Fra realtà e immaginazione, queste architetture dipinte indagano la relazione fra cultura, potere e utopia. Fino al 29 luglio 2017, presso Ca’ Foscari Esposizioni, Dorsoduro 3246 In collaborazione con il Museo dell’Impressionismo Russo di Mosca.
Venezia. Pensare e costruire utopie è stato, ed è, un modo per spostare in avanti l’asticella del progresso civile, per dar sfogo all’anelito dell’uomo di lasciare tracce eterne del suo passaggio sulla Terra, nella convinzione, non sempre fondata, di lavorare nell’interesse della collettività; inseguendo utopie, in particolare nel Novecento, si sono salvate vite e commessi orrendi crimini, toccando l’Alfa e l’Omega della coscienza umana. Nato suo malgrado in seno al grande sogno del Socialismo Reale, il pittore russo Valery Koshlyakov (Sal’sk, 1962), ha vissuto in prima persona le prevaricazioni che da esso sono scaturite, e dalla constatazione di questo fallimento, sancito nell’agosto del 1991, ha sviluppata una riflessione pittorica sul concetto di utopia, paragonabile a un’architettura del pensiero su larga scala. Cui però si è sempre voluto far corrispondere un corrispettivo materiale, fisico; non casualmente l’architettura propriamente intesa è sempre stata il mezzo privilegiato per esprimere sul territorio la presenza, più o meno ingombrante, di quella forma di potere che sempre si è rivelata essere dietro l’utopia: ed ecco nascere nel corso dei secoli palazzi e monumenti, simboli celebrativi di un’idea, costruiti nei materiali più disparati, marmo, pietra, cemento, tutti tesi all’illusione dell’eternità. L’indagine di Koshlyakov ha quindi un carattere storico, con frequenti riferimenti alla romanità classica, i cui monumenti sono ancora oggi impressionanti simboli di potere.
Ma la natura umana è caduca, niente e nessuno può sfuggire all’azione inesorabile del tempo, a quel lento ma costante logorio cui lavorano forze invisibili, che si rivela una sottile beffa alle illusioni, spesso folli, dell’uomo.
Attraverso uno stile neo-impressionista, percorre la china dei millenni e fissa sulla tavola o sul cartone l’aspetto più scomodo, controverso, ma anche poetico, dell’utopia, ovvero la sua fragilità. La sua è una ricerca sentimentale e filosofica, che prende le mosse da quel “culto delle rovine” che fu un caposaldo dell’arte fra il Settecento e il primo Novecento, con lo sviluppo del vedutismo italiano prima, e la fascinazione romantica e simbolista poi.
Valery Koshlyakov. Non smettiamo di costruire l’Utopia, curata da Danilo Eccher, è un inno alla bellezza dell’arte e dell’architettura, alla loro capacità di suscitare grandi sogni e sostenere ideali, nel bene e nel male; l’artista immagina edifici che sgorgano dal paesaggio come lava dalla Terra preistorica, manifestazioni vive della presenza dell’uomo e della civiltà. Ruderi, macerie, archi, mura, portoni e finestre, statue, alberi scarni si piani sfalsati, cumuli di rifiuti, edifici alternati a tramonti e frammenti di cielo, con la loro imponenza e la presenza quasi ossessiva, sono richiami alle città interiori, sono l’idea di una civiltà che ha cercata la sua celebrazione sulla Terra, che ha voluto lasciare un segno. Una pittura evocativa, calda come pioggia d’estate, dalle intense sfumature vicine all’Impressionismo e a Turner, che restituiscono grandiose atmosfere di attesa, di sospensione fra passato e presente, un’inquietante calma prima della tempesta, della catarsi che lascerà dietro di sé solo rovine da cui ripartire e ricostruire nuove città, nuove utopie.
Perché l’utopia, in generale, è quanto di più nobile e coraggioso il pensiero possa elaborare, è l’ultima rottura degli schemi per andare veramente oltre e aprire nuove strade all’umanità. La lettura di Koshlyakov non è soltanto politica, ma ha anche uno sviluppo sociale: sotto quei palazzi giganteschi ma putrescenti, si avverte la presenza, a volte tragica e dolorosa, di tutti coloro che nell’utopia hanno creduto, che per essa sono caduti, e che certe volte da essa sono stati traditi o oppressi: una pittura che possiede, oltre alla carica metaforica, anche una profonda carica umana. Che emerge con particolare efficacia nelle opere dedicate alla città di Venezia, condannata a una fragilità tanto inesorabile quanto poetica; Venezia costruita sulla Laguna, sottoposta allo sprofondamento, all’azione corrosiva del vento salmastro, ma compiuta realizzazione di un’utopia, quella della libertà inseguita dagli antichi abitanti della pianura veneta minacciati dalle orde di Attila. Da quei primi insediamenti su isolotti e palafitte, nei secoli nacque un potente Stato marinaro. Nacque dall’opera colossale di migliaia di uomini, continuata nel tempo, lottando contro le insidie degli uomini e della natura.
La poetica pittorica di Koshlyakov fa dell’architettura una chiave di lettura dell’umanità, capace di grandi sogni e altrettanto gradi nefandezze, di adorare e insieme umiliare la natura, semplicemente nella speranza che nei secoli si mantenga memoria del presente. Perché l’oblio, ben più della morte, è ancora lo spettro più temuto di una società che non ha mai smesso di essere narcisista.
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