Opere prime, precoci, primordiali. Opere cardine che segnano un passaggio, un decennio, un’epoca: gli anni sessanta-settanta. Opere chiave per un cambiamento di paradigma poetico, artistico, stilistico degli (otto) artisti in questione: Vito Acconci, Vincenzo Agnetti, Peter Hutchinson, Duane Michals, Dennis Oppenheim, Gina Pane, Mario Schifano, Aldo Tagliaferro. Opere (dieci) che compongono una sorta di racconto autobiografico tradotto in una sequenza fotografica di momenti, ricordi, pensieri tradotti e astratti in una grande composizione-esposizione: Photosequences di Daniela Palazzoli -curatrice e più, narratrice- alla Osart Gallery di Milano, fino al 26 maggio. Opere uniche che illustrano uno spaccato di quel periodo storico intimamente vissuto da Daniela Palazzoli in prima persona. Opere che rendono il “sapore” di quel decennio cruciale attraverso il corpo e gli occhi di artisti che hanno lavorato sulla fotografia. Un dialogo perpetuo, e a tratti carnale, col mezzo fotografico, analizzato in funzione del concetto di sequenza. Una mostra fotografica quindi, ma non di fotografi (a parte Michals in mostra col “Ritratto di Bill Brandt” del 1973, sfaccettato in nove sequenze, a 360 gradi, scultoreo). Di artisti a tutto tondo che trattano un concetto a tutto tondo (come il ritratto di Michals per non andare lontano): la fotosequenza, appunto. Nella quale è sottesa una storia, un racconto. Una narrazione di se stessi, della realtà esterna e del proprio corpo, che anche quando fisicamente non compare presenzia come assenza, un’ombra. Dialettica dell’io e dell’altro. Lo stesso raffronto compiuto da Daniela Palazzoli per dare vita a questa mostra.
Cominciamo dal concetto di base della mostra: la sequenza, la fotografia. La fotosequenza.
La sequenza è proprio l’idea di fondo della mostra. Non a caso l’esposizione si intitola Photosequences. Sequenza che permette di costruire una ricchezza di idee e situazioni di svolgimenti, e che non nasce -come facilmente si potrebbe pensare- con la fotografia. Si tratta infatti di una struttura antichissima: un modo di mettere insieme concetti che divenivano frasi, in modo da costruire percorsi comprensibili alla gente di ogni tempo. Nel corso dei secoli la “sequenza” si è mano a mano evoluta aggiungendo e ampliando i suoi campi. La fotografia se ne è impadronita a modo suo in maniera differente da come era sempre stata utilizzata, contribuendo così ad arricchire l’idea di arte: attraverso la sequenza le fotografie si costruiscono attorno a un’idea e possiedono quella caratteristica che non è solo della pittura ma che è dell’arte in generale. Arricchire visivamente una situazione e trasformarla in un’idea, in un pensiero.
Pittura e fotografia: confini labili quanto osmotici, soprattutto in quegli anni (sessanta-settanta).
Un rapporto ambivalente: da un lato la pittura conferisce qualcosa in più alla fotografia, dall’altro la fotografia mette in evidenza una caratteristica che non è mai della pittura. La pittura è un fatto individuale, mentre nella fotografia c’è sempre qualcosa che riguarda la realtà generale. Non solo me, ma tutti gli esseri umani, animali, la realtà esterna. Diventa tridimensionale. Questo è il successo della fotografia. Il ritratto in pittura non sei mai sicuro che sia vero, mentre nella fotografia bene o male c’è sempre un pezzo di verità.
Entriamo in mostra. Artisti, anni, relazioni, connessioni artistiche e biografiche tra i vari attori della scena.
Otto artisti per dieci opere dal 1969 al 1977. Anni cruciali, a cavallo degli anni sessanta e settanta, caratterizzati da correnti che si sfiorano e contaminano. La mostra finisce con un’opera di Aldo Tagliaferro (prossimo protagonista in galleria con una grande retrospettiva dal 26 giugno nda) che si intitola “L’Io Ritratto”, lavoro in cui si è auto fotografato per cercare di conoscere il proprio Io. Quasi tutti gli artisti in mostra si conoscevano e si frequentavano personalmente, hanno sviluppato il loro lavoro in connessione. Sono tutti artisti oramai famosissimi che hanno adottato la fotografia perché amavano avere da un lato, la creazione, l’invenzione e l’individualità che è propria dell’arte in generale, della pittura; dall’altro, qualcosa di oggettivo. Come si vede benissimo nelle opere esposte.
Come si vede nei “confini” di Vito Acconci, prima opera in ordine temporale esposta e opera prima nella genesi della mostra per intero (come per tutta la performance a venire).
