Sulla scia della mostra meneghina Manet e la Parigi moderna è tempo di riscoprire gli albori della pittura bohèmien. Abbandoniamo le sale di Palazzo Reale per immergerci nella triade delle opere più rivoluzionarie del precursore dell’impressionismo, rimaste nei musei internazionali.
Edouard Manet. Il tradizionalista ribelle,
Cultore dei maestri del passato ma promotore di un linguaggio che ha anticipato i tempi, ossessionato dal pantone nero (fino a farne il proprio tratto distintivo) ma anticipatore della pittura del colore; la grandezza di Édouard Manet risiede nel fascino dell’ambivalenza. Nato nel 1832 da una famiglia agiata, -compiuti gli studi classici- il giovane borghese rifiuta il cursus honorum prefissato dal padre, per fare dell’arte una missione esistenziale. Forte della salda cultura figurativa, questo ragazzo dai modi garbati guarda all’opera di Tiziano, Goya e Velasquez, cogliendone l’essenza più profonda, per convertirla in inedita modernità. Da questi presupposti prendono forma capolavori in grado di smuovere sentimenti contrastanti: se l’audacia della “Colazione sull’erba” e la sfrontatezza dell’”Olimpia” destano la lapidazione della critica e scandalizzano i ben pensanti, l’indagine psicologica de “La prugna” e lo scardinamento prospettico del “Bar delle Folies-Bergère” segnano l’esordio dell’arte del futuro.
1- La colazione sull’erba. Oltre l’ipocrisia del mito
Dai racconti letterari la lente d’ingrandimento si sposta sulla realtà quotidiana, e Parigi grida allo scandalo. Sullo sfondo di una rigogliosa radura, due gentiluomini in abiti contemporanei conversano con una donna nuda, mentre un’altra fanciulla senza veli si bagna nelle acque del torrente retrostante. Sebbene stando alla leggenda -per dipingere la Colazione sull’erba– Manet prese ispirazione da un episodio avvenuto sulle sponde della Senna, sono altrettanto evidenti i riferimenti al Concerto campestre di Tiziano e a una incisione tratta dal Giudizio di Paride di Raffaello. Al di la delle critiche stilistiche, a fare scalpore è proprio questo cortocircuito fra arte e vita. Se è vero che il nudo vanta un’antica tradizione in campo figurativo e che le dee celebrate dai maestri del passato sprigionavano una sensualità decisamente più conturbante di quest’anonima signorina dai facili costumi; mai nessuno – fino a questo momento- aveva avuto l’ardire di abbandonare il non tempo del mito, per immergersi senza ipocrisie nella realtà del presente. Ironia della sorte: la pittura moderna comincia con l’effige del mestiere più antico del mondo.
2- L’inespressiva espressività dell’Olympia
Dalla grazia sofisticata della “Venere di Urbino”, al voluttuoso erotismo della “Maya desnuda”, fino al greve sex appeal di una meretrice. Con l’Olympia Édouard Manet alza ulteriormente l’asticella della provocazione. Nonostante l’alto registro delle fonti –Goya e Tiziano-, nella tela del pittore francese non vi è nulla che lasci dubitare circa l’identità del soggetto ritratto: dal nome (all’epoca caratteristico delle prostitute), alle pantofole da cortigiana, fino al significato allegorico del gatto nero sullo sfondo. Eppure a colpire è soprattutto lo sguardo -vuoto e disincantato- della protagonista, che fissa imperturbabilmente l’osservatore senza mostrare alcuna emozione. Nell’Olympia non vi è traccia di pudore, malizia o appetito sessuale, ma solo la stanchezza alienata di una mestierante. Mai nella storia dell’arte si era assistito a un volto così inespressivamente espressivo.
3- Il mistero del bar delle Folies-Bergère
“Si vede come si vuol vedere, ed è questa falsità che costituisce l’arte” (Edouard Manet)
Una cameriera di un locale parigino colta in un momento di pausa, con le mani appoggiate al bancone e lo sguardo perso nel vuoto. Questa scena apparentemente banale costudisce un mistero senza fine. Il Bar delle Folies-Bergère non è solo il testamento spirituale di Édouard Manet, ma una delle opere di più straordinarie dell’intera storia dell’arte.
La composizione riunisce con massima coerenza le peculiarità stilistiche del pittore francese e ogni dettaglio è un microcosmo che attende di essere esplorato. Se la natura morta in primo piano costituisce un’opera d’arte a se stante e l’indagine psicologica della protagonista sfiora il sublime; la vera rivoluzione risiede nella regia prospettica.
Manet posiziona lo spettatore dentro lo spazio dipinto, inscenando un sottile dialogo fra chi guarda e chi è guardato. Così, in un primo momento, pare di trovarsi difronte a una situazione convenzionale, in cui la cameriera – oltre la quale si scorge la clientela del locale- volge verso di noi assorta nei propri pensieri. Tuttavia -dopo un’osservazione più attenta- si scopre che quello che è rappresentato alle spalle della ragazza è in realtà riflesso dietro a uno specchio e che il cliente coincide con lo stesso riguardante.
La soluzione ottica dell’immagine sdoppiata vanta celebri precedenti pittorici (dal “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di Jan Van Eycka, a “Las Meninas “di Diego Velázquez), ma Manet compie un passo ulteriore, scardinando la prospettiva. Le dissonanti – e misteriose- incongruenze del “Bar delle Folies-Bergère” rompono coi convenzionalismi accademici e segnano un punto di non ritorno, verso le sperimentazione del secolo breve.