Dopo aver sbaragliato il pubblico veneziano – che ha risposto alla proiezione del film di Francesco Munzi con 13 minuti di applausi – e la critica che ha assegnato al film importanti premi (Pasinetti, Schermi di Qualità) Anime Nere si appropria delle sale italiane costringendo spettatori di ogni regione a gettare uno sguardo su una realtà calabrese quasi sconosciuta.
La cronaca e l’opinione pubblica da pochi mesi sono tornate a occuparsi di ndrangheta e dei suoi neri rituali, in seguito all’ormai celeberrimo inchino della madonna davanti alla casa del boss. Solo una cinquatina di chilometri separano Oppido Mamertina da Africo, nel profondo sud d’Italia.
Un presepe arroccato su un colle, una polis dal macabro fascino che collide con le bellezze mozzafiato che offrono il paesaggio e la natura calabresi. Case non ultimate, incomplete come le vite miserevoli di chi le abita.
Storie di pastori e uomini d’onore, che si uccidono a vicenda come le bestie che portano al pascolo quotidianamente. Nessuna prospettiva di miglioramento, nessun progetto se non quello di arricchirsi calpestando con la forza qualsiasi cosa e chiunque. Cittadini abbandonati nella loro triste solitudine, così come abbandonati sono quei luoghi mitici, un tempo fiore all’occhiello dei greci.
Incompleta è la storia dei protagonisti, il cui passato torna più cattivo che mai e che riporta protagonisti e spettatori dalla moderna vita milanese a quelle origini calabresi da cui non si può scappare. Tre fratelli malavitosi con le loro regole e il loro onore da salvaguardare. Tranne Luciano, il più grande dei tre, che ormai confida tutto nel santo patrono, con un’insolita carica religiosa. Forse l’ultimo baluardo prima di accettare definitivamente che non esiste redenzione.
Luciano, personaggio chiave della storia, padre a suo modo struggentemente amorevole, fa di tutto per tenere suo figlio fuori da quel meccanismo tritacarne che è la ndrangheta. Senza successo. Il rituale che va avanti fin dalla notte dei tempi non può interrompersi. Come in un copione ognuno sa qual è il proprio compito: le donne devono cucinare, servire a tavola e piangere i morti, gli uomini devono difendere a colpi di pistola l’onore della propria famiglia.
Ma il film di Munzi non è una messa in scena: è asciutto, privo di orpelli, essenziale. Sembra un documentario, vero, reale, tragico: una finestra spalancata di colpo sua una realtà che non avremmo voluto vedere e che ogni giorno facciamo finta di dimenticare. Non ci sono attori sullo schermo, ma persone in carne e ossa. Non c’è Stato, non c’è Giustizia, di nessun tipo.
E anche sul film è calato un insolito silenzio della politica. Il ritardo della Calabria è palese anche nella letteratura e produzione cinematografica che tratta di ndrangheta, rispetto al resto delle storie sulla criminalità organizzata. Nonostante questo la Rubbettino Editore, coraggiosa casa editrice calabrese, continua da anni la sua lotta culturale contro il silenzio omertoso, dando alle stampe libri come Anime Nere dell’africese Gioacchino Criaco, da cui Munzi ha sapientemente tratto il film.
Non mi sembra azzardato associare la figura di Luciano, padre amorevole, semplice, ma disperato, alla Calabria, terra nutrice, dai pascoli fertili e dai riti ancestrali e cadenzati; terra sull’orlo dell’implosione perché sempre più abbandonata a se stessa. Le continue vessazioni da parte dei suoi figli la offendono nella sua purezza e offendono anche la vita degna di rispetto (quello vero, quello umano!) degli altri figli e fratelli.
Questo il senso del libro e del film Anime Nere: una grido di aiuto, un incitamento ai calabresi a svegliarsi e non lasciarsi risucchiare nel vortice di faide e onori da quattro soldi. Saremo degni di onore quando film come Anime Nere non saranno più necessari, se non per documentare qualcosa che è stato. E che non sarà mai più.