XX secolo (oso dire senza tema di sbagliare o urtare gli animi più suscettibili).
Ormai solo nelle aste londinesi e statunitensi (oltre a qualche sana puntata in Germania che cade spesso sotto silenzio) abbiamo l’occasione di ammirare buone prove del grande bolognese. Chissà perché… Tralascio l’ultrapropinata polemica intorno all’annuncio della morte della nostra arte del ‘900 e contemporanea non per volontà di filosofie distruttive o di avanguardie populistiche, né per cinismo degli attori, né per proclami di cotanto annunciate verità, quanto per il metodico, silenzioso, inesorabile rodìo procurato dalle nostre orbe leggi. Tralascio. E preferisco parlar d’arte ancora viva.
A Londra, Morandi ci ammanta di gloria riflessa e mostra, in contesti che regge perfettamente, anzi, in cui s’illumina la sua bravura e la sua varietà di pennello: bottiglie, bottigliette, scatole, vasi costruiti artificialmente con forme inconsuete (l’amatissimo vaso a imbuto, la polverosa fiaschetta schiacciata), contenitori diversi, null’altro. Il consueto campo di battaglia che per decenni ha rinnovato come nessuno al mondo e su cui, pur con alterne vicende e qualche caduta, scrisse fra le pagine più alte dell’arte del XX secolo.
Per il settore Impressionist/Modern, Christie’s il 6 Febbraio 2013 nell’asta serale con ben tre lotti e Sotheby’s il 5 Febbraio 2013 di sera e il giorno successivo nel pomeriggio con due complessivamente, fra cui un disegno, presentano cinque Nature Morte di rara bellezza.
Ancora manca all’Estero (e per la verità anche in Patria non si va meglio) il culto per i meravigliosi, dolenti, allucinati Paesaggi, per i quali una civiltà che permette la distruzione del proprio più “lucroso” – in termini intellettuali! – capitale di cultura e arte forse non riuscirà mai a trovare davvero risarcimento. Devo ricordare alcune mostre italiane ultimamente allestite nel tentativo di portare al grande pubblico, che accorre sempre generosamente e che meriterebbe spesso migliore introduzione e più accurata didattica, l’arte morandiana del paesaggio, ma ancora per noi Morandi è “bottiglie, bottiglie, bottiglie”. Se anche l’Avvocato torinese più famoso del nostro recente passato apprezzava solo le tele con quei recipienti (“Quante sono?” chiedeva, e se non erano di numero consistente – un tanto al chilo, per dir così – non se ne faceva nulla), come pretendiamo, ora che di Morandi “ufficiali” se ne vedono così pochi e i collezionisti interrompono i prestiti per terrore della Notifica al varco delle frontiere o magari in pubblica sala nostrana, che in Italia e tanto più fuori si comprenda la straordinaria libertà (la maggiore libertà) del tratto morandiano quando incontra la “natura viva”?
Vedo che già mi concedo alla polemica eppure promisi di non farmici catturare.
