Joe Cocker una volta disse che quando salì sul palco di Woodstock tutta quella folla di 500mila ragazzi sparsi nella fattoria di Bethel, gli sembravano come lui.
«Cosa provavo? Ero felice». In fondo, aveva solo avuto più fortuna di loro: era un idraulico di Sheffield che aveva imparato a cantare nei pub fumosi della sua città fra una pinta di birra e un bicchiere di whiskey.
Aveva capelli ricci e disordinati che il vento spazzolava come l’erba di un prato nella bufera, e teneva le mani con le dita aperte a segnare il tempo, il mento proteso in alto e il corpo agitato da scosse strane e rigide mentre dalla gola tirava fuori l’urlo di “With a Little Help For My Friends“.
Era il 20 agosto del 1969. Un mese prima, il 20 luglio, Neil Armstrong era sceso sulla luna: «Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità», aveva detto raccogliendo gli applausi dalla stazione di Cape Canaveral.
Il 30 novembre a Roma avrebbero celebrato la prima messa in italiano. Il 20 marzo, invece, si erano sposati John Lennon e Yoko Ono: era la fine dei Beatles.
Joe Cocker è morto nel suo ranch di Crawford, Colorado, al termine di una lunga malattia, John Robert Cocker, Joe, come lo conoscevamo noi.
Pochi giorni fa si è spenta Virna Lisi, il sorriso di quei tempi, una bellezza perfetta e ordinata che la pubblicità aveva elevato a simbolo della imperante società dei consumi. Joe Cocker era brutto e sgraziato. Ma è’ strano come il destino abbia messo quasi acccanto, all’ultima curva della vita, due facce così diverse della stessa epoca.
Virna Lisi disse che noi non potevamo immaginare come erano belli quei tempi, «la febbre di fine Anni Cinquanta e la gioia di vivere dei Sessanta».
Nell’Italia della Fiat 500 e dell’Autostrada del Sole che avvicinava un Paese che la Rai aveva appena cominciato a uniformare, nell’Italia della contestazione studentesca e dell’autunno caldo, di Carosello e di Dadaumpa, ma pure di “24mila baci” e di Joe Sentieri, lei rappresentava il suo volto borghese, così vicino e ancora così lontano dai miti anericani, come una signora che cerca di districarsi dalla oscura, vischiosa dolcezza del sonno e si muove al piano di sotto rimettendo in ordine tutte le cose e riportandole in vita.
I suoi capelli erano perfetti, un casco scintillante e luminoso che i colpi di spazzola alla sera dovevano rendere di un biondo intenso e luccicante, lo stesso colore delle dive americane.
Joe Cocker aveva filamenti scarmigliati che gli s’arruffavano in testa. A Virna, negli sketch della Chlorodont continuavano a ripetere che «con quel sorriso può dire quel che vuole», incarnando in lei la promessa di felicità, garantita dal primo articolo della Costituzione americana, che la dilagante società dei consumi sembrava voler diffondere.
Joe non sorrideva mai. Qualche anno dopo finì addirittura nell’abisso dell’alcol, che la sua voce roca e rabbiosa strascicava nei fumi di una disperazione generazionale. Eppure appartenevano tutt’e due allo stesso mondo folgorante e felice.
Solo che Joe Cocker è stato l’altra faccia degli anni Sessanta, quella che veniva dalla beat generation, dalle tribù di hippies che riempivano con le canne e l’Lsd i prati della fattoria di Bethel, nello Stato di New York, alla festa di Woodstock, un popolo quasi assente che affermava un totale estraneamento dalla società allora dominante.
Lì non c’erano i rivoluzionari dell’autunno caldo, i prodromi di una ribellione confusa che avrebbe riempito tutti gli anni a venire. Non c’è spinta eversiva in quella folla, ma la chiusura in un proprio mondo solitario. C’era solo la fuga e il distacco dai modelli che la televisione e il cinema stavano rappresentando.
Virna Lisi per tutta la vita cercò di allontanarsi dalla sua belleza perfetta per affermare il suo talento di attrice e mamma. E’ stata la donna borghese che sognavano gli italiani degli Anni 60, dalle radici ancora fortemente cattoliche e contadine.
Joe Cocker è rimasto quello che il palco di Woodstock ha tramandato fino ai giorni nostri, quando con Jimmy Page alla chitarra la sua voce intonò “With a Little Help For My Friends” e il suo urlo era come un grido di battaglia. La pubblicità prometteva «tre giorni di pace, amore e musica». Durò un giorno di più quella festa.
E qualche anno dopo, quando riuscì a venir fuori dai fumi dell’alcol, con quella stessa voce roca e le stesse insolite movenze ringhiò «You Can Leave Your Hat One», accompagnando lo spogliarello di Kim Basinger in «9 settimane e mezzo», l’ultima canzone cult di un’altra epoca uguale, gli Anni Ottanta che stavano per arrivare, l’età degli huppies, la replica dei Sessanta senza pià ribelli e vagabondi, Easy Rider e sogni infiniti. In fondo, Joe era tornato a casa.
Ma è che è finita per sempre quell’epoca. E lui se n’è andato quando tutto questo è rimasto solo un album di vecchie fotografie scolorite, in questo futuro di giorni diversi dove tira forte il vento e non c’è più nessuno che possa darti una mano, anche se gridi più forte.