Di Acconci presentiamo appunto i suoi “confini”, Margins del 1969. Opera fondamentale che ha segnato il suo passaggio dalla poesia e dalla scrittura a quella che sarà la sua prima vera grande manifestazione creativa originale nuova che ha fatto impazzire il mondo intero: la performance. Tutti gli artisti di quella generazione prima o poi hanno utilizzato la perfomance, la fisicità, la persona umana. A un certo punto Vito si stufò di lavorare sulla carta e si lanciò, se così si può dire, nella realtà. Era di New York, poteva lavorare a Central Park con la sua macchina fotografica! Si mise a fotografare la “situazione” in cambiamento. C’è movimento e dinamica nelle sue opere in contrasto a quella fissità che c’era prima nella poesia. In questo lavoro in particolare ci sono dei veri e propri margini, non solo del paesaggio ma anche del corpo umano. Al centro c’è lui, composizioni di parti del suo corpo.
I “Margins” del 1969 sono anche quelli figurati che fanno da spartiacque tra i sessanta e i settanta, dopo di lui la performance non sarà più la stessa. Quali sono i punti fondamentali dell’opera di Acconci, riflesso di quello che sono i punti salienti della mostra in generale.
I punti essenziali: 1) La scoperta del paesaggio in cui Acconci si immerge e che vive completamente fotografandolo; Acconci dice che non gli basta il paesaggio ma vuole l’essere umano. 2) Per la prima volta compare l’ombra dell’essere umano che non era mai comparsa in nessuna delle sue opere. 3) Abbiamo insieme poesia, performance e fotografia. 4) Solitamente viene ripreso da fuori, qua invece è lui stesso che fotografa l’esterno, un’opera in cui c’è dentro anche lui. 5) Gli artisti in mostra sono stati profondamenti influenzati da Acconci, di sicuro uno dei più grandi della body art e della performance.
Come un’altra grandissima performer, Gina Pane.
“Io” del 1972 è un’opera realizzata prima che lei e le sue opere diventassero più violente. Nell’opera-performance Gina cerca di convincere le persone a diventare buone. La scena si compone di tre situazioni riunite in un’unica immagine: la stanza in cui sta lei, dove se ne sta in bilico sopra la finestra tra dentro e fuori. La famiglia all’interno della casa che vive la propria vita come fossero persone normali. La gente fuori in strada: c’è un bar, le persone si siedono e sentono quello che lei vede dentro. Aveva microfonato la stanza chiusa dove stavano pranzando e descriveva al pubblico quello che faceva la famiglia. Il microfono sbuca fuori, loro vedevano solo lei alla finestra. Era il tramite.
Il senso di tutto ciò?
Mi apro a voi. Una immensa apertura verso l’altro, come tutte le sue opere. All’inizio realizzata, come questa, in maniera socievole, per dare questa continuità. Dopo in maniera sempre più violenta. E’ un’opera concepita prima di tutte le performance autolesioniste che tutti noi conosciamo.
Un altro grandissimo legato ad Acconci: Dennis Oppenheim.
Oppenheim era davvero innamorato delle opere di Acconci. L’opera in mostra del 1975 è davvero particolare perché è una delle performance fatte coi due figli, un maschio e una femmina. Questa l’ha fatta con la figlia: nella prima immagine la figlia lo disegna, mentre lui lavora sulla parete cercando di rappresentare quello che la figlia sta facendo sulla sua schiena. Un vero e proprio “Transfer drawings” come recita il titolo dell’opera. L’altra è il contrario, a ruoli invertiti. Sono entrambe in mostra, collegate. Anche questa è un’opera cardine, un lavoro che segna il passaggio dall’essere land artist a body artist, una delle poche opere che lui ha fatto utilizzando il corpo.
Concludiamo la nostra chiacchierata con un’opera intima, personale. “La Visita” (1972) di Hutchinson, dove il soggetto dell’opera e della (mancata) visita è proprio lei…
Ero una grande amica di Hutchinson, uno dei più grandi interpreti della Narrative Art. Negli anni settanta avevamo fatto una mostra insieme a Milano. Quando andai a insegnare negli Stati Uniti, gli telefonai per vederlo e mi invitò a bere il the a casa sua. Mi dimenticai completamente di quell’invito e quando gli telefonai per scusarmi mi rispose scusandosi a sua volta, perché mentre mi aspettava a casa si addormentò. Scrisse tutto nell’opera. Come lui si immaginava la scena ma come poi non è successo. Io che aspetto mentre lui dorme sul divano. Appena ci siamo visti veramente abbiamo rifatto “professionalmente” tutta la scena… ed ecco qua The Visit, l’opera compiuta.
Informazioni utili
PHOTOSEQUENCES
Milano, Osart Gallery
Corso Plebisciti, 12
29 marzo 2018 – 26 maggio 2018
Inaugurazione: mercoledì 28 marzo, ore 18.30
Orari: da martedì a sabato, 10.00 – 13.00, 14.30 – 19.00
Ingresso libero
Informazioni:
T. 025513826
info@osartgallery.com
www.osartgallery.com
www.facebook.com/osartgallery
www.instagram.com/osart_gallery