Tutto ebbe inizio con un party grandioso a Venezia, e un premio mancato, dice qualcuno, per colpa della CIA. Tutto questo raccontato da Alberto Biasi, l’artista che “riesce a far vedere ciò che non è visibile”.
Le opere di Alberto Biasi, come sempre, catturano immediatamente l’attenzione dello spettatore, non appena si varca la soglia della nuova GR Gallery di New York. Ad accogliermi Eva Zanardi, Direttore-Comunicazione di GR gallery ed Art Advisor che mi accompagna ad incontrare il maestro. “Alberto Biasi è un uomo che ama raccontare il proprio percorso artistico e il proprio passato” mi suggerisce, e lo intuisco non appena gli stringo la mano e notando quel suo sguardo divertito e pronto per una chiacchierata che durerà quasi un’ora.
Questo artista padovano, riconosciuto in tutto il mondo come maestro dell’arte cinetica, dal 31 marzo fino al 22 maggio 2016, torna a New York con un’antologica, curata da Giovanni Granzotto ed Alberto Pasini, di ben 26 opere, “A Dynamic Meditation”, dagli anni ’60 ad oggi. Diverse le serie presentate tra cui “Rilievi Ottico-Dinamici”, “Torsioni”, “Assemblaggi”, e la sua unica installazione interattiva “Eco-Ombre” esposta per la prima volta negli Stati Uniti.
Nato nel 1937 a Padova, nel ’59 fonda il Gruppo ENNE con cui lavorerà fino al 1969 per poi continuare da solo. Definito come artista coerente e visionario, Biasi è protagonista di numerose iniziative di sperimentazione artistica, soprattutto negli anni ’60. Grazie alle sue creazioni artistiche, costruite sulla base di illusioni ottiche, egli vivrà il suo momento di massima popolarità attraverso il percorso nell’arte ottico-cinetica, che lo consacreranno come il più autorevole rappresentante italiano di questo tipo di arte.
Alla mia domanda Che cosa ha rappresentato negli anni della sua carriera artistica la città di New York? La risposta di Alberto Biasi è secca:
Nulla. Ci tengo a precisare che tutto il movimento ottico-cinetico nasce in Europa, è fondalmentalmente europeo. L’esistenza della op-art (optical art) viene scoperta, in America, solamente negli anni ‘64-65. Si parlerà di op-art dopo che la pop-art, con Robert Rauschenberg, riceve il “Premio per la Pittura della Presidenza del Consiglio dei Ministri dedicato ad un artista straniero”, alla Biennale di Venezia nel 1964. Questa è, per me, una storia un po’ infelice, perchè la nostra vittoria, con il Gruppo Enne, era data per sicura. Noi la credevamo cosa fatta. Non che ci abbiano rubato il premio in sè. Semplicemente, quell’anno, il “Premio alla pittura italiana”, che credevamo di vincere noi, non fu conferito affatto.
Ma andiamo con ordine. Noi del Gruppo Enne, con i tedeschi del Gruppo Zero, sempre nel 1964, avevamo vinto il premio ex equo alla Biennale Internazionale di San Marino, con critici d’arte assegnatari del premio del calibro di Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli, Umbro Apollinio, tanto per citarne alcuni. In Italia scoppiò una polemica ferocissima che accusava Argan, ingiustamente, di essere il creatore dei gruppi premiati, e ignorando che le ripercussioni le avrebbero subite altri artisti anzichè lo stesso Argan. Era la prima volta che in Italia si accendeva una polemica così aspra.
Nel mezzo di questo dibattito, Leo Castelli (collezionista d’arte e mercante d’arte statunitense) decide di portare i pop-artisti americani a Venezia, a ridosso della Biennale. E ovviamente lo fa in grande stile, arrivando con la sesta flotta americana e sbarcando, praticamente, sul Canal Grande. Ma non solo, Castelli organizza una grandiosa festa al Consolato veneziano, allestendo una mini mostra delle opere di Rauschenberg all’interno. Tutti i critici d’arte più importanti del tempo erano presenti alla festa e vedendo le sue opere si ritrovano concordi nel dare il grande premio per la pittura a Rauschemberg. Qualcuno tentò di smorzare l’onda dell’entusiasmo spiegando che le opere di Rauschenberg non erano esposte in alcun padiglione dei giardini della Biennale e, quindi, non era possibile conferirgli il premio. Così nottetempo, facendo spazio in uno dei padiglioni, sistemarono le opere e la mattina successiva erano pronti per conferire il premio a Rauschenberg. L’opinione pubblica italiana non fu particolarmente sorpresa, o perlomeno non tanto quanto quella francese, che sosteneva Leo Castelli appartenesse alla CIA, e che quella furtiva vittoria celasse in realtà, non l’intenzione di ostacolare gli artisti italiani, togliendogli di fatto il premio, ma quella di contrastare il Realismo Socialista presente all’interno della Biennale veneziana, grazie alla fitta rappresentanza di artisti russi. Quindi la mostra di Leo Castelli, in realtà, era contro il realismo socialista e la vittoria fu assegnata, esclusivamente, per stabilire una supremazia statunitense nei confronti di quella russa.
