Duecento fotografie, a colori e in bianco e nero, raccontano i reportage più significativi di James Nachtwey. Alla Maison Européenne de la Photographie, fino al 29 luglio 2018.
“Memoria”, una mostra curata da Laurie Hurwitz, Roberto Koch e dallo stesso fotoreporter. Darfur, Iraq, Afghanistan, Ruanda, teatri di guerre e carestie, dove l’orrore non sembra conoscere limiti.
Parigi. «How many times can a man turn his head, and pretend that he just doesn’t see?». A oltre mezzo secolo di distanza, la domanda di Bob Dylan attende ancora risposta, ma non tutta l’umanità volta la testa alle tragedie.
C’è chi, come James Nachtwey (Syracuse, 1948) avverte la necessità di documentare le tragedie dell’umanità, di fermarle in immagini delle quali resti memoria, e dalle quali trarre monito affinché l’umanità riesca un giorno a vivere in pace. Forse un’utopia, ma nella quale è necessario credere, anche solo per non rimanere indifferenti davanti a tanta sofferenza. Fotografando, Nachtwey si sente un testimone di coloro ai quali è stato preso tutto, tranne la dignità. È proprio questa dignità che il suo obiettivo riesce a eternare anche in mezzo alle macerie, nelle corsie degli ospedali improvvisati dove giacciono i moribondi.
Difficile trovare parole per descrivere l’abisso d’orrore e sofferenza che risalta dalle fotografie, dove sguardi vuoti, corpi dilaniati, macerie a perdita d’occhio, costituiscono i soggetti ricorrenti, come un demoniaco mantra che si ripete all’infinito: violenza, ingiustizia, dolore, morte; esistono Paesi del mondo in cui l’orizzonte quotidiano è racchiuso in queste quattro parole. Da secoli ci si interroga sulla crudeltà dell’uomo sull’uomo, eppure tutto questo continua a esistere senza che non si sia riusciti a porvi un freno, perché forse una guerra serve a giustificare un certo tipo di politica o regime economico a migliaia di chilometri di distanza dal suo epicentro.
Tutto questo, forse, perché la civiltà non la si è ancora raggiunta in pieno, e l’avidità e l’indifferenza sono modus vivendi ancora troppo radicati. Come Nachtwey ha scritto in una lettera all’amico e collega Nick Nichols: «il mio lavoro fotografico ha a che fare con ciò che di primordiale prevale negli uomini quando le regole della civiltà e della socializzazione vengono infrante». Allora resta una sorta di giungla morale, dove solo il caso decide chi vive e chi muore.
Di tutto questo deve rimanere memoria, come recita il titolo stesso della mostra, scelto per il suo significato universale. Nachtwey è considerato il più prolifico fotoreporter degli ultimi decenni, un osservatore eccezionale del mondo contemporaneo, e probabilmente fra i più penetranti. Dai conflitti in Iraq e Afghanistan, passando per la Cisgiordania, il Darfur e l’11 Settembre, fino ai terremoti che hanno martoriato il Nepal e Haiti.
Ovunque, sangue e macerie, folle in lacrime e in lutto, un viaggio in gironi infernali sempre più profondi e dai quali non sembra esserci via d’uscita, ma solo un tunnel che segue a un altro tunnel, senza mai trovare la luce. Nel deserto del Sudan, nelle pianure dell’Afghanistan, la maestosità della natura quasi si erge a giudice della follia umana. In quelle scene raccapriccianti si avverte la profonda compassione con cui Nachtwey fotografa bambini e adulti, uomini e donne, militari, ribelli e civili inermi, cristiani e musulmani. Tutti, in fondo, meritano compassione per quello che stanno subendo, vittime più o meno consapevoli.
E poi, quel Crocifisso spezzato in una chiesa della Bosnia Erzegovina; il sigillo alle parole di Nietzsche, una divinità uccisa, che forse si è lasciata uccidere per indifferenza verso la condotta dell’uomo sulla Terra. E troppo spesso, negli sguardi delle vittime di guerre, epidemie e carestie, si legge la solitudine, l’abbandono di ogni speranza, l’attonito stupore di chi non capisce quale colpa abbia commesso per meritare ciò. Eppure, la fotografia di Nachtwey riesce nell’impossibile, ovvero nel catturare la maestosa bellezza della dignità umana che, nelle situazioni più disperate, continua a sopravvivere. Sofferenze accettate con ineffabile coraggio, con la forza di una speranza che, forse anche per ingenuità, continua a brillare.
Immagini che, per quanto atroci, devono essere guardate e fatte oggetto di riflessione; instancabili, Nachtwey e tanti suoi colleghi continuano a fotografare queste tragedie, a portarle sotto lo sguardo del mondo “civilizzato” che però, con il suo stile di vita, contribuisce più o meno inconsapevolmente, al mantenimento di questa situazione.
Dietro le guerre si nascondono il potere delle lobby bancarie, gli interessi delle grandi aziende di armi, di costruzioni, farmaceutiche, quelle stesse che “garantiscono” il benessere in Occidente.
Ecco allora come sia terribile scoprire come l’esistenza sia legata al caso di nascere dalla parte “giusta” o dalla parte “sbagliata” del mondo, dove giusto e sbagliato sono al di fuori di qualsiasi logica, ma frutto di un arbitrio deciso troppo in alto perché l’opinione pubblica occidentale, beatamente persa nel consumismo, possa contestarlo. Questa, e altre dello stesso tenore, non sono mostre di fotografia. Si dovrebbe entrarvi con lo stesso senso di pietà con cui si entra, ad esempio, ad Auschwitz, perché purtroppo i genocidi dell’uomo sull’uomo non sono finiti nel 1945, continuano tutt’oggi, più o meno dichiarati, più o meno diretti, con le armi e con sopraffazione. Davanti a queste immagini, chiedersi perché è un dovere civile.
Informazioni utili
James Nachtwey. Memoria
Dal 30 maggio al 29 luglio 2018
Maison Européenne de la Photographie, 5/7 Rue De Fourcy, Parigi