Arte e scienza si incontrano al MASI di Lugano. In occasione del terzo appuntamento del ciclo La Scienza a regola d’Arte, organizzato dalla Fondazione IBSA per la ricerca scientifica, si è tenuta una conversazione tra il fotografo e filmmaker Armin Linke e il geologo Paolo Cortini. Un dibattito ricco di spunti, riflessioni e questioni irrisolte attorno al concetto di Antropocene. Quanto hanno influito le attività degli uomini sulle modifiche strutturali, territoriali e climatiche del pianeta? Come raffigurare ed immaginare il futuro dello spazio in cui viviamo? Quali i cambiamenti irreversibili imposti dall’uomo sulla terra?
Abbiamo approfittato dell’occasione per intervistare Armin Linke (Milano 1966), che da anni attraverso le sue opere fornisce una singolare chiave di lettura alle tematiche elencate. Dalla formazione artistica agli ultimi progetti, dalla poetica al metodo di lavoro che sostengono la sua ricerca scientifica.
Iniziamo dal principio. La tua vita e la tua formazione. Nato a Milano, ti sei trasferito a New York e ora Berlino. Quali le connessioni con le città in cui hai vissuto? E come queste si legano e hanno influenzato il tuo lavoro?
Quando sono partito per New York avevo circa vent’anni. È stata un’esperienza fondamentale per capire le dinamiche dei sistemi dell’arte. Ho avuto la possibilità di incontrare artisti e personalità importanti. In quegli anni ho imparato a lavorare con la fotografia, intesa come rivelazione fondamentale per osservare il mondo.
Sono poi tornato a Milano. È stato importante per la mia formazione frequentare Amedeo Martegani e la sua libreria A&M Bookstore, ma anche assistere alle lezioni del professor Alberto Garutti all’Accademia di Brera. Queste esperienze mi hanno permesso di instaurare un dialogo con artisti e realtà differenti. È stato un momento storico interessante, che mi ha dato molto e mi ha aiutato a capire come la fotografia potesse essere utilizzata ed immessa in un canale di distribuzione artistico.
Negli ultimi 10 anni a Berlino c’è stato un ulteriore passaggio, il raggiungimento di un più alto livello di emancipazione artistica. Non si tratta più di semplice produzione fotografica, ma anche –grazie alla collaborazione di collettivi di studio e ricerca- di dare vita ad innovativi progetti curatoriali in grado di coinvolgere e creare connessioni tra arte, scienze e discipline più differenti. Cerchiamo di realizzare progetti complessi, in cui la fotografia è solo una delle componenti.
Hai viaggiato in tutto il mondo e la tua opera viene considerata come un giornale di bordo dei profondi cambiamenti economici, ambientali e tecnologici degli ultimi anni. Alla luce di queste osservazioni, come descriveresti il fil rouge della tua ricerca? Quali sono gli stimoli che la sostengono?
Il filo logico della mia ricerca segue lo studio di diversi aspetti antropologici che caratterizzano l’uomo. L’uomo nello spazio in cui agisce. Come lo spazio risponde alle modifiche strutturali, politiche, economiche e sociali che risultano da queste azioni.
Il punto di vista del fotografo è spesso celebrato come definitivo. Il fotografo, osserva il mondo, lo blocca e lo rappresenta. Questa operazione viene considerata il più delle volte come un punto d’arrivo finale. L’obbiettivo della mia ricerca consiste nell’utilizzare la fotografia anche come punto iniziale, funzionale alla creazione di qualcosa di nuovo. Fotografia come metodo di dibattito, di lettura e interpretazione, ma anche metodo di interrogazione che non per forza ci dà tutte le risposte che cerchiamo.
Uno dei soggetti centrali del tuo lavoro è la relazione tra l’uomo e lo spazio in cui agisce, la natura. Quali sono le caratteristiche del rapporto tra uomo e natura nelle tue opere?
