La racconta una piccola ma emozionante e raffinata retrospettiva fotografica, nell’ambito di un progetto di riscoperta degli autori della Library of Congress curato da Martina Massarente. Fino al 29 aprile 2017, negli spazi della Photofactory di vico San Matteo 10r.
Genova. A guardarle, sembra di sentirsi addosso la polvere del deserto che Arturo Bandini respirava nei suoi vagabondaggi letterari fra Los Angeles e Long Beach. Le fotografie di Walker Evans (1903-1975) – che con Dorothea Lange e Robert Frank è stato uno dei più efficaci romanzieri per immagini della società americana della prima metà del Novecento -, possiedono la struggente intensità della narrativa d’autore, catturano personaggi e situazioni con la rude sensibilità di chi è abituato al vento e alla pioggia, al sole e all’afa. E negli spazi sterminati degli Stati Uniti, sono questi i fattori che dominano, che accompagnano e a volte annichiliscono la volontà e l’attività dell’uomo, e sembrano amplificare la portata delle congetture meno favorevoli. Per incarico del governo americano, nello specifico della Farm Security Administration, alla metà degli anni Trenta Evans documentò gli effetti della Grande Depressione, fotografando un Paese difficile, stretto fra la crisi economica, il dilagare del gangsterismo legato al contrabbando dell’alcool, e le violente rapine di Bonnie e Clyde. Anni violenti, spregiudicati, incerti, a loro modo avventurosi.
C’è un senso di pionierismo che accompagna i soggetti ritratti da Evans, uomini donne bambini, tutti senza distinzione impegnati a sopravvivere sia contro le avversità del sistema economico, sia contro le avversità quotidiane di una natura maestosa e violenta insieme. Documentando la Grande Depressione, Evans racconta una civiltà abituata alla fatica, tenace e mai doma, avvilita ma non sconfitta, ma che ha la sensazione di essere stata presa in trappola, proprio come i topi di John Steinbeck. Una sensazione che emerge dagli sguardi dei soggetti immortalati, sospesi fra amari pensieri e il desiderio di un’impossibile evasione; un atteggiamento che ben sintetizzò Saul Bellow in una delle sue opere brevi più riuscite: «Nella grande recessione mondiale le professioni erano inutili. Eri pertanto libero di fare della tua vita qualcosa di straordinario» (cfr. Something to remember me by, 1989). Qualcuno ci è riuscito, altri sono rimasti schiacciati, ma quell’ebbrezza bruciava nell’anima di ognuno. Nel costruire la sua narrativa, Evans si pone a metà fra l’artista e l’antropologo, curando l’aspetto estetico della fotografia ma soprattutto preoccupandosi di immortalare la dignità del soggetto, un approccio che farà scuola, poiché il suo reportage sulla Grande Depressione fu studiato con attenzione dai suoi connazionali, fra i quali Robert Frank, ma giunse anche in Italia, dove ispirò Pietro Donzelli per il suo reportage nel Delta del Po.
E ancora, l’impostazione di Evans ha quasi sempre il dono di far intuire quegli spazi sterminati in cui l’individuo sembra perdersi, la grandezza fisica e morale di un’America che aveva costituito e costituiva un ideale di libertà e prosperità. Fra le macerie di quel sogno, Evans scova la determinazione a continuarlo, la scova proprio in coloro che fotografa, di cui racconta la tenacia quotidiana che pongono nell’affrontare un’esistenza dura. Alla quale fanno poetico contrasto i sorrisi dei bambini, catturati all’uscita da scuola o nel mezzo di un gioco.
Osservando in sequenza questi scatti, si ha l’impressione di compiere un viaggio picaresco nella dignità della miseria, e tornano alla mente certe pagine dell’Augie March di Saul Bellow: come ogni vero fotografo, anche Evans va oltre lo “scrivere la luce” per farsi narratore partecipe di storie, gioie, sofferenze, modi di vivere, senza giudizi politici, ma con la sensibilità dell’umanista. Un umanesimo americano, dall’ampio respiro sociale, che però non scade nella retorica ma resta ancorato alla realtà, come quella delle architetture urbane e rurali, due volti di un’America economicamente molto diversi, e dove la Grande Depressione incise in maniera differente, colpendo assai maggiormente le campagne. E sullo sfondo, quella ferrea segregazione razziale che separava gli americani di pelle bianca dai loro connazionali di pelle nera, segregazione che non si attenuava nemmeno nei momenti più duri: come nel caso dell’alluvione che colpì l’Arkansas nel 1937; Evans fotografò le tendopoli di prima accoglienza, riservate ai bianchi, e quelle riservate ai neri. La sua è un’indagine di stampo neorealista, che dall’anonimato della strada trae più informazioni che da un quotidiano, come lui stesso affermò con un filo d’ironia. L’ironia dei solitari e dei pensatori, che vedono nella trasmissione della cultura una missione: Evans ha fissato sulla pellicola la cultura americana attraverso i suoi più minuti particolari, quello del quotidiano familiare, urbano, rurale, operaio.
La mostra genovese, piccola ma intensa, contribuisce a fare piena sul talento di un fotografo a lungo non pienamente compreso.
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