La storica sagra della canzonetta nella città dei fiori, stupendo manifesto dell’Italia che resiste e della sua longevità, con o senza botox, sta battendo quest’anno tutti i record di ascolto. La verità è che nonostante l’encomiabile impegno profuso dai critici musicali per commentare musiche e interpretazioni al bromuro, una più uguale dell’altra (per la serie ecomecazz’ fanno?), quello di Sanremo non è più il festival della canzione italiana – per fortuna -, ma lo spettacolo tv dell’anno.
E in questo senso il gran vincitore è Carlo Conti, che com’è noto a tutti non è un cantante e quando ci prova sotto la doccia, sua moglie prende il pupo e scappa via a far la spesa. Un po’ Baudo e un po’ Corrado, è il presentatore perfetto per far dormire sonni tranquilli ai nonni e ai papà più maturi che si assopiscono sulle poltrone davanti alla tv dopo le 9 di sera, magari solo perché non hanno di meglio da fare (di peggio è difficile). Però, onore al merito, a lui e a Virginia Raffaele, l’unica capace di risvegliare i dormienti con una risata. Sta di fatto che la seconda serata ha superato i raffronti con l’edizione precedente, che nella prima aveva solo eguagliato, facendo anche il boom di ascolti: 10 milioni e 748mila spettatori, con uno share del 49,91 per cento, la seconda migliore serata dal 2005, quando Bonolis raggiunse il 52, 80.
Ma l’anno scorso gli spettatori erano stati 10 milioni e 91mila, con uno share del 41,67 per cento. Stracciati. A queste cifre, bisogna aggiungere le altre spigolature che la Rai s’è affrettata a diffondere per sottolineare il successo della manifestazione, visto che l’età media è scesa a 52,2 anni contro i 53,2 del 2015 e il target compreso fra i 15 e i 54 anni è salito del sei per cento: come a dire che quasi tutti gli spettatori erano appena nati quando Patty Pravo e i Pooh erano già famosi e manco sapevano cos’era il botox. E se si considera che il trend è sempre stato in discesa nella seconda edizione di un conduttore (Fabio Fazio precipitò di dieci punti), bisogna dare atto a Carlo Conti di aver battuto se stesso e di essere riuscito a fare quello che in Italia nessuno è più riuscito a fare dai tempi della Dc. Ci ha riunificato.
Le canzonette, queste canzonette, non potevano più farlo: il livello è desolante, una rassegna mielosa e deprimente di note, toni e ritornelli tutti uguali, a parte qualche rarissima eccezione. Persino Morgan, che ha cantato di peggio nella sua vita, ha fatto di tutto per eguagliarsi (anche se la sua versione della Lontananza m’è piaciuta: ma io non sono un critico). Alla fine, non è un caso che l’unico brano con un testo decente sia stato quello di Nino Frassica, che difatti non ha cantato ed era fuori concorso. Of course.
Essendo Sanremo sol più uno spettacolo tv con tante noiosissime musichette, la Rai – almeno per ora – s’è guardata bene dal ripetere gli errori dell’anno scorso e richiamare comici come Alessandro Siani che ci imbrattò per interminabili minuti con la pochezza siderale del suo monologo. Meglio dare più spazio alla Raffaele e al presentatore, il vincitore della «storica sagra» (copyright Virginia Raffaele). Conti, come ha detto Andrea Scanzi, è davvero il Gran Maestro Normalizzatore, il cerimoniere della tradizione che parla alle famiglie: «Mai sorprendente, sarebbe perfetto per la tv di cinquant’anni fa. Cioé, questa».
E’ così zio buono il giorno del pranzo di Natale che non si scompone nemmeno quando Virginia Carla Fracci in Raffaele allude: «Immagino che porti la conchiglia», dice sfiorando le parti basse. «No», fa lui, stupito. «Beh, allora complimenti». Garko avrebbe strizzato l’occhio. Conti non ha neanche sorriso. Lo zio buono non può scandalizzare. Ma se Conti è la tv anni ’60, Gabriel Garko è il simbolo del piccolo schermo reinventato dagli Ottanta in poi. Più belle e più belli sono e meno sanno recitare, più vanno bene. Beati i decerebrati perché di loro sarà la tv. Se Garko non è certamente un decerebrato, bisogna ammettere che lo ha fatto molto bene. Chapeau. Legge il gobbo come se dovesse parlare in una lingua che non conosce, cioé l’italiano, si inciampa come se fosse Mr Bean mentre si rialza giocando con i bambini, e quando scende la scalinata dà il meglio di sé: «Sono emozionato come la prima sera che ho sceso dalle scale». Testuale.
In compenso, a lui per ringiovanire basta spettinarsi un po’ e fare lo sguardo da miope in posa da punta. Patty Pravo invece sta cercando disperatamente di partecipare a Sanremo giovani fra 10 anni. M’è piaciuta molto la sua faccia nuova. E’ vero che vivo con apprensione ogni sua parola, perché ho paura che le caschino le labbra, ma onestamente lo scultore ha fatto un lavoro di fino.
Patty Pravo ha cominciato ad avere successo nel 1966, cantando Ragazzo Triste, quando la maggior parte dei telespettatori giocava ancora col biberon. E’ lo stesso anno che ha lanciato i Pooh, altri vecchietti in tenuta stagno che hanno solcato il palco dell’Ariston commuovendosi e sbaciucchiandosi fra di loro (sempre per la serie echecazz’ fanno?).
Ci mancavano tanto Al Bano e Romina, ma forse c’erano già l’anno scorso e non si può esagerare. Però io ho mandato un elenco alla rai che potrebbe servire: ho chiesto Gli Alunni del Sole e soprattutto I Cugini di campagna, perché certe voci non si dimenticano. Invece, quando si rifanno le facce nuove non si dovrebbero dimenticare gli occhiali. Patty Pravo, al ristorante ha sbattuto in pieno la faccia contro la porta di vetro, rischiando di romperla. La porta o la faccia. La sua segretaria ha gridato spaventata di portare subito del ghiaccio. E un cameriere avrebbe risposto che non serve: «con tutto quel botox il colpo si attutisce». La cantante ha sentito, ma ha fatto finta di niente: ha detto solo che non le serviva il ghiaccio. «Voglio un bicchiere d’acqua». Anche se la classe non è acqua, va bene lo stesso.