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Chiude Cheap, il festival di street poster art più famoso d’Italia. Parla Sara Manfredi, cofondatrice

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Cheap, il festival di street poster art più famoso d’Italia, chiude i battenti: “Il contesto della Street Art? Saturo, normalizzante, disfunzionale”

Gli addii, si sa, sono sempre difficili. Specie se a dover essere salutato è Cheap, il più importante festival di Street Poster Art nato e cresciuto in Italia. E, a fine marzo, qui anche morto. A dare la notizia della chiusura della kermesse che da cinque anni a questa parte invade le strade della città di Bologna con carta, colla e potenti temi sulla società è stato il team di Cheap stesso in un comunicato stampa: qui, oltre a spiegarne le motivazioni, i fondatori del collettivo hanno annunciato che “votarci all’improbabile ci sembra il gesto più sensato da fare: da oggi, CHEAP si occupa di zebre”.

Non poteva che nascerne un’intervista semiseria, nella quale Sara Manfredi di Cheap ci racconta quanto fatto, cosa è accaduto per decidere di chiudere il festival e quali sono le prospettive del gruppo per il lavoro futuro.

Sara, come nasce la vostra passione per la carta?

Fondamentalmente, è colpa delle To/LeT: Sonia (Piedad Marinangeli) ed Elisa (Placucci) sono un duo artistico oltre che due delle founder di CHEAP. Hanno lavorato spesso con il paste up e tramite la loro esperienza abbiamo maturato un’attenzione particolare verso questa forma di intervento che in Italia non era particolarmente visibile o conosciuta. L’elemento carta ci è sembrato incarnare perfettamente il carattere effimero della Street Art che più ci interessava e ci interessa tuttora. Da qui la decisione di dedicarci alla Poster Art e sperimentarci a partire da un segmento molto specifico dell’arte urbana: in qualche modo abbiamo sposato una linea anti-monumentale, investendo su interventi che si sarebbero letteralmente “sciolti”, che non sarebbero durati, interventi che, al contrario, si sarebbero consumati.

Ci è sembrato anche un buon modo di stare in strada, dove comunque il destino di un pezzo è quello di durare limitatamente, perché sai che ti possono crossare, che tra smog e pioggia non hai riparo, che il muro può essere ridipinto o abbattuto – é nell’ordine naturale della strada. Nel tempo, credo sia diventato anche un approccio sano al nostro stesso lavoro, all’identità del nostro progetto: non pensarsi come qualcosa che tende alla durata aiuta a smitizzarsi, così come scegliere di chiamarsi CHEAP è una prima forma di autoironia che funziona come memo al non prendersi troppo sul serio, a ridimensionarsi.

E così quanti festival avete realizzato?

Abbiamo fatto 5 edizioni del festival in 5 anni. Questo seguiva un format che vedeva due aree principali: l’intervento di alcuni guest artist e la Call for Artist, a cui poi si aggiungevano eventi, party, presentazioni di progetti, approfondimenti, lancio di libri, proiezioni di documentari. I guest artist venivano selezionati da CHEAP per la realizzazione di lavori site specific, modulati sul paesaggio urbano e periferico di Bologna.

La Call for Artist era – e resta, perché continueremo ad organizzarla – lo spazio partecipativo che rappresenta il vero core del progetto: è il tentativo di sostenere una narrazione collettiva nello spazio pubblico, indirizzata non solo a street artist ma anche a chi si occupa di grafica, fotografia, illustrazione ed arte visiva in generale. È poi internazionale: negli anni sono arrivati poster da Paesi di cui ignoravo l’esistenza.

Che temi avete scelto per ciascuna edizione?

La sezione del festival di cui ho appena parlato è stata tematica a partire dal 2014: green come sostenibilità ambientale, il conflitto tra pieno e vuoto, il senso del limite, il disordine, sono stati i temi su cui abbiamo chiesto ai partecipanti di esprimersi visivamente, con dei lavori che, se selezionati, sono stati stampati nel formato poster 70×100 cm ed installati su un circuito di bacheche del centro storico. La call prosegue anche nel 2018, il tema scelto è la relazione tra frammento e unità. Tutte le informazioni si trovano sul nostro sito.

Te la sentiresti di spiegarmi in maniera un po’ più approfondita le motivazioni che vi hanno portato ad abbandonare il format?

Ci sono più fattori che hanno influito su questa decisione. Partiamo da un dato di fatto: c’è una certa saturazione. E non parlo solo dell’ambiente, non mi riferisco solo alla quantità di festival che ci sono, non penso solo alla proliferazione di attività etichettate come “Street Art”: la sensazione è che, in alcuni casi, anche il paesaggio urbano si stia saturando.

C’è poi la questione della Street Art come gesto imprescindibilmente legato alla “riqualificazione” di un quartiere o un’area in cui, a vari livelli e da vari attori, viene identificato del “degrado” che va recuperato e riconsegnato al “decoro”: ancora non mi capacito del fatto che tutte queste categorie siano entrate nella stessa narrazione del Writing, del paste up, delle mille correnti e tecniche di quella che viene identificata più o meno come Street Art. Ci è venuto il dubbio che qualcosa in questa narrazione non tornasse. Così come non ci torna il tentativo di normalizzare questa esperienza, di transennarla con i permessi per i muri, di usare il bastone delle denunce e la carota del contemporaneo, di ridurla ai disegnini carini sui muri snaturandone l’eccedenza.

In un contesto del genere – saturo, normalizzante, disfunzionale – c’è il rischio di perdere la lucidità, anche su di sé, sul proprio ruolo, sugli esiti del proprio progetto. Da qui, la decisione di fare un passo indietro rispetto al festival che, se da una parte ne esce ghigliottinato, dall’altra mi va di pensare che ne esca anche preservato. Il festival è un’esperienza che rivendichiamo ma che dichiariamo conclusa.

Tuttavia, Cheap non muore: cosa continuerete a fare e quali sono i vostri progetti futuri?

La Call for Artist annuale continua. Così come continueranno alcune delle nostre sane inquietudini: la permanenza ha importanza? Può tutta l’arte essere pubblica? A partire da qui, continueremo la nostra esplorazione del paesaggio urbano, dello spazio pubblico, dandoci la possibilità di decidere interventi fulminei o il tempo di concepire progetti alla infinit gest. O concedendoci il privilegio di un’assenza non priva di significato.

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