Nelle immagini che rappresentano la trasformazione globale delle infrastrutture e l’interazione tra ambienti naturali e artificiali, le persone appaiono spesso come figure minime in relazione a massicci progetti architettonici o di ingegneria. Ne è un esempio la foto “Ertan Dam (Downstream Side)” scattata in Cina nel 1998, che ritrae la diga delle tre gole. Un’infrastruttura mastodontica, la cui costruzione ha costretto più di 2 milioni di persone a trasferirsi. Ma anche “Ski Dome”, emblema di un rapido sviluppo tecnologico e commerciale sul mondo naturale.
Hai parlato di metodi innovativi di distribuzione dell’arte e della fotografia. Nel 2003, alla Biennale di Venezia, ha preso vita Book on Demand. Un archivio interattivo computerizzato che permette di comporre i propri, unici libri “Armin Linke”. Raccontaci di questo progetto.
“Book on Demand” è un progetto che si interroga su come creare una narrativa composta da un insieme di foto. Si interroga su come creare nuove possibilità di distribuzione e fruizione dell’opera stessa, attraverso cui il pubblico possa sentirsi partecipe. Nel 2003 la tecnologia di stampa digitale era una cosa totalmente nuova. Le prime stampanti offset digitali indigo mi interessavano molto. L’operazione è stata quella di scegliere un certo numero di immagini dal mio archivio e metterle su un sito internet. Abbiamo dato così la possibilità al pubblico di scegliere le fotografie dal sito, stampare un’edizione propria, unica e personale delle foto, diventando così co-curatori dell’archivio.
Dal 2003 ad oggi questo tipo di tecnologia è stata superata. Questo è il problema delle tecnologie digitali, in poco tempo diventano obsolete. Nonostante ciò da “Book on Demand” è nato “Phenotypes/Limited Forms”. Una mostra che mirava alla creazione di una forma fisica con cui il pubblico si potesse confrontare. Un migliaio di foto dal mio archivio sono state stampate ed esposte. Il pubblico poteva fisicamente toccarle, spostarle e ricomporre la sequenza espositiva delle opere. La mostra è diventa così qualcosa di organico, un albero dalle mille diramazioni che cambiava forma man mano che il pubblico interagiva.
Il processo curatoriale delle tue mostre è spesso gestito da un collettivo di persone. Come viene organizzato? Come si articola il vostro metodo di lavoro?
Generalmente sono interessato a presentare l’immagine fotografica non come un’entità fissa o come prodotto finale e chiuso, ma come dispositivo per innescare una discussione o quesito da cui avviare un processo. Per questo, in diverse occasioni, è stato fondamentale il contributo curatoriale di persone dalle diverse attitudini e provenienze.
The Appearance of That Which Cannot Be Seen, mostra in esibizione al PAC di Milano nel gennaio 2017 può essere un buon esempio per spiegare come lavoriamo. O almeno cos’è accaduto in quell’occasione. Il processo curatoriale collettivo è iniziato in questo caso con la digitalizzazione dei negativi e con la scrittura di un software che è stato messo a disposizione dei diversi artisti, curatori, ricercatori, economisti e diplomatici, consentendo l’accesso alle fotografie. Ho poi chiesto a sette di questi studiosi di selezionare, dalle migliaia di immagini dell’archivio fotografico, dei percorsi di lettura, da cui è successivamente nata la mostra. Le fotografie scelte sono state esposte nello spazio su dei pannelli simili a coreografie teatrali, con riferimento alle interpretazioni dei “curatori”. In particolare, non solo in occasione di questa mostra, è stato interessante osservare come Bruno Latour, filosofo e principale riferimento teorico del mio lavoro, potesse leggere le mie immagini utilizzandole per altri scopi, fini e riflessioni.
Ci hai parlato delle influenze dal mondo del teatro nell’allestimento di The Appearance of That Which Cannot Be Seen al PAC di Milano. Qual è il rapporto tra queste influenze e la tua fotografia?
