Ne è stata fatta di strada da quando Tennis for Two (1958) e Spacewar! (1962) sono comparsi per la prima volta cambiando per sempre il mondo. È una storia recente, quella del videogioco, ricca di curiosità e di invenzioni rivoluzionarie. Ogni generazione guarda con nostalgia i videogame che hanno segnato la propria adolescenza: il Commodore 64, i Game Boy, la Playstation…ricordi che passano da genitore a figlio diventando occasioni di condivisione e di incontro.
Il videogioco ha segnato un’epoca non solo come prodotto di consumo di massa, ma anche come medium culturale. In Italia la nuova legge sul cinema e l’audiovisivo (Legge 14 novembre 2016, n. 220) ha riconosciuto la portata culturale e artistica del videogioco, tutelabile dal diritto d’autore se risponde al requisito di creatività. Il medium videoludico ha una carta in più dalla sua parte: l’interattività, una caratteristica che rende il videogioco unico nel suo genere.
Se riflettiamo sul mondo che gravita attorno alla creazione di un videogioco, capiamo quanto sia un’opera complessa. Programmatori, game designer, sound designer, musicisti, sceneggiatori, artisti, sono solo alcune delle figure professionali e creative coinvolte nel processo. L’universo dei videogiochi è costellato da storie di personaggi geniali che meritano di essere tramandate così come le loro opere.
Ci sono realtà culturali che hanno abbracciato la storia del videogioco e hanno cercato di istituzionalizzarla. Musei del calibro del MoMa di New York che dal 2012, per volere della curatrice del dipartimento di design Paola Antonelli, ha aggiunto dei videogiochi alla collezione come opere di design. “Art of Video Games” è il titolo di una mostra itinerante negli Stati Uniti ospitata per primo dallo Smithsonian American Art Museum nel 2013. Accanto a questi mostri sacri ci sono musei specializzati in videogiochi come il Computerspielemuseum di Berlino o proprio qui, in Italia, il VIGAMUS – The Video Game Museum of Rome.
Il VIGAMUS ospita una mostra permanente “E.T. The fall: i tesori sepolcri di Atari” che racconta una storia degna di nota. Il colosso dei videogiochi Atari crolla nel 1983, la leggenda vuole che Atari, per liberarsi dei titoli invenduti senza costi di smantellamento, li scaricò illegalmente nel deserto del New Mexico. Realtà o finzione? Realtà! Nel 2013, nei pressi della città di Alamogordo, emersero dal deserto carichi di videogiochi e console tra cui le cartucce di E.T. per Atari 2600, simbolo del crollo del colosso. Gli scavi per portare alla luce i videogiochi furono condotti da un archeologo. Questa singolare storia di “archeologia dei videogame” è raccontata tra le pareti del museo romano dove, tra l’altro, è possibile giocare con alcuni videogiochi, cabinati e console.
Il videogioco non entra nei musei unicamente come oggetto di collezione, proprio in virtù della sua interattività sui generis è declinabile anche in altri ambiti museali. Il videogioco può comunicare un museo – vedasi il caso di “Father and Son” del MANN –, è una potente forza attrattiva in grado di catturare nuovi potenziali pubblici e, al tempo stesso, di coinvolgere il visitatore in una stimolante scoperta della collezione museale.
Il videogioco può anche essere sapientemente declinato nella didattica museale. Come? Una parola: Minecraft. Nato nel 2009, il videogioco conta oggi oltre 100 milioni di giocatori con una fetta di utenti significativa tra i 7 e i 17 anni d’età. Minecraft è un mondo virtuale dove dar sfogo alla creatività, armato di cubetti pixelati plasmi quel che ti pare. Non ci sono vincitori o vinti, al centro c’è l’esperienza, con risultati di ingegno straordinari. Minecraft non pone limiti all’inventiva: città e nazioni virtuali sono state costruite da zero. Matematica, geografia, geometria, scienze, arte sono solo alcune delle materie che possono avere una loro applicazione in questo gioco, tanto che Minecraft ha lanciato l’edizione speciale Educational rivolta alle scuole e agli insegnanti.
Queste potenzialità non sono sfuggite a musei all’avanguardia come la Tate di Londra che, per esempio, con il progetto Tate Worlds cerca di rendere l’arte partecipativa tramite la realizzazione di mappe create a partire dalle opere e dalle storie della collezione del museo. L’Auckland Museum in Nuova Zelanda ha usato Minecraft per ricostruire la battaglia di Gallipoli, avvenuta in Turchia durante la Prima Guerra Mondiale. Gli studenti dell’Alfriston College hanno collaborato con gli operatori museali per ricreare l’avvenimento e far comprendere il ruolo svolto dai soldati neozelandesi. Senza spingersi troppo in là sul mappamondo, anche in Italia ci sono esempi all’avanguardia. Al Museo del Novecento di Firenze i ragazzi delle scuole fiorentine hanno creato delle opere d’arte poi “esposte” negli spazi virtuali del museo, ricostruito dettagliatamente nel videogioco.
Giocare con i videogiochi in un museo non è più frutto d’immaginazione, è una realtà che si sta diffondendo. Se oltre a giocare, imparo pure nozioni di ingegneria, geografia, arte e scienza, scopro in modo divertente la collezione del museo e la sua storia ed esco con la voglia di tornare, direi di aver trovato un posto che risponde in toto ai tre scopi di un museo: studio, istruzione e diletto (articolo 2.1, ICOM).