Ma l’arte e la bellezza a chi appartengono? Certo, raccontano il potere e le civiltà che lo hanno determinato. Ma il fatto è che non importa quello che possiamo rispondere.
Da qualche tempo a questa parte possono diventare luoghi di morte, e non solo perché i nazijihaddin radono al suolo i musei e le città che le conservano. C’è nel loro accanimento qualcosa di religioso che dovremmo imparare a conoscere, perché purtroppo appartiene anche alla nostra storia, quando i primi cristiani nelle catacombe di Roma professavano la violenza del Vangelo («Sono venuto a portar la spada», non la pace) e la stessa distruzione degli idoli.
E’ stata la romanità ad addolcire i figli di quei cristiani. Per gli altri, ancora adesso, il messaggio non è cambiato.
Cominciamo dai fatti. Passando con i bulldozer sull’antico sito archelogico assiro di Hatra, i miliziani dell’Isis hanno continuato un’opera di distruzione che già i talebani avevano cominciato in Afganistan ben prima dell’11 settembre.
Oggi questa politica di rovina si è fatta ancora più pericolosa, con uno stillicidio di morte disseminato ovunque, dall’attentato al Museo Nazionale del Bardo, Tunisi, a quello presso la Biblioteca Nazionale e il Museo d’arte islamica del Cairo, dalle fiamme che hanno colpito l’Institut d’Egypte fondato da Napoleone nel 1798, al massacro al tempio funerario di Luxor.
Nei loro video i jihaddisti di al Baghdadi mostrano come hanno preso a mazzate il Museo di Mosul o come promettono di distruggere il Colosseo e il Duomo di Pisa.
Perché lo fanno? Qualche coraggioso sprovveduto è riuscito a tirare fuori la storiella che quelli dell’Isis lo facciano per finanziarsi (?), citando un tale Ibrahim al Yaburi, docente di archeologia in Iraq, secondo il quale queste distruzioni permetterebbero loro di trafugare e vendere i reperti più piccoli e facilmente commerciabili.
In realtà, a parte la comicità della tesi, l’Isis si finanzia già molto bene con il petrolio che sgorga copioso nelle zone occupate. Basterebbe leggere il Corano per non andare a cercare le risposte in idee tanto assurde: «O voi che credete! In verità, il vino, il gioco d’azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono immonde opere di Satana: evitatele affinché possiate prosperare» (Sura, v.90).
Come spiega bene Luca Nannipieri in un articolo sul Sussidiario, «quello che per noi è ammirazione, studio, elogio della bellezza e del talento, per loro è adorazione di un simulacro che allontana dalla shari’a». Dal Corano ai racconti sulla vita di Maometto che compongono la Sunna, è pieno di citazioni che ne avvalorano la potenza: «Non entrano gli angeli nella casa in cui c’è un cane o un’immagine che rappresenta una creatura»; «Il profeta ordinò che gli idoli venissero estromessi o distrutti»; «Se delle effigi si trovano sulla strada della Mecca, appendi un telo sopra di loro e prega».
Si potrebbe andare avanti e citarne molti altri. Il fatto è che non solo per tutti gli ulema, i dotti, è chiara e severa la condanna verso immagini che rappresentano in ogni caso una mistificazione della realtà e il tentativo di sostituirsi a Dio nella creazione del mondo, ma che questa condanna è ancora più forte per tutti quei teologi e studiosi del Corano e di Maometto in secoli lontani che hanno influenzato moltissimo Osama Bin Laden e gli estremisti dell’Isis.
Per questa concezione della vita e della religione, i pittori e gli scultori sono i primi nemici da abbattere, proprio perché cercano di imitare il gesto della creazione che è solo di Allah: «Nel giorno della Resurrezione gli uomini che riceveranno da Allah i castighi più terribili saranno i pittori».
Con loro, tutti i fruitori dell’arte, quelli per cui secondo il laicissimo Jean Paul Sartre, non può esistere l’opera d’arte. Così si spiegano gli attentati di Tunisi e del Cairo, e quelli che ancora verranno, contro gli infedeli che adorano questi peccaminosi capolavori dell’uomo.
D’altro canto, studiosi eccellenti e ammirati avevano spiegato che dovevano essere vietate tutte le rappresentazioni dei viventi, «compresi gli alberi da frutta». Ibn Abd Al Wahhab, antico maestro di Osama Bin Laden, aveva teorizzato questo peccato, definendolo senza equivoci: le opere d’arte suscitano bassi istinti, diventano feticci da adorare, e originano nell’uomo la convinzione di sostituirsi al Creatore. Per questo bisogna distruggerle e colpire chi le ammira.
Ma allora che cos’è la bellezza? Un peccato da nascondere? E che cos’è l’opera dell’uomo, e cos’è la meraviglia del nostro Paese, che non sarebbe così bello neanche in natura, se la sua gente non ne avesse mutato i contorni e i pastelli, con i campi e le vigne, coi dossi a inseguire campanili e coi boschi e le pinete piantati in armonico disegno al posto delle paludi?
Alla fine non è un caso se i nazisti bruciavano i libri e l’Isis rade al suolo musei e distrugge opere millenarie. Hitler, nella sua incredibile follia, prima di morire aveva intravisto quello che poteva succedere e la guerra fra l’Occidente e il mondo musulmano: «Noi dovremo sempre stare dalla parte dei musulmani», aveva scritto.
Sono loro che stanno dalla sua. Ma in questa comunanza di odi e di morte, l’unica cosa che abbiamo capito è che la bellezza fa paura. E’ questa la sua grandezza.