Da Lenin a Stalin, mezzo secolo di arte di propaganda in Unione Sovietica.
Nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, la Tate Modern racconta, attraverso una selezione di opere della David Kig Collection, la commistione fra arte e politica. Come la propaganda servì la causa rivoluzionaria e come, nei decenni successivi, contribuì a creare la mitologia del potere. Fino al 18 febbraio 2018.
Londra. Costruire una nuova civiltà, aprire la strada a un’era sociale che cancellasse le ingiustizie di classe. Con questo nobile fine, Carl Marx e Friedrich Engels elaborarono nel 1848 quel manifesto comunista che avrebbe dovuto portare l’umanità all’uguaglianza e alla scomparsa delle sperequazioni sociali.
Ispirandosi Red Star Over China, titolo del libro di Edgar Snow sull’epopea maoista in Cina, dieci anni fa David King ha ricostruita la vicenda del comunismo in Unione Sovietica, dai motivi rivoluzionari del primo Novecento, alla Rivoluzione d’Ottobre, passando per gli anni al potere, fino alla vigilia della destalinizzazione.
>> Red Star Over Russia: A Revolution in Visual Culture 1905-55 racconta attraverso l’arte di propaganda le fasi dell’avvento del socialismo in Russia, e come le diverse esigenze del potere abbiano rimodellata la propaganda nel corse degli anni.
La mostra racconta il 1917 partendo dal cruciale 1905, anno del fallimento della possibile riforma del governo zarista. Ritirando la Duma precedentemente concessa, e avendo ordinato (o, secondo altre versioni, non avendo saputo impedire) il massacro della “Domenica di Sangue”, Nicola II Romanov si alienò in maniera irreparabile anche l’ala moderata della dissidenza. Da questo momento, il ruolo della propaganda fu cruciale nel preparare la futura rivoluzione; l’attività si fece più intensa, determinata a sfruttare a proprio vantaggio il dilagante malcontento suscitato dalla pessima decisione dello Zar.
Il cruciale periodo 1905-17 viene ricostruito attraverso documenti d’epoca, come i ritratti fotografici dei sovrani Nicola Romanov e Alessandra d’Assia, o altre fotografie dell’epoca che mostrano, ad esempio, reparti dell’esercito inneggiare alla caduta dello Zar.
I manifesti di propaganda dell’epoca non hanno ancora un carattere strettamente partitico, bensì di accusa al governo zarista delle misere condizioni in cui versava il popolo russo. Fu soltanto nel 1916, con l’indebolimento politico dovuto alla Grande Guerra, che la propaganda socialista assunse un carattere più marcato, anche grazie all’emergere della figura di Lenin.
L’opera di propaganda si svolgeva attivamente anche nelle altre regioni dell’Impero Zarista, come testimoniano i manifesti in lingua araba destinati alle popolazioni musulmane dell’Asia Centrale, come turkmeni, tagiki, uzbeki. In queste regioni si combatteva una doppia battaglia: contro i vari emiri vassalli dello Zar, e contro la forte presenza dell’Islam che, più del cattolicesimo in Russia, condizionava la vita quotidiana; a tal proposito, emblematico il manifesto di Adolf Strakhov che inneggia alla parità di genere fra uomo e donna e mette al bando il velo islamico. Da questo punto di vista, almeno per le popolazioni musulmane, il socialismo rappresentò l’ingresso nella modernità civile europea.
>> Rovesciato lo Zar, seguì il difficile periodo della guerra civile, fra il 1919 e il 1922, con molte regioni ex zariste che mal tolleravano l’egemonia socialista. Per questa ragione era necessario lanciare un messaggio di concordia e di unità in nome del socialismo, ovviamente con i russi capofila.
È quanto appare dal murale del 1926 di Stepan Karpov, che con logoro e patetico stile realista raffigura i vari popoli dell’Unione in marcia per il progresso civile. Come si vede, anche dopo il 1917, la propaganda non perse d’importanza, perché la rivoluzione avrebbe dovuto essere “permanente”, nel senso che il popolo è quotidianamente mobilitato affinché le conquiste sociali non vadano perse.
Già nell’iconografia della propaganda rivoluzionaria, si scorge quel grigiore monotono che caratterizza tutti i regimi, dove l’obbedienza cieca alla dottrina è l’unico obiettivo del potere, e pertanto qualsiasi forma estetica non sufficientemente martellante viene giudicata inutile, anzi frivola e “borghese”.
Quando fu chiaro che in Unione Sovietica il potere era ormai concentrato nelle mani del solo Stalin, che aveva reso il comitato centrale del PCUS un mero organo esecutivo dei suoi voleri, la propaganda non ebbe più soltanto un carattere dottrinario, ma si era dovuta allargare alla celebrazione della figura del “grande conduttore di popoli”, il quale aveva da subito cominciata un’opera di organizzazione del popolo che pochi anni dopo si sarebbe vista anche nella Germania di Hitler.