Quali compagni di cordata in queste strepitose giornate dell’arte, Morandi avrà da Christie’s calibri come Rodin, Bonnard, alcuni Matisse (fra cui una bella gouache de La Danse), Schiele, Giacometti, Renoir, Signac, Léger, una civettuola e sinuosissima Jeanne Hébuterne (au chapeu) di Modigliani al meglio (stimata non a caso dai 16 ai 22 milioni di sterline), Picasso a scialare, diversi Kandinsky fra cui un paesaggio del 1909 da mancamento, Maillol, un immenso Magnelli figurativo dipinto ancora a Firenze nel 1909 davvero fuori dal comune e tutto da valutare anche per la stima più che invogliante (400./600.000 sterline), Chagall e altri. Da Sotheby’s, il 5 sera, Morandi si accompagnerà, fra altri, a Klee, Von Jawlensky, Schiele (uno meraviglioso, proveniente dal Leopold Museum di Vienna, rappresentante l’artista e l’amante Wally, avvinghiati in un mortifero abbraccio), Moore, lo straordinario Picasso stimato 25/35 milioni di sterline (Femme assise près d’une fenêtre, il sontuoso ritratto di Marie-Thérèse Walter del 1932) di cui Artslife si è già occupata e sicuramente dovrà occuparsi ancora, Degas, Sisley, alcuni Monet (uno bellissimo: Le Givre à Givérny), Pissarro, Gauguin, e ancora Léger, Miró, Kirchner; mentre nel più corposo pomeriggio del 6 Febbraio, l’incanto annovererà lotti più “accessibili” con scelte succulente fra disegni, grafiche, gouaches, tecniche miste e piccole sculture di Ray, i due fratelli Giacometti, Picasso, Moore, Léger, Arp, Laurens, Herbin, Manet, Gauguin, Bonnard, Dufy, Renoir, Le Corbusier, Marino, alcuni deliziosi anche se non trascendentali Corot, Klee, Feininger, Chagall, Brauner, una sventagliata di Miró, un bel Rouault che segnalo al lotto 199, Buffet, Oguiss, Grosz, Valtat, Fantin-Latour, Redon, una bella serie di disegni di Modigliani fra cui un ritratto di Brancusi particolarmente efficace perché scuro e “ingrugnito”, una testina di bimbo singolarmente dolce dello stesso Brancusi quasi medardiano, la solita manciatina di Impressionisti misti e post-Impressionisti diversi, un bell’ Aqueduc di Herbin, alcune discutibili sculture/multipli di Dalì, una brutta piazza d’Italia di De Chirico, un mediocre Delvaux che fa il paio con un altrettanto mediocre Picabia, un buon Nicholson, e via così, perlopiù “Impressionando”… segnalo, più per onore di Patria che per altro, due modeste prove di scultura di De Chirico e Manzù. Nel complesso comunque un’asta di buon livello.
A Londra il “fatturato” per asta è come sempre da piccolo Stato del Terzo Mondo, ma il mercato è in attesa di vedere ancora se il “classico” tiene davvero e se i Grandi non smentiscono oltre il consentito.
A me, in questa sede, più che i risultati economici – pur importanti – interessano i risultati del pennello che nel Morandi Christie’s, lotto n. 6, asta 1102 (di provenienza della qualificatissima galleria milanese Barbaroux) si esprime al massimo della propria abilità compositiva e poetica in quell’anno cruciale, il 1948, che vede il tratto affinarsi anche in vista di un’apertura ormai prossima al mercato anglosassone, cui l’Artista si dedicherà sommamente d’ora in poi e in particolare dopo la sua partecipazione nel 1949 alla mostra XXth Century Italian Art al MoMA di New York e le commesse del 1953 da parte del gallerista Curt Valentin della Buchholz Gallery della stessa città.
Come scrive Laura Mattioli ne Morandi Ultimo – Nature Morte 1050/1964 (catalogo Mostra alla Galleria dello Scudo, Verona, 14.12.1997-28.02.1998, Ed. Mazzotta, Milano 1997, pag. 15) “...Dal 1941 la presenza del tavolo si fa più allusiva che concreta […], e allo spazio tridimensionale Morandi incomincia a sostituire uno spazio mentale…”.
Benché qui si sia ancora di fronte a un piano d’appoggio dalle dimensioni intuibili e dalle forme consuete (è rotondo, il piano è leggermente sovrabbondante la fascia, s’intravvede un inizio di stacco di piede…), quell’arco di colore giallino che fa da cornice inferiore alla composizione sbilancia verso il basso, liberando la metà superiore della tela, il compatto gruppo di oggetti senz’ombra e ritrova la dimensione lirica in una presunzione d’astrazione che si completerà negli anni a venire. Molti affermeranno che queste costruzioni silenti rimandano a un’adesione formale a Piero della Francesca anche per via della scelta dei colori, declinati in una palette piuttosto ristretta e dai toni che oggi chiameremmo volgarmente “pastello”.
La tela, difatti, si attiene ai toni bassi e poco definiti (grigi, avori, terre, pallidi gialli, azzurri e rosa) che ben si confanno alla concreta compattezza del nucleo riquadrato di oggetti. Un’ulteriore, efficace, discrasia rispetto alla logica compositiva.
