Approccio innovativo della curatrice francese, che costruisce una mostra corale, recuperando il senso della comunità artistica dedita al bello e al progresso civile. Fino al 26 novembre 2017. www.labiennale.org
Venezia. Iterum leo rugit. Dopo tre edizioni consecutive decisamente scadenti, con curatele dispersive e vagamente autoreferenziali, l’arte torna protagonista alla Biennale, e lo per tramite di un’intelligente femminile: Christine Macel (Parigi 1969), con la sensibilità che contraddistingue le donne (depositarie del segreto ancestrale della vita di giorgionesca memoria), ha pensato un approccio curatoriale volto a indagare la capacità dell’arte di conservare nel tempo questa sua forza vitale, di risorgere dalle ceneri di catastrofi naturali e umane, per farsi costante scintilla del progresso civile. Una forza generatrice che fa dell’arte una realtà viva. È questo che Christine Macel ha voluto celebrare in Laguna, ponendosi come un ponte fra il pubblico e gli artisti, lasciando al centro la loro voce, cui riconosce una responsabilità civile. Troppo spesso, nella logica dell’arte-mercato, si dimentica come il senso dell’essere artista non debba limitarsi a produrre un qualcosa con particolari caratteristiche estetiche. Appena dietro, dovrebbe celarsi anche una riflessione sulla realtà, l’esistenza, la politica, l’amore, la bellezza, in modo che anche le opere d’arte, a loro modo, costituiscano un’ideale biblioteca da leggere con lo sguardo e con l’anima.
La mostra internazionale, oltre agli spazi dell’Arsenale, prosegue ai Giardini, e si caratterizza per un allestimento di ampio respiro, che permette di apprezzare le opere – molte delle quali di grande formato -, senza che queste siano soffocate da quelle adiacenti. Ma la vera novità risiede nell’impostazione per sezioni, ognuna delle quali dedicata a una tematica culturale e antropologica, che a sua volta rimanda alle radici dell’umanità, all’idea arcaica di arte come forma di rappresentazione della realtà mediata dall’idea.
Macel rinuncia all’idea di un’unica grande mostra, per dedicarsi a nove piccole esposizione, che però un andamento narrativo compone in un mosaico ci grande fascino. Non c’è un ordine, né una cronologia, come accade per il ciclo di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto; e ricerca è anche quella di Viva Arte Viva, che si spinge sul filo della memoria per recuperare l’essenza autentica della creatività, creatività che non può essere avulsa dall’ambiente circostante, inteso come pianeta Terra, come paesaggio naturale, come risorse a disposizione, come aria acqua terra fuoco della filosofia di Anassimene di Mileto. Come Rem Kolhaas nel 2014 indagò i fondamenti dell’architettura, così Macel indaga i fondamenti dell’arte, spingendosi anche a considerazioni di carattere antropologico, poiché al fondo di questa intelligente esposizione giace l’idea dell’arte come avanguardia della conoscenza, di arte come sensibilità per nuovi sentieri. Gioie, paure, i colori, la natura, i riti sciamanici e dionisiaci, le tradizioni, la parola scritta, il tempo, lo spazio comune inteso come “polis” dell’umanità. L’artista è immerso in quest’universo, lo osserva e poi lo rielabora nell’intimità del suo atelier, luogo di creazione, certo, ma anche di studio. La mostra si apre con una riflessione sul rapporto fra arte, la conoscenza, e il luogo in cui questa viene elaborata dagli artisti; l’atelier diventa un luogo cruciale, dove tutto nasce, sorta di Pangea primigenia delle idee, che il processo creativo sbroglia e rende concrete. L’americana Dawn Kasper (1977) ha ricreato a Venezia il suo ambiente di lavoro, a metà fra un ufficio e un atelier: The Sun, the Moon and the Stars è un’istallazione dinamica, al cui interno l’artista dialoga con il pubblico, si mostra a lavoro, circondata da una miriade di oggetti come costumi, dischi, strumenti musicali; l’ambiente creativo al massimo del suo “caos”, così come nelle stampe della serie Behold Man!, in cui l’americana Frances Stark (1967) con uno stile che guarda al fumetto, colpisce il pubblico con una sottile riflessione sulla società di massa e l’identità di genere. Due donne, Kasper e Stark, che interpretano con determinazione il loro ruolo di artiste.
Accanto a questi approcci radicali, che letteralmente si gettano nel vissuto quotidiano, la sezione introduttiva propone anche riflessioni più “classiche”, legate all’elaborazione della conoscenza attraverso il libro d’artista, non solo esercizio di stile ma anche strumento critico: come emerge dal lavoro di Katherine Nuñez (1992) e Issay Rodriguez, artiste filippine che con l’istallazione In between the lines, rielaborano i manuali d’apprendimento scolastico giudicati eccessivamente nozionistici e impostati a una logica d’istruzione funzionale solo al mercato del lavoro; con i loro libri in tessuto con applicazioni di ricami, le artiste invitano a “manipolare il testo”, a leggere “fra le righe”, come da titolo, utilizzando il proprio senso critico, senza limitarsi alla pura nozione. Un’istallazione che dimostra l’importanza dell’artista nella società, e la presenza dell’arte come strumento vivo di decodificazione della realtà.