L’allestimento di The Appearance of that which cannot be seen (L’apparenza di ciò che non si vede) è un paesaggio nel quale i lavori fotografici convivono con degli “ipertesti” navigabili nello spazio fisico. Il corpo dello spettatore, spostandosi nello spazio, seleziona e crea relazioni e associazioni. Qui la fotografia è un mezzo per mettere in scena la realtà. Il riferimento al teatro è quindi immediato. Partendo dalle strutture di sostegno delle foto, simili a coreografie, fino ad arrivare alle immagini estrapolate dalla realtà, come fotogrammi di una messinscena.
Un gruppo di studiosi ha proposto una nuova era geologica, l’Antropocene (dal greco anthropos), che vede al centro l’uomo e le modifiche territoriali, strutturali e climatiche che ha imposto all’ambiente. In che modo hai trattato il tema in questione e cosa ne pensi? L’uomo ha davvero cambiato l’era geologica in cui ci troviamo?
Antropocene. Una parola che nel mondo dell’arte va molto di moda ed è soggetta a qualche abuso. Il concetto che si nasconde dietro questa parola è però interessante. Può diventare importante e funzionale ad introdurre problemi urgenti e sollecitare un intervento. Come gestire quest’intervento? È necessario un cambiamento nel nostro stile di vita?
L’arte non ha né il compito né la pretesa di fornire risposte univoche, ma può essere un ottimo strumento per approfondire queste tematiche. Per questo ho fatto parte di “The Anthropocene project”, una ricerca interdisciplinare realizzata insieme ad un gruppo di scienziati che studiano il modo in cui la tecnologia ha saturato il nostro pianeta, al punto da rendere inutile qualsiasi distinzione troppo netta tra biosfera e tecnosfera. Il mio lavoro in particolare consiste nel cercare di capire in quali modi questi scienziati lavorano. Il progetto artistico che abbiamo realizzato in questo caso è diventato una scusa perché degli scienziati potessero incontrarsi e dibattere. Abbiamo creato una realtà nuova, un momento di dialogo e di incontro. Nell’analisi delle tematiche ci siamo concentrati sulla progettazione e la percezione degli spazi in cui viviamo. Perché possiamo capire il mondo in cui viviamo solo dotandoci di strumenti di lettura sociale e tecnica del modo in cui lo progettiamo.
Hai citato Bruno Latour come filosofo e antropologo della scienza, nonché riferimento teorico del tuo lavoro per la sua capacità, partendo dalle tue fotografie, di leggere nuovi spunti e percorsi tematici. In che modo e quali elementi della tua opera fotografica ha analizzato?
Leggendo le mie immagini Latour ragiona sull’infrastruttura nascosta, quella che non si vede ma rende possibile la vita della città: i sistemi energetici, il controllo del traffico, le reti di comunicazione. Mette a nudo i nessi, le giunture, gli elementi infrastrutturali di un paesaggio globalizzato dove il confine tra umano e non umano viene continuamente violato. La foto della giunzione del gasdotto a Nadym, in Russia, è un perfetto esempio di megainfrastuttura e di immagine dell’Antropocene, che indaga sui processi e le interazione tra la vita spontanea e la vita tecnicamente organizzata.
Per concludere, raccontaci i tuoi ultimissimi progetti.
Il mio prossimo progetto, in collaborazione con CNR-ISMAR, ha appena inaugurato all’Istituto di Scienze Marine di Venezia il 23 maggio (fino al 30 settembre 2018). L’esposizione intitolata Prospecting Ocean tratterà della condizione degli oceani. L’intento del progetto è mostrare al pubblico lo sfruttamento politico ed economico degli oceani attraverso videoinstallazioni multicanale, una nuova serie di fotografie inedite, e delle interviste realizzate “dietro le quinte” con importanti biologi, geologi e politici.