Ma è la pennellata, come sempre càpita con Morandi, a rendere giusta espressione del periodo poetico. I colori (come quasi tutto il materiale in Morandi, compresa la costruzione delle tele) sono preparati personalmente dall’Artista che non tollera l’uso di materia di commercio. La loro pastosità è quindi calibrata sulle aspettative del Maestro e non è casuale. Un gesto meditato e breve, con poca materia ben stesa, caratterizza le opere di questo biennio cruciale, che porterà all’Artista non poche polemiche. La rarefazione di queste composizioni, ancora più impalbabili e solipsistiche di quelle già complesse degli anni precedenti, lo faranno tacciare d’improvvida quanto decadente autoemarginazione dal contesto politico avverso alla dittatura. I critici militanti del Partito Comunista vedevano in Morandi un emblema del disimpegno in arte, dell’autocompiacimento formale e stilistico, della cecità accademica di fronte alla tragedia della guerra.
Ciò non può essere, se si considerano soprattutto gli allucinati e angosciati Paesaggi di Grizzana del periodo bellico dall’estate del ’43 a quella del ’44, durante il quale Morandi si ritirerà in Appennino per causa dell’avanzare del fronte e per le battaglie che ormai coinvolgono anche Bologna. Ma non si può chiedere oltre al grande Maestro, così come non si può pretendere che i suoi contemporanei (tranne pochissimi come Brandi, Longhi, Arcangeli e rari altri) comprendano il travaglio civile e poetico che emerge solo per chi conosce davvero l’opera morandiana per esteso.
Dalla Grizzana del periodo bellico in poi, il pennello è tutto. Sino a quando gli oggetti diverranno solo volumi e si faranno addirittura fantasmi, ipotesi di Natura.
In quest’opera Morandi utilizza ancora la forma come “amica”, la accompagna e permette ancora di comprendere il senso figurativo del soggetto, ma con il pennello dà un’indicazione opposta di consunzione, di approdo stremato, di fine della parola.
Non credo che Morandi giungerà più in alto rispetto a queste vette; anche se, per me, il suo periodo d’oro rimane quello, quasi informale, fra il 1935 e il 1937. Ma questa tela del 1948, insieme ad altre, dovette impressionare grandemente i curatori Soby (il quale paragonerà l’inesausto ritmo morandiano di questo periodo con la ricerca di Mondrian) e Barr che scelsero di esporre alcune opere del Nostro per la grande mostra newyorkese sull’arte italiana dell’anno successivo.
Immediatamente dopo questo è il lotto 7, sempre del 1948, che proviene da una prima opzione di quello straordinario Mario Tazzoli in Torino, banchiere con la brama dell’arte e proprietario della Galleria Galatea, dal gusto difficilissimo e profetico (fu lui a lanciare Bacon negli anni ’60 in Italia, da lui arrivavano Jan Krugier e Ernst Beyeler, con lui collaboravano Luigi Carluccio e il “futuro” Gian Enzo Sperone).
Questa singolarissima ed esangue Natura Morta del 1948 (inserita dal Vitali fra gli Addenda del II volume dell’opera monografica su Morandi) è molto simile al n. 641, che è di poco precedente nel tempo a quella appena sopra presentata.
Qui la sperimentazione è estrema. Il colore minutissimo, un velo, le tonalità tutte comprese fra i grigi, gli ocra e i bianchi. Il protagonismo di quel grigio scuro che conduce verso il livello inferiore della tela e bilancia la massa centrale dai toni profondi, aiutato ancora una volta dalla consueta fascia arcuata di colore giallino del tavolo.
Ma qui sono “solo” bottiglie e il colore si innesta a perfezione sulla forma. Il disegno è stretto in due poderosi contrafforti laterali: la fiaschetta beige chiaro e la bottiglia con il collo rigonfio di colore bianco. Al centro una bottiglia dalla pancia circolare e dal collo sottile e lunghissimo a controbilanciare le proporzioni delle due laterali. Sullo sfondo, alcuni contenitori (fra cui un noto barattolo a cilindro dal corpo alto e con il coperchio appena aperto) si sfaldano per mettersi al servizio delle forme compiute davanti a loro.