Realtà che presenta problematiche di ogni tipo, che l’individuo affronta in primo luogo a livello emotivo, e non di rado emergono le sue fragilità. La paura e la gioia, ai poli opposti delle sensazioni, dominano quest’epoca caotica e contraddittoria; dall’inquietante ambiguità dipinta da Firenze Lai (1984), con le sue figure femminili sospese in paesaggi angoscianti di cui si percepisce l’assordante silenzio, all’elegante cortometraggio realizzato da Rachel Rose (1986), legato al mondo naturale riletto in chiave onirica, un po’ alla maniera di Lewis Carroll. Un’avventura di esplorazione di un paesaggio in continua trasformazione, come di fatto è questa realtà.
Spingendosi ancora oltre, Christine Macel è riuscita nell’impresa di allestire una mostra che considera la portata storico-civile dell’arte e degli artisti, legandola alle questioni ambientali, all’idea dello spazio comune da tutelare, amare, osservare, vivere e condividere; l’idea di comunità, dialogo, conoscenza, si sovrappone a quella della necessaria sensibilità verso il Pianeta, le cui risorse non sono illimitate. Terra-Madre che trova nel Padiglione Dionisiaco una sua iconografia, celebrativa e interpretativa del corpo femminile: il senso metaforico è profondo, si tratta di un Padiglione da osservare con rispetto, dove emerge la natura più vera dell’arte, che è femmina nell’audacia con cui si guarda intorno, nella spinta generatrice di nuove prospettive.
Dalla qualità delle opere, ma anche dall’allestimento (che a tratti suggerisce un organismo pulsante), si percepisce l’idea dell’arte che respira in sintonia con la Terra, in quanto modalità espressiva che traduce in immagini la bellezza della natura e della civiltà, che appunto dalla Terra traggono origine. Una mostra esistenzialista, che pone l’accento sul ruolo e le responsabilità dell’individuo-artista, sulla necessità di trarre dalla propria interiorità gli slanci e le riflessioni necessarie a creare e tramandare l’arte e la cultura, e quindi il progresso. A ciò si aggiunge il taglio umanistico, che guarda all’artista come al protagonista di un percorso creativo, certamente, ma che ha poi riflessi sociali e politici. Un po’ sulla scia della Biennale d’Architettura del 2016 curata da Alejandro Aravena, che ebbe il merito di proporre quell’architettura sociale pensata nel reale interesse della civiltà; anche Christine Macel si è lasciata alle spalle la logica dell’elite e del mercato, per lasciare spazio a un’arte capace di parlare all’individuo comune, che ne affronta le problematiche, ne condivide entusiasmo e timori.
E molto probabilmente non è una coincidenza che la maggior parte degli artisti, quest’anno siano donne; non si tratta di “favoritismi di genere”, come potrebbe sembrare, ma dell’unica direzione da prendere per allestire questa mostra, le cui tematiche trovano nelle donne un più radicato accoglimento, dovuto a questioni di maggior sensibilità e coscienza civile. In quest’ottica, la mostra ha anche il pregio di allargare l’ottica della sensibilizzazione circa il ruolo della donna, in un’epoca in cui la violenza di genere ha purtroppo assunte le proporzioni di un’emergenza sociale.
Per tutte queste ragioni, siamo di fronte a una mostra che arricchisce, che fornisce spunti critici per profonde riflessioni di carattere estetico e civile, e che, in ultima analisi, riuscendo a riscoprire la bellezza del mondo che le troppe tragiche vicende quotidiane fanno dimenticare, riconcilia con l’esistenza.
GUIDA COMPLETA DI ARTSLIFE SULLA 57a BIENNALE: http://www.artslife.com/2017/05/08/biennale-di-venezia-2017-57-edizione-guida-completa/
3 Commenti
BIENNALE 2017
ANCHE SENZA ESSERE PRESENTI fisicamente a Venezia si rimane storditi solo dalle recensioni, difficile individuare una linea di ricerca, piuttosto ci sommerge una deriva che si porta avanti di Biennale in Biennale dove la novità di questa fogna di opere, é la costante assenza di sintesi creativa, di singolarità creativa, infatti titolerei la prossima edizione:
IL CAPOLAVORO ASSENTE.
Da quel che vedo é come un gigantesco eco di Hirst, una grottesca testimonianza di un presente folle e totalmente pazzo. Se raccontare l’assenza del Capolavoro era l’obiettivo della Macel, allora ci é riuscita perfettamente.
Stefano Armellin 13/05/2017
Prima di fare commenti acidi e non basati su evidenze, io andrei a vedere la mostra.
Mi sembrerebbe il minimo prima di esprimersi!!!!
Gentile sig. Armellin, siamo nel 21° secolo, catalogare l’arte secondo i parametri da lei esposti è impossibile; le consiglierei di visitare l’esposizione e di lasciarsi fagocitare in modo “vivo” dall’arte “viva” contemporanea, frutto di innumerevoli contraddizioni.
Un ulteriore banale suggerimento: la parola ECO è di genere femminile, non maschile.
Cordialità