Venezia 73. È trascorsa più di una settimana dall’inaugurazione della Mostra del Cinema di Venezia. A pochi giorni dalla consegna del Leone d’Oro, alcune considerazioni sui film presentati in Concorso.
>> Venezia 73. Stessa storia, stesso posto, nuova Mostra?
L’inizio della settantatreesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia non è stato segnato solo da un caldo insopportabile, squarciato soltanto in questi ultimi giorni da spaventosi temporali estivi: la manifestazione non ha aspettato un minuto per giocare i suoi assi nella manica e svelare alcune importanti novità.
Rispetto agli anni precedenti è stato impossibile non notare la presenza massiccia delle forze dell’ordine: distribuite in piccoli gruppi (come gang di un liceo della provincia americana, insomma) a tutti gli ingressi principali, non è stato poi così difficile abituarsi alla loro presenza.
Non ha destato entusiasmo, invece, la soluzione (provvisoria?) che – dopo anni di abbandono- giunge a coprire lo scavo davanti al Palazzo del Cinema (residuo incompiuto del vecchio progetto di un nuovo Palazzo del Cinema): al suo posto, quest’anno si erge un cubo rosso, immerso in un prato verde e circondato da alberelli incantati. Il fango è ancora fresco e la costruzione è a tratti grottesca, ma il piacere di passeggiare per un panorama più omogeneo sconfigge qualsiasi commento malevolo.
>> Ma le sorprese arrivano soprattutto nella selezione ufficiale dei film del Concorso: i titoli in corsa per il Leone d’Oro hanno portato grandi discussioni fra i bar del Villaggio del Cinema e durante le maratone notturne di spritz sul lungomare, a testimonianza di un panorama culturale che non si vuole accontentare di risultati mediocri.
Nostalgia, nostalgia canaglia.
Nel tentativo di guardare la rosa dei lavori selezionati è presto chiaro che la tendenza principale di quest’anno ha portato la produzione a scommettere sul pubblico grazie a un vecchio, ma efficace espediente commerciale (e formale): il genere.
È con questa premessa che si spiegano i numerosi applausi per La La Land, audace scommessa della serata d’apertura. Il film (fra i favoriti a vincere il Leone d’Oro) non è altro che un gentile omaggio al varietà musicale della tradizione hollywoodiana (per essere più chiari, quella di Singing in the Rain, Stanley Donen/Gene Kelly). In molti accusano i protagonisti di non essere Fred Astaire e Cyd Charisse, ma la verità è che sia Ryan Gosling che Emma Stone si difendono con onore – e la sintonia fra di loro è talmente gustosa da bucare lo schermo.
In questo revival del genere s’inserisce Arrival, lo sci-fi di Denis Villeneuve presentato al Lido dai protagonisti Amy Adams e Jeremy Renner. Strizzando l’occhio all’immaginario monolitico di Kubrick, il regista canadese di Prisoners e Sicario dimostra di saper prendere le giuste distanze dalla tradizione fantascientifica dei film sugli alieni, per seguire una strada più personale: l’eterna lotta fra sapere umanistico e scienza guida lo spettatore in un continuo crescendo di trascendenza mistica.
Insieme a Jake Gyllenhaal, Amy Adams è protagonista anche di un’altra pellicola: Nocturnal Animals, di Tom Ford. Lo stilista, alla sua seconda esperienza dietro la macchina da presa, dopo A Single Man sceglie di affrontare un discorso complesso, che mette in gioco alter-ego della sua stessa personalità e riflette silenziosamente sui tradizionali ruoli di genere. Ma al contrario delle aspettative, non è un film queer: l’inevitabile maschera glam nasconde una riflessione sulla creatività e sulle sue conseguenze, un discorso intimo e privato di straordinaria potenza comunicativa.
Non mancano gli esperimenti più “autoriali” (ma guai ad azzardare questa parola fra i cinéphile!): ad assumersi questa responsabilità è il cinema europeo.
