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A volte ritornano. La Metamorfosi di Fabrizio Corona

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Non so se è tornato Fabrizio Corona e come è tornato, arrivando un po’ in ritardo al cinema Odeon, inseguito dalle guarnigioni di bodyguard e dall’assedio quasi farneticante dei suoi corona boys, che non l’hanno lasciato solo neanche alla cena, in un ristorante vicino a Corso Como, mentre le ragazzine sognanti puntavano i cellulari sulla strada buia, sotto le stelle, aspettando che lui uscisse.

E’ riapparso abbronzato come sempre, e così uguale a sempre, con quell’aria da desperado, la camicia bianca sbottonata, la barba incolta e i capelli corti, appena spettinati, in questa sera di libera uscita dalla comunità di don Mazzi per presentare un documentario che racconta invece la sua «Metamorfosi», come suggerisce il titolo.

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Alfredo Faieta / Ansa

A vederlo da vicino, cosa c’è di diverso? Eppure dice solo due parole ai giornalisti e lo fa per ricordare quelle che gli lasciò sua madre una volta, «quando mi disse che non potevo capire, se non avessi provato dolore. Quel dolore io l’ho provato ed è stato immenso, e ora che ho un’altra possibilità, la userò per dimostrare che ce l’ho fatta e ce la posso fare, anche per mio figlio».

In «Metamorfosi», lui racconta – per usare le sue parole – «lo stato di guerra che ho dentro di me», una condizione esistenziale che l’ha portato a fare della sua persona un ribelle dalla bella vita, sempre in bilico fra gli eccessi del disordine e della ricchezza, condannato alla fine, però, per nient’altro che una foto ricatto e un cumulo di reati da bullo.

Adesso Fabrizio Corona non parla del carcere, tre anni dietro le sbarre che forse non l’hanno cambiato, ma spaventato. A che servirebbe? Tanti ancora, almeno il doppio, li ha davanti a sé. Quello che aveva da dire l’ha già detto, in una lettera disperata, che servì probabilmente a smuovere le acque e a mandarlo in comunità a Lonate Pozzolo dal prete dei vip, don Mazzi, uno che speriamo non aiuti solo quelli che hanno delle foto e delle belle parole sui giornali e alla  tv.

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Da allora, il tempo che è passato non è più tornato indietro, anche per lui. «Che cosa mi hanno fatto?», scriveva, quasi in lacrime. «Che cosa sono riusciti a farmi? Non è giusto, è allucinante, è incredibile. La vita è una sola e non si può marcire dentro a una cella costretto a non fare nulla solo perché sei antipatico o hai pestato i piedi a qualcuno di troppo potente. Non mi possono vietare anche di rieducarmi. Io ora dico basta. Voglio giustizia e sono pronto a sacrificare tutto. Anche la mia vita».

La verità è che il bullo ribelle che aveva fatto della sua vita un’esibizione di forza e di spavalderia, questa volta aveva ragione. Ma non tanto, o non solo, per lui. L’aveva in generale. In questa nostra società che ci sforziamo di ritenere civile, il carcere dovrebbe rieducare, per consegnare al mondo delle persone nuove. Certo, ci scappa da ridere. Sappiamo tutti che non è così. Ma come potrebbe?

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In Italia c’erano fino all’anno scorso 65701 reclusi nei 206 istituti di pena, scesi al 28 febbraio 2015, dopo la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo al nostro Paese per il sovraffollamento delle carceri, a 53982, cui vanno sommati le 4200 unità delle cosiddette «situazioni transitorie». Dentro a quelle celle umide e sporche, riempite di gente, la vita conta sempre meno: nel solo 2012, sono stati registrati 154 morti nei nostri istituti penitenziari, di cui 60 per suicidio. E nel 2014, i tentati suicidi sono stati addirittura 933, mentre gli atti di autolesionismo certificati sono arrivati a essere quasi 7mila.

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A queste cifre angoscianti, bisogna aggiungere che ben il quaranta per cento delle persone che riempiono le patrie galere sono dei detenuti in attesa di giudizio, molti dei quali senza precedenti. Fra le criticità segnalate dalle organizzazioni umanitarie, ci sono poi altri numeri molto preoccupanti: un quarto delle persone detenute manifestano gravi forme di disturbo psichico, mentre secondo il Consiglio d’Europa il 38,4 per cento della popolazione carceraria è formato da reclusi «con problemi di consumo o abuso di sostanze stupefacenti».

Negli altri paesi d’Europa questa percentuale non supera il 15. In queste condizioni di vita, è ancora più grave la mancanza di opportunità di lavoro e di formazione che per legge dovrebbero essere obbligatorie. Con la crisi si è deciso di tagliare drasticamente i fondi, scesi dagli undici milioni del 2010 ai 3 del 2012.

Alla fine, in queste scuole di violenza che sono le nostre carceri, qual è la vera colpa di Fabrizio Corona, condannato a una pena spropositata – 13 anni e mezzo – rispetto ai reati commessi da lui e all’impunità sfrontata di cui godono in Italia non solo i colletti bianchi?

Non sappiamo se è tornato come prima, o se è cambiato. Forse, non ci interessa neanche. Ci stupisce quando dice che «i miei sbagli e la galera sono stati necessari per diventare quello che sono adesso. Ho sempre ostentato sicurezza, ma ora sono più sicuro di me. Ho trovato la vera forza».

Quando tira fuori queste cose, sembra sempre quel ragazzino che gonfia il petto e fa il bullo, per convincere se stesso prima degli altri. E l’altra sera, sembrava quasi annegare sotto lo sguardo ansioso del suo avvocato che temeva che lui ricadesse nei soliti errori, in mezzo a tutti quei corona boys e a quelle ragazzine eccitate. Eppure, anche se non ci piace, siamo contenti che sia tornato.

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