Dopo aver toccate le città di Francoforte e Stoccolma, giunge al Palazzo delle Esposizioni Georg Baselitz. Gli Eroi, incentrata sulla famosa serie di dipinti dell’artista tedesco, che mai prima d’ora, però, erano stati attenzionati di per se stessi. Una riflessione sullo stato d’animo dell’Europa. Fino al 18 giugno 2017.
Roma. Dopo la grande mostra di Amburgo del 1973, è questa l’occasione per vedere la serie nella sua quasi totalità; si tratta di opere fondamentali per comprendere il clima di sgomento che la Seconda Guerra Mondiale prima, e la Guerra Fredda subito dopo, stesero sull’Europa. Georg Baselitz (1938), è artista inappartenente, solitario e portato alla riflessione, la cui pittura concreta è più simile a una pagina scritta che a un velo di colori. Curata da Max Hollein e Daniela Lancioni, la mostra illustra approfonditamente il Baselitz assai caustico (si potrebbe dire che i suoi colori ghignano sulla tela), e prima degli Eroi lo aveva dimostrato con il Manifesto Pandemonico, dove affermava la necessità, in arte, del realismo critico; l’oggettività assoluta non è pensabile, perché l’artista che riproducesse fedelmente la realtà, non sarebbe tale.
Realizzato fra il 1965 e il 1966, il ciclo degli Eroi, racconta un individuo che non è eroe nel senso classico del termine, ma lo è nel senso moderno del suo significato; è colui che emerge dalle ceneri della tragedia causata dalla società totalitaria, e guardandosi intorno prova disgusto per il sangue, per l’aberrazione, la violenza, e un po’ anche per se stesso, che queste cose le ha, se non create, comunque vissute e tacitamente approvate nel loro inizio. È un gladiatore antico che va a morire per una causa sbagliata, ma sa morire con dignità.
È l’eroe foscoliano “bello di fama e di sventura”, che suo malgrado si ritrova prigioniero di dinamiche più grandi di lui, ma non per questo è loro schiavo. In fondo, la sua missione è quella di cercare una via d’uscita, anche se è consapevole della difficoltà di riuscita. Un bizzarro mélange di potenza, ambiguità, speranza, disperazione, rabbia, ironia, capace di disorientare l’intellettuale d’accademia.
Niente di più ovvio che un artista del genere sia sempre apparso scomodo al sistema dell’arte ufficiale, ma soprattutto all’ambiente politico; la Germania Orientale degli anni Cinquanta, così come il resto dell’Europa, non aveva bisogno di quel genere di “eroi”, dopo il clamore di Norimberga certe revisioni storiche si preferiva lasciarle in disparte, e concentrarsi sull’espansione economica sostenuta dal Piano Marshall; Baselitz è però uno dei pochi individui veramente liberi nel Vecchio Continente sotto tutela americana; assieme a lui, si possono contare Albert Camus, Antonin Artaud, Boris Vian, Curzio Malaparte, Pier Paolo Pasolini, intellettuali insofferenti al sistema. Viene più semplice paragonare la poetica pittorica di Baselitz al pensiero di scrittori, drammaturghi e pensatori, perché è l’autore di un autentico teatro esistenzialista fermato sulla tela, scaturito da strati e strati di colore che feriscono la tela così come la schiavitù ferisce l’anima.
C’è un peso morale in questi dipinti, ovvero la difficoltà a trovare un senso nell’esistenza dopo aver constatato quanto in basso può cadere l’umanità; Baselitz è artista radicale, che sottopone la coscienza a un doloroso e approfondito esame, e la sensazione che ne ricava non può essere che il disgusto, apparentabile alla nausea di Jean Paul Sartre e all’amarezza di Albert Camus (che è poi la medesima di Tomasi di Lampedusa); quest’individuo non è un eroe politico, bensì sociale, il cui campo d’indagine è l’anima. Che improvvisamente appare troppo vasta, e nell’impossibilità di riempirla permangono ampi vuoti; ecco la delusione di se stesso, il dolore del proprio limite.
Le pose sono quelle di chi avanza con lo sguardo rivolto al cielo da cui sa di non potersi aspettare più niente, quelle di onorati soldati che nonostante tutto non abbandonano la posizione, fedeli a se stessi, bisognosi di credere in una causa, dopo che, per dirla con Sartre, ha scoperta la scomodità dell’inesistenza di Dio.
La riflessione concettuale procede parallela a quella stilistica: Baselitz ora aggiunge ora sottrae colore, ora espande la figura ora la restringe; ma qualunque sia la soluzione scelta, non viene persa la potenza espressiva. Stilisticamente, non è agevole definire Baselitz: la sua cifra è sempre stata quella di non omologarsi, e pertanto non ha mai aderito a nessuna corrente artistica, sia il realismo socialista, l’espressionismo astratto o l’informale. In linea di principio, si ravvisa qualcosa della tragicità di Grosz e Dix, ma una disperazione assai maggiore, perché se nei primi due c’è il peso della sconfitta, in Baselitz si aggiunge il peso della causa sbagliata, dell’inadeguatezza dell’essere umano, della solitudine nel cosmo infinito. Queste tele nascono dalle macerie di un mondo oscuro, esplorato da Rossellini in Germania Anno Zero, e probabilmente, a dispetto delle apparenze, Baselitz è un neorealista, così come lo è stato Camus; in maniera atipica, eppure fedele nell’interpretare il nuovo clima europeo. Entrambi sono uomini soli, che credono nel proprio senso critico, e proprio nei solitari riconoscono coloro che sono capaci di negare le frontiere e le apparenze della Storia (Baselitz non dipinge mai folle, ma solo individui singoli, con la sola eccezione, ironica, degli Amici).
Il ciclo degli Eroi non finisce con il 1966. La mostra propone anche una serie di opere degli anni Duemila che riprendono quelle atmosfere, perché di fatto quest’inizio di XXI Secolo è immerso nella medesima oscurità e nel medesimo disorientamento che seguirono al 1945. In fondo, sembra ricordarci Baselitz attraverso le parole di Mordo Nahum “guerra è sempre”. E sempre da solo deve combattere l’uomo, se è uomo vero. E Baselitz lo è, a differenza dei tanti cortigiani che gravitano ancora oggi nel mondo dell’arte, della cultura, della politica, così come dei tanti che rinunciano al senso critico soggiogati dalla televisione e dai social network.
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