Un vero capolavoro di sottrazione, assolutamente da vedere in prima persona per poter gustare il dosaggio perfetto dei colori, che a malapena riescono a individuare i corpi, in un’ “annunciazione di Rothko” o un “accompagnamento a De Staël” che sembra urlare a chi non vuol ancora sentire quanto Morandi assumesse della piena contemporaneità del suo tempo. Certo non figurativa, certamente non di impegno sociale, ma piuttosto di ricerca assoluta verso un’identità formale su più registri.
Morandi sottolinea attraverso il gesto pittorico in questa tela l’impossibilità di riprodurre la Natura, di “possederla”. Ma ciò senza attentare alla forma, come fece il Cubismo o, prima ancora, Cézanne, piuttosto conducendo il dato oggettivo verso la perdita delle sue caratteristiche ontologiche e sensibili. Come se fosse impossibile per la Realtà palesarsi compiutamente e a noi non rimanesse che il “desiderio” di poterla davvero comprendere.
Procedo cronologicamente in questa piccola presentazione dei Morandi delle due aste londinesi di febbraio e quindi passo all’asta Sotheby’s n. L13002, lotto n. 35.
Questa Natura Morta del 1953 di medie dimensioni, proveniente dalla sapiente e privilegiata scelta di Ghiringhelli al Milione di Milano, afferma la qualità esclusivamente funzionale dei volumi, che qui appaiono, tranne le due bottiglie pressoché identiche in primo piano, creazioni del tutto artificiali, a parte forse ancora – all’estrema destra – la presenza dell’alta scatola cilindrica di latta con il coperchio, qui chiuso.
La composizione è serrata in una forma trapezoidale, anzi, pressoché rettangolare, il cui lato di base è il più breve: con tale escamotage ancora una volta chi osserva fa confluire l’attenzione verso la parte inferiore della tela. I colori sono quasi “scivolati” sul piano, le forme sempre meno consistenti, le linee rette inesistenti, benché la compattezza dei volumi riporti a un poligono quasi perfetto.
Il colore, ancora una volta, è la bandiera. E qui, sembra evidente, il tono sceltissimo costruisce una sorta di narrazione artistica, conducendo chi guarda da sinistra verso destra solo con l’uso delle campiture aranciate intervallate dai bruni e dai blocchi simmetrici dei bianchi delle bottiglie frontali.
E’ di questo periodo la nuova costruzione “americana” della tela da parte di Morandi, che si lascia andare alla ricerca dei volumi compatti, qui tuttavia con poca materia (mentre in seguito ci sarà ancora un’ultima stagione ricca di spessori e laccature). La forma rettangolare è tipica di questa nuova stagione, nata sulle richieste di tele di questo taglio da parte del gallerista Curt Valentin che avrebbe proposto Morandi en pendant in parete intervallato a Braque e Mirò, Braque con le classiche tele “verticali”.
L’opera offerta da Sotheby’s è poi una eccellente esponente dell’importante serie del 1953 con le due bottiglie bianche in primo piano e le scatole retrostanti, serie che sviluppa proprio l’analisi dei volumi più regolari e compatti e che va dal n. 848 al n. 858 del catalogo vitaliano dell’opera di Morandi. Si può dire che questa, venduta da Sotheby’s, è una delle opere centrali nella produzione del bolognese che mostra la raffinatezza della costruzione formale, esperita in ogni singolo aspetto della tecnica e della poetica. Persino abbandonata a una raffinatezza cui Morandi raramente indulge e, quando lo fa, lo fa consapevolmente.
Ritorno da Christie’s, con il lotto 31 che assume tutte le caratteristiche sinora esposte in un compendio che sembra un manifesto dell’arte morandiana oltreoceano. Tant’è che fu acquistata negli Stati Uniti da un tal Professor Dr. G.L. Florsheim di cui non so alcunché ma che sicuramente ben recepì il tocco del Nostro così come venne presentato a un pubblico del tutto digiuno del periodo metafisico o, tantomeno, di quello precedente la seconda guerra mondiale. Questa intensa e lieve Natura Morta è del 1956 e precede il totale disfacimento delle figure che si compirà poi con la serie della teiera in smalto a piccoli decori blu negli anni successivi, gli ultimi della poco prolifica carriera di Morandi.