E voi?
E noi – sorride un pò amareggiato – restammo con un pugno di mosche in mano. Devo ammettere però che, proprio dopo questi eventi, proprio a New York, si inizia a prendere coscienza dell’esistenza, in Italia e in Europa, delle tendenze optical-art definite poi op-art. Nell’ottobre del 1964, lo stesso anno della Biennale, proprio il New York Times parla di op-art, inserendo anche una mia opera come esempio di cinetismo, cinetismo puramente virtuale. Quindi, con il senno di poi, posso dire che non tutto il mal venne per nuocere.
Come dà inizio a tutto questo, come sviluppa l’idea e la forza dell’optical-art che la faranno definire l’artista che ‘riesce a far vedere ciò che non è visibile?
Tutto ha inizio dalle “Trame” nel 1959, attraverso la sovrapposizione di carte forate, carte esistenti in natura e che servivano per gli allevamenti dei bachi da seta. Giocando con queste, mi accorgo che c’è un’interferenza tra le strutture che vengono poste su un piano e le strutture che vengono poste su un piano più avanzato. Così, comincio ad elaborare delle immagini. Comprendo che mettendo in relazione strutture di diverso andamento, nasce una terza struttura visiva, completamente diversa, e che si vede nei quadri con soluzioni pressochè infinite. Le forme, si compongono e si disfano nel momento in cui lo spettatore passa davanti all’opera. L’occhio vede delle forme, ma poi è il cervello che le elabora regalando il movimento, dovuto però ad un’elaborazione della mente. La ricostruzione della forma viene fatta a livello mentale. Ecco che si riesce a vedere qualcosa che in realtà non c’è. Sono i fenomeni detti di “totalizzazione”, studiati anche dalla psicologia della percezione, che io quando iniziai non sapevo nemmeno cosa fosse.
Sembra che l’arte cinetica dal 2010 stia vivendo un momento di grande interesse da parte di pubblico, addetti ai lavori ma anche da parte di acquirenti e galleristi. Come spiega lei questa riscoperta vicinanza all’arte cinetica?
Corsi e ricorsi, è così per la storia ma lo è anche per l’arte. Le avanguardie cominciano, hanno un successo iniziale, poi scompaiono, ma solo apparentemente. L’interesse commerciale, quello legato all’aspetto economico dell’arte, a mio avviso, avrà a breve un’inevitabile flessione. La fascinazione, invece, di filosofi, scienziati, storici nei confronti di questo tipo di arte negli anni 60 e che poi riaffiora agli inizi del 2000, è un forte segnale di una tendenza a voler valorizzare l’arte cinetica, così come l’arte programmatica. Una tendenza che consentirà di apprezzarla per sempre. Ma – puntualizza il maestro – il concetto di arte è complesso da definire. “L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte” diceva Dino Formaggio (filosofo e critico d’arte). Io aggiungo che, l’arte è tale se ti fa vedere delle cose che prima non avevi mai visto. Basti pensare all’arte cubista, all’impressionismo, a Caravaggio che sapeva giocare con la prospettiva e ricreare la luce in un modo che nessun altro prima era stato capace di ottenere. Far vedere qualcosa che prima non esisteva, credo sia il motivo che suscita interesse e curiosità nell’arte cinetica ancora oggi.
Dagli esordi del 1959 con il Gruppo Enne ad oggi, come per lei è cambiato il mondo dell’arte?
Quando ho iniziato ad esporre le prime opere, la reazione del pubblico era di rifiuto. Era abituato a vedere le figure, le immagini a sfondo, la prospettiva e immaginavano che solamente quella fosse arte. Quindi rifiutavano le mie opere, percependo quasi un senso di fastidio. La complessità delle invenzioni tecnologiche moderne ha cambiato questo, cambiando il modo di vedere. La tecnologia ha reso l’approccio del pubblico completamente differente, molto più immediato. Se oggi metto un bambino davanti ad uno di questi quadri, la prima cosa che farà sarà rimanere fermo e ondeggiare la testa da sinistra a destra. Una volta non era così, nessuno si sarebbe mosso. Il pubblico, abiutato alla pittura, guardava e se ne andava, rimaneva quasi infastidito soprtattutto perchè l’occhio era abituato a vedere la profondità dell’opera. Nei miei quadri, se l’approccio è statico, la profondità crea una forma di vertigine. Se invece lo si guarda con un’approccio dinamico, quindi muovendosi, ne si coglie tutta l’essenza. Quando c’è innovazione c’è arte, e l’innovazione tecnologica dei nostri giorni permette di vedere e di apprezzare questo nuovo tipo di arte, tant’è che i giovani sono convinti che queste opere appartengano, ad un tempo recente, mentre in realtà hanno oltre 50 anni. Non è meraviglioso? Se l’arte è vera, diventa senza tempo.
Per ulteriori informazioni sulla mostra e sull’arte cinetica ed optical consultare il blog specializzato: theresponsivei.com