François Ozon porta Frantz, insieme a un sempre più affascinante Pierre Niney (l’Yves Saint Laurent di Jalil Lespert). Il regista francese sceglie un sentiero impervio: la prima ora è infatti ricalca quasi letteralmente un film del 1932 di Ernst Lubitsch, Broken Lullaby. L’omaggio è dichiarato nei titoli di coda e la principale differenza sta nel gioco della suspense: questo permette a Ozon di costruire una seconda parte molto più personale e toccante, che coinvolge lo spettatore in un gioco all’inseguimento.
Straordinaria la performance della protagonista Paula Beer, fra le favorite alla vittoria della Coppa Volpi per la Miglior Attrice.
Chapeau anche per Stéphane Brizé, che dopo il grande successo di La Loi Du Marché (presentato a Cannes nel 2015, Premio al Miglior Attore a Vincent Lindon) torna a un festival portando un film molto diverso, ma altrettanto dedicato all’indagine sull’animo umano. Il film è Une Vie ed è girato in pellicola: il racconto della vita di quasi due generazioni accompagna lo spettatore con un ritmo calmo, forse fin troppo, ma con una straordinaria potenza evocativa e una bellezza dell’immagine che commuove.
Di produzione USA/Germania, arriva Terrence Malick a sconvolgere il pubblico: molti sono scettici a priori, ma la maggior parte lo è anche a posteriori. Voyage of Time è un’esperienza totalizzante, ma se ci si abbandona al suo gioco diventa magica. Non è un documentario, come internazionalmente pubblicizzato, ma piuttosto un biopic sul personaggio ‘mondo’, interpretato dagli occhi originali di un maestro dell’immagine che in 90 minuti dà libero sfogo a un progetto a cui ha lavorato per decenni.
E l’Italia? Presente con tre titoli in Concorso, la produzione nazionale non soddisfa le esigenze del pubblico.
Il primo italiano al Lido è Spira Mirabilis, il documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Già prima della sua presentazione, l’hashtag scelto dai distributori di tutto il Paese è stato #svuotasala: è bastato arrivare alla proiezione stampa per vedere il pubblico andarsene a velocità impressionante. I suoi difensori sostengono che nel finale il film riesce a convincere, ma resta un grande dubbio: la presenza in Concorso alla manifestazione veneziana (non certo un festival qualunque) gioverà alla distribuzione commerciale (I Wonder Pictures) di un film che – come evidente – non nasce con scopi commerciali?
Grande (e condivisa) delusione per Piuma di Rohan Johnson, tipico prodotto nazionale a metà fra il racconto di formazione e la commedia adolescenziale (rigorosamente ambientata a Roma, con accento annesso). C’è chi in sala ha addirittura urlato un lapidario “Vergogna!”, ma la domanda più frequente è: “Cosa ci fa un film del genere in Concorso?”. Tralasciando la superficialità di un simile interrogativo, i commenti si sprecano.
La sorpresa più grande di questa edizione viene (almeno, per adesso) da un film spagnolo: El Ciudadano Ilustre, di Mariano Cohn e Gastón Duprat, fra i favoriti dei sondaggi per il primo premio. La sua scrittura tagliente e la ricercatezza dell’immagine ne fanno un prodotto adatto a tutti: ai più schizzinosi, in cerca d’intellettualismo e perfezione, così come ad un eventuale pubblico di famiglie.
I titoli in concorso non sono ancora moltissimi, ma le aspettative sembrano abbassarsi giorno dopo giorno. D’altronde, se il mito della manifestazione artistica vorrebbe che venissero messi in luce gli esempi di cinematografia più difficili o d’élite, le esigenze del pubblico preferirebbero i risultati sì originali, ma in grado di adeguarsi a una platea tanto d’essai quanto più generalista.
È vero, non bisogna dimenticare che una manifestazione di grande portata è una vetrina funzionale anche agli scopi commerciali di un’industria culturale, ma attenzione: mentre l’equilibrio rischia di pendere troppo su un piatto della bilancia, non dobbiamo dimenticare che quella di Venezia resta pur sempre una Mostra d’Arte Cinematografica.
Se le parole hanno ancora un significato, dunque, che arte sia.