La tela s’intravvede sotto il colore, sempre più inconsistente. L’adesione al bidimensionalismo (e a quel “sapore di Mondrian” che Soby aveva colto) è totale. Una pura piattità, che tanto farà colpo anche nell’espressionismo astratto in fortissima ascesa negli U.S.A. in questo periodo. Una pura concessione alla dinamica del colore, annullato in una quasi totale monocromia, fatto salvo per quelle informi macchie di rosa aranciato in basso a sinistra nella tela.
La composizione è solo nell’area inferiore, il piano d’orizzonte fa parte del piano dei volumi degli oggetti accatastati senza ormai alcun rapporto con la prospettiva. La luce parte dall’interno della tela e non trova quasi espressione reale, fatto salvo per una ipotesi d’ombra appena accennata racchiusa, però, entro la composizione. Il bagliore continuo, sordo e immaterico del fondo e degli oggetti bianchi ha un sussulto, a cui si riprende subito, nell’interruzione del modesto aranciato. Un ritorno all’arcaico per esprimere la novità e la modernità della ricerca di tutto il Novecento, almeno sino a quel punto già consumato.
Quest’opera è di rara bellezza, se per Morandi ha una ragione affermare “bello” allorquando è il pensiero che si inchina al bello e non i sensi. Non è un caso se chi si accosta a opere come queste deve muoversi con accortezza in una sorta di visione interiore dell’arte.
Questa splendida cinquina si chiude degnamente con un disegno, che sembra, nel mercato odierno, a torto aver perso l’appeal dei tempi andati, in cui i collezionisti si contendevano quasi più le carte morandiane delle tele. E’ per questo che sarebbe saggio approfittarne.
Nuovamente da Sotheby’s, il giorno 6, lotto 214, Morandi esprime attraverso la sintesi di un disegno del 1956 la summa di questo periodo singolare della sua carriera artistica, apertasi con alterne vicende da quasi una diecina di anni.
L’Artista felsineo ha abbandonato l’Italia, non accetta più di collaborare a mostre in Patria che lo vedano protagonista, permette a stento l’esposizione di sue opere, si allontana violentemente dall’amico Arcangeli, che per questo quasi ne morirà, contestandone con grande durezza la visione storicistica nei confronti e l’accostamento della sua opera al percorso di Pollock e Fautrier. La ricerca è, se possibile, ancora più solitaria.
Questo misurato disegno, poche linee verticali a tratti spezzati, un grande campo scuro retrostante le tre bottiglie, riprende il tema dei pieni-vuoti affrontato in particolare nella serie che fa capo all’opera Sotheby’s lotto 35 (Vit. 856) e ripercorre ciò che costituirà un must dell’ultimissima produzione morandiana, quella degli anni immediatamente precedenti la morte.
La campitura scura in secondo piano è questione, difatti, che divora la sensibilità di Morandi, ormai giunto all’arte del “risparmio” o del negativo-positivo. Anticipatore di tutte le correnti italiche dei Castellani e Bonalumi, nonché dei Mondino e, financo, delle Dadamaino, per non parlar poi di certi Boetti. Morandi eroe e guida del Minimalismo?
A chi vede solo l’immobilità del pensiero e la rarefazione del gesto in questo straordinario Artista, bisognerebbe opporre tutta la sua produzione grafica che illumina sempre quella pittorica come nessuno scritto critico potrebbe fare.
Non sarà un caso se questo disegno proviene dalla collezione di un estimatore della prima ora, il geniale regista bolognese Valerio Zurlini, che nell’asciutta rete di fitte linee orizzontali, che si intersecano con gli aridi verticalismi, intravvede uno schematismo sconvolgente e maturo, l’estremo e fugace approdo della fatica immane di far combaciare la semplicità con la complessità, la tradizione con la modernità, la sintesi con l’analisi. E, per dirla proprio con Zurlini in un racconto/encomio di magnifica ricercatezza linguistica e tepore di affetti, una “apparente serenità [che] ha sempre nascosto una inquietante e insoddisfatta ricerca” (Valerio Zurlini, Il Tempo di Morandi, Ed. Prandi, 1975, pag. 15).
Un approdo che in pochi in Italia, durante il Secolo Breve, hanno saputo o potuto anche solo intravvedere di lontano.