Anche iconograficamente, si doveva ribadire l’idea che Stalin fosse il vero erede di Marx, Engels e Lenin, e a tal proposito Gustav Klutsis realizzò una litografia dal potente impatto visivo, che ritrae il dittatore georgiano a fianco degli altri tre.
Un’opera di chiara propaganda, che ricorda nei meccanismi La Pietà di Luco (1524) di Andrea del Sarto, un dipinto che coniuga l’esigenza artistica a quella della committenza religiosa: esprime infatti il mistero della transustanziazione, illustrando la reale presenza del corpo e del sangue di cristo nell’ostia consacrata e ribadendo il diritto/dovere della Chiesa Romana di rievocare il miracolo nell’occasione delle funzioni religiose, smentendo Lutero che ne faceva soltanto un fatto simbolico e spirituale; con la stessa potenza visiva, Stalin collocato a fianco di Marx, Engels e Lenin, viene assurto “dogmaticamente” al rango di legittimo erede, custode della verità della dottrina marxista, e pertanto unico statista in grado di guidare le masse.
Se la religione è l’oppio dei popoli, bisogna però riconoscere che anche la dottrina social-comunista seguiva le medesime orme.
In un sistema politico di stampo personalistico, una propaganda ben organizzata si rendeva quanto mai necessaria, e i comitati dell’Agitprop erano costantemente attivi fra le masse popolari per tenere vivi i valori del socialismo attraverso i quali esaltare la figura di Stalin, o creare un’adeguata mitologia laica che creasse l’impressione della fierezza del popolo lavoratore.
Quelle proporzioni monumentali prestate a operai e contadini ritratti, ad esempio, da Aleksandr Deineka impersonano la nuova “aristocrazia socialista”, e celebrando il loro lavoro, il regime li fa sentire parte integrante della grande famiglia socialista.
>> Ma la realtà era ben diversa, e la grande maggioranza dei comuni cittadini sovietici, era ben lontana dal possedere la fierezza e la floridezza fisica di quelle figure dipinte o scolpite. Un’iconografia solenne, ma dal tratto spigoloso, come se dalle litografie, dai murales, si muovessero non esseri umani ma altrettanti monumenti in bronzo.
E quell’aria fiera, le espressioni determinate e sorridenti, contrastano violentemente con quella che era invece l’aria dei comuni cittadini sovietici, malvestiti, abbrutiti dal grigiore quotidiano di case fatiscenti e quartieri maltenuti, sfibrati dalle estenuanti code in negozi mai sufficientemente riforniti; un tenore di vita assai basso, non dissimile da quello dei tempi dello Zar, unito al terrore della repressione stalinista, aveva in gran parte spenti l’entusiasmo e la fede nell’ideale di Engels e Marx.
La mostra documenta anche l’indiscutibile contributo che l’Armata Rossa ha portato agli Alleati nel combattere e nello sconfiggere la Germania nazista. Una vittoria militare che, se da una parte aveva liberata l’Europa da un incubo, dall’altra avrebbe comunque potuto essere utile anche per la propaganda, rafforzando l’immagine del comunismo nel mondo.
E poiché la propaganda è più efficace per immagini che per proclami, Yevgeny Khaldei, giornalista al seguito dell’Armata Rossa, pensò bene di organizzare un set fotografico di sicuro impatto: nacque così, il 2 maggio 1945, la famosa serie d’immagini con il soldato che fa garrire la bandiera sovietica sul tetto del Reichstag.
Ma per offrire al mondo un’adeguata immagine dei liberatori, l’ufficio censura del Cremlino ritoccò la fotografia in modo da cancellare il dettaglio dei numerosi orologi allacciati al polso di uno dei soldati, prova evidente che il medesimo aveva preso parte a un saccheggio. Un episodio che non avrebbe certamente reso onore all’immagine dell’Unione Sovietica.
Infine, con encomiabile (ma non scontata) obiettività storica e onestà intellettuale, la Tate dedica una sezione della mostra alla memoria delle vittime del terrore stalinista, milioni di donne e uomini assassinati a sangue freddo o uccisi lentamente nei gulag; tornano così alla luce storie personali di tante vittime sconosciute, figure sino ad oggi cancellate dalla storia. Fra le vittime, anche l’artista Gustav Klutsis, le cui opere continuarono a ornare le piazze delle città sovietiche per molto tempo dopo la sua esecuzione, ordinata da Stalin nel 1938. Anche servire la causa, poteva non essere sufficiente per evitare di cadere in disgrazia.
Red Star Over Russia è una mostra non soltanto artistica, ma anche dal sottile carattere politico e antropologico, che analizza il ruolo dell’arte in contesti delicati come la propaganda di regime, dove l’arte cessa di essere tale per divenire strumento del potere.