Le nuove generazioni di artisti italiani faticano ad imporsi sulla scena internazionale. L’unico connazionale invitato alla Biennale di Sydney sarà un maestro ormai storicizzato come Luciano Fabro
Da tempo il mondo si è costellato di eventi temporanei ricorrenti dedicati all’arte contemporanea, un profluvio incontrollato che ha fatto poi nascere il neologismo della “biennalite”. I progetti più disparati, spesso dalle qualità e dalle caratteristiche organizzative discutibili, collocate ai quattro angoli del globo: con i paesi cosiddetti emergenti pronti a gareggiare anche su questo piano con le realtà storicamente più attrezzate, immettendo nel sistema energie nuove e temperie creative altrimenti poco conosciute. Fatto sta che non passa settimana in cui non giunga notizia della nuova edizione di una biennale, più o meno prestigiosa, più o meno affermata: e succede puntualmente che si butti un occhio agli artisti invitati, per restare aggiornati sulle dinamiche globali e anche – inutile negarlo – per capire se l’arte italiana trova riscontri oltre i confini nazionali, e in che termini.
Puntualmente, salvo rarissime eccezioni, queste ultime aspettative sono destinate a restare deluse: mentre si assiste all’affermarsi sul piano internazionale di artisti rappresentanti delle summenzionate “nuove” realtà, il sistema dell’arte italiana – storicamente primeggiante sulla scena internazionale – sembra ormai scomparso dal panorama globale. Emergono pochi talenti portatori di novità e di forza espressiva, ma soprattutto è il sistema che non riesce a sostenerli, a promuoverli e ad imporli al di là dei confini. Limiti prima di tutto politici e amministrativi – accademie, musei, programmi di formazione – che poi producono un sistema chiuso e autoreferenziale.
Lo scenario si ripete in questi giorni, quando giunge l’elenco dei 71 artisti invitati dal curatore Mami Kataoka, del giapponese Mori Art Museum, per la ventunesima edizione della Biennale di Sydney, ormai ammessa al novero delle più prestigiose sul piano internazionale, che con il titolo Superposition: Equilibrium & Engagement aprirà al pubblico dal 16 marzo all’11 giugno prossimi in 18 luoghi, tra cui la Sydney Opera House e il Museum of Contemporary Art Australia. La lista è ricca di nomi importanti, da Eija-Liisa Ahtila all’immancabile Ai Weiwei, Laurent Grasso, Suzanne Lacy, Ciara Phillips, Yukinori Yanagi, Haegue Yang, ma anche più giovani ma già con esperienze internazionali come Michaël Borremans, Abraham Cruzvillegas, Ryan Gander o Samson Young.
In questo caso – quasi a smentire le considerazioni appena proposte – c’è anche un artista italiano: eppure il nome scovato nell’elenco forse aggrava le conclusioni a cui eravamo giunti, circa la crisi del nostro sistema e al sua incapacità di sostenere i nostri talenti sulla scena globale. Si tratta infatti di Luciano Fabro: un gigante – è bene chiarirlo, per non essere fraintesi – di cui riconosciamo il valore che ormai lo ha consegnato alla storia dell’arte, un artista che chiunque sarebbe felice di vedere omaggiato nelle sedi più prestigiose. Però parliamo di un artista nato nel 1934 e scomparso nel 2007. Allora la riflessione si sposta su un altro piano: è possibile che dopo Fabro – e dopo i suoi compagni di avventura nell’Arte Povera, l’ultima situazione artistica nazionale di grande impatto mondiale – la scena italiana non abbia prodotto artisti meritevoli di essere invitati a Sidney? Dopo Cattelan e Beecroft, ancora ben presenti anche se oggettivamente “stanchi”, il vuoto? Perché i ventenni, i trentenni e i quarantenni che immettono energie fresche, ricerche nuove e fattispecie inedite su una scena in continuo divenire vengono – per esempio – da Vietnam, Costa d’Avorio, Thailandia, Venezuela, e non più dall’Italia?
https://www.biennaleofsydney.com.au/