The square, al cinema dal 9 novembre. La recensione. Fidarsi o non fidarsi di Cannes?
Quali sono i fattori che ci condizionano nel decidere se fidarci di una persona o meno? The square, film premiato con l’ambitissima Palma d’oro a Cannes, nelle intenzioni del regista Ruben Östlund non parla che di questo, anche se attraverso i registri e gli spunti narrativi più vari. Tutto ruota intorno a Christian (Claes Bang), apprezzato curatore di un importante museo d’arte contemporanea in Svezia. Sua è l’idea dell’installazione che darà il nome alla pellicola: “il quadrato è un santuario di fiducia e amore, entro i cui confini tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri”. Chi si posiziona al suo interno è, dunque, costretto ad aiutare chi si trova in difficoltà qualunque sia la sua richiesta. Christian crede davvero nella bontà del suo progetto che, però, agli occhi degli esperti di comunicazione non è abbastanza forte da suscitare la giusta attenzione: serve qualcosa di sorprendente, incendiario, travolgente. Esattamente ciò che accade al protagonista in pochissimi giorni: l’esser vittima di un banale furto di telefonino lo scaglia rapidamente da una vicenda kafkiana all’altra in un crescendo surreale che metterà in crisi la sua professione e il suo rapporto con gli altri, estendendosi agli affetti più cari fino a farlo dubitare di se stesso.
Nel denunciare i tanti mali dell’epoca contemporanea – la ricerca del sensazionalismo a tutti i costi, un’arte vuota di contenuti che riflette l’ego degli addetti ai lavori, l’esercizio del potere a fini coercitivi, la crescente diffidenza per chi è diverso, la tendenza a utilizzare gli ultimi come comodo capro espiatorio invece di affaticarsi a indagare le cause prime di tante emergenze economiche e sociali – The square si rivela molto furbo: le vicende di cui Christian è oggetto si complicano sempre di più mentre i toni con cui esporle si accavallano intelligentemente. Si va, così, dalla feroce ironia all’enigmaticità da thriller psicologico passando per l’indagine disincantata dei rapporti di forza uomo/donna. Eccellente l’intero cast, tra cui figurano – oltre il già citato Claes Bang – Elisabeth Moss nel ruolo di Anne, una rampante giornalista che gioca ottimamente le sue carte da finta ingenua, Dominic West nei panni di Julian, un imperturbabile artista quotato quanto il suo cinismo, Terry Notary che darà corpo e grugniti a Oleg, un attore assunto per intrattenere gli ospiti di una cena di gala attraverso un esperimento darwiniano che spingerà oltre il limite.
Eppure, nonostante ciò e l’indubbio pregio di una regia accattivante nel suo essere realistica, il film alla lunga finisce per somigliare a quelle opere d’arte che critica. Di conseguenza si potrebbero rivolgergli accuse dello stesso tenore: prende in prestito il tema della fiducia per dare un fondo inattaccabile alla storia, qualunque sia l’evoluzione della vicenda iniziale; introduce nella trama lo scontro di classe altalenando il giudizio di Christian circa coloro che vivono ai margini così da renderlo meno stereotipato; tenta di mantenere vivo l’interesse di chi guarda – impresa ardua dopo i primi 100 minuti – con tante trovate che vorrebbero essere significative ma paiono avere come unico obiettivo la controversia, una tra tutte la sequenza violentemente gratuita di Oleg; si conclude con un finale ostinatamente inquietante, quando ormai il gioco si è fatto chiarissimo e sulla piazza non c’è altro da rilanciare. The square, a guardarlo bene, pare soffrire della stessa malattia di cui si lamenta: il trionfo a Cannes ne è un ulteriore sintomo.