Yvonne Farrelll e Shelley McNamara hanno curato una Biennale intrisa di valori etici, aperta al concetto di spazio prima ancora che a quello di edificio, per riflettere sul ruolo degli architetti come creatori di sviluppo sociale e armonia. Fino al 25 novembre 2018. www.labiennale.org/it/architettura/2018
VENEZIA – Se la suggestiva e toccante Biennale di Alejandro Aravena aveva indagata l’architettura “di resistenza”, portando a Venezia esperienze di risanamento e ricostruzione di contesti difficili, l’edizione curata dalle irlandesi Yvonne Farrelll e Shelley McNamara applica al quotidiano la necessità della buona architettura, buona da un punto di vista tecnico ma soprattutto etico. Al coinvolgimento emotivo si affianca quello intellettuale, poiché le curatrici si sono concentrate sul lato umanistico di una disciplina che offre rifugio al corpo, ma può contribuire anche alla soddisfazione spirituale di chi abita o frequenta certi edifici, può innalzare la qualità della vita creando condizioni logistiche ottimali per la vita quotidiana da inserire in una cornice di bellezza che abbia l’armonia al suo centro. Per questa ragione, a seconda di come la si mette in pratica, l’architettura è lo specchio più immediato che rivela il carattere di un popolo, il suo ordinamento politico, il grado di libertà di cui può godere; la Parigi di Napoleone III, la Vienna di Metternich, la Berlino di Bismarck e la Mosca di Stalin, fino alla Bucarest di Ceausescu, hanno parlato, nel bene o nel male, anche attraverso l’assetto urbanistico; la Biennale ribadisce invece l’idea di architettura come disciplina del bene comune, capace di creare interazione fra l’individuo e gli elementi naturali, di rispettare il territorio attraverso edifici a basso impatto energetico, di creare una memoria collettiva abbracciando passato, presente e futuro.
FREESPACE, questo il titolo scelto dalle curatrici, rimanda all’idea dello spazio come opportunità, come luogo di incontro e dibattito, dove poter trovare la propria dignità di esseri umani. Lo spazio è importante di per sé, è la conditio sine qua non che permette l’esistenza dell’architettura,ed è un qualcosa di vivo che può dar luogo a pressoché infinite possibilità di sviluppo; ogni popolo ha una sua “cultura dello spazio”, un suo modo di concepirne l’organizzazione, e l’architettura è quindi la modalità con cui lo spazio viene pensato e organizzato, e a seconda di come questo accade si creano muri o dialoghi, possibilità di sviluppo o zone grigie di esclusione e disagio. Alla radice di questa Biennale, l’idea dell’armonica polis platonica, a sua volta parte del kósmos, ovvero l’universo inteso come sistema ordinato; un ordine cui può contribuire anche l’architettura, quando è capace di comprendere le esigenze di ogni singolo spazio e dei suoi abitanti.
Dalla mostra internazionale emerge come i Paesi del cosiddetto “Sud” concepiscano l’architettura privilegiando l’armonia con il territorio e ideando edifici che intercettino i bisogni dei destinatari finali, oppure costruiti utilizzando manovalanza e materiali locali, mentre a “Nord” prevale in un certo senso il lato “spettacolare” e imprenditoriale; considerando però che anche qui si trovano numerose enclave di “Sud”, forse potrebbe essere opportuno prendere esempio su come si possa riqualificare socialmente lo spazio, liberandolo dal disagio, dall’ignoranza, dalla povertà. Una delle esperienze più interessanti viene dall’India, dove a Pune (capoluogo dell’omonimo distretto nelle Stato del Maharashtra), lo studio Case Design di base a Mumbai, si sta occupando della costruzione di un campus scolastico per giovani donne. In un Paese dove purtroppo i diritti delle donne sono spesso calpestati, esperienze del genere costituiscono strumenti di libertà, perché la cultura e l’istruzione sono gli strumenti indispensabili per essere cittadini all’interno di uno spazio e di un territorio. Indiscutibili anche i pregi architettonici, perché il campus, ad esempio, è in grado di autoregolare passivamente la temperatura degli ambienti attraverso condotti a terra che incanalano l’aria esterna raffreddandola e poi distribuendola all’interno. Ancora in India, Rahul Mehrotra (fondatore di RMA Architects) presenta un intervento di riqualificazione di una cava di sabbia non più utilizzata; edilizia abitativa a basso costo, ma non per questo di cattiva qualità, e che prevede anche la creazione di bacini di recupero dell’acqua piovana. Alejandro Aravena, dall’interno del collettivo Elemental, parte dal concetto secondo il quale possedere un’abitazione rientra fra i diritti fondamentali degli esseri umani; ha quindi rivisitato il concetto di favela, progettando agglomerati abitativi a basso impatto, per occupare quel suolo pubblico inutilizzato, e trasformarlo così in risorsa per l’umanità.
Nell’ottica umanistica di organizzazione dello spazio, il tema della stabilità riveste un’importanza fondamentale, un ragionamento che include inevitabilmente la salvaguardia della natura, l’interazione attiva fra questa e lo spazio abitato; il collettivo internazionale Bjarke Ingels Group ha dimostrata la sua sensibilità in materia, progettando un parco urbano per Lower Manhattan, a New York: BIG U: Humanhattan 2050 si svilupperà per una lunghezza di sedici chilometri lungo la costa, e proteggerà la città da inondazioni, tempeste tropicali, innalzamento della temperatura.
Un’altra delle linee proposte dalle curatrici è quella di cercare l’armonia fra passato e presente, liberando lo spazio dal concetto di tempo; in questo, lo spagnolo Rafael Moneo porta un determinante contributo: il suo progetto per il Municipio di Mursia, realizzato nel 1999, condensa equilibrio e innovazione, superando i vincoli dell’assetto preesistente, ma al contempo rispettandoli. Il barocco spagnolo dei palazzi che si affacciano sulla piazza dialoga con le forme minimaliste tipiche del razionalismo olandese utilizzate da Moneo per il Municipio.
Nonostante questa ampia portata, la Biennale procede fra alti e bassi, non tanto nella validità delle proposte, quanto forse per l’opportunità, per molte di esse, di essere presenti a una Biennale d’Architettura; dalla quale, solitamente, ci si attende concretezza, un resoconto di quanto realizzato sul campo, l’anteprima di quello che si andrà a realizzare. Non sempre ciò accade, anche se è doveroso riconoscere come allestire una mostra d’architettura non sia impresa agevole. L’impressione è che il tema del Freespace, dello spazio libero, sia stato interpretato con un’eccessiva libertà, appunto, sconfinando nel settore dell’istallazione artistica, che è a suo modo un’interazione con lo spazio, ma molto più aleatoria di quanto lo sia l’architettura. Un approccio che si registra principalmente a livello di singoli Padiglioni Nazionali, e che lascia avvertire cambiamenti d’atmosfera che somigliano a veri e propri spazi vuoti; il che, forse, può anche confermare la versatilità del tema scelto dalle curatrici, ma dall’altro toglie concretezza a una disciplina che invece trova in essa il suo fondamento. Per questa ragione, poco in tono appaiono i Padiglioni britannico e croato; nel primo caso la curatela ha scelto di lasciare vuota la struttura ai Giardini, circondandola all’esterno con un’impalcatura da cantiere, dalla quale si sale fino al tetto del Padiglione, che viene così fruiti in maniera differente; un lavoro concettuale sullo spazio, mentre all’interno si svolgeranno incontri di poesia e dibattiti sull’architettura a metà fra happening e performance. Sulla stessa linea il Padiglione Croazia, articolato su tre istallazioni che richiamano la struttura della pergola come luogo conviviale di riposo, di incontro, di meditazione, che sottintende il superamento delle barriere e un approccio umano sostanzialmente libero e informale. Anche questo, un lavoro molto concettuale, teorico, poco legato all’architettura concreta. Queste piccole ombre tuttavia non sminuiscono l’intelligenza di una Biennale nella quale emerge – come accaduto con quella del 2017 diretta da Christine Macel -, la sensibilità femminile capace di pensare al futuro con istinto materno, individuando il bene comune e le possibilità per l’architettura di costruirlo ogni giorno.