Il Museo d’arte della Svizzera Italiana di Lugano (MASI) dedica una mostra monografica a Balthasar Burkhard, fino al 30 settembre. Balthasar Burkhard. Dal documento alla fotografia monumentale è l’evoluzione di uomo, che da semplice fotografo, ha allargato i propri orizzonti fino a diventare artista.
Siamo nel 1969 e non tutte le rivoluzioni sono esplose per le strade. Senza che ce ne fosse consapevolezza, una mostra destinata a diventare storica ha posto le basi per un rinnovamento dei gusti artistici e delle dinamiche espositive. Alla Kunsthalle di Berna, Harald Szeemann cura When Attitudes Become Form e il mondo dell’arte ne rimane totalmente scosso. Grazie ad una curatela in grado di fondere elementi artistici ed architettonici, l’innovativa esposizione ancora oggi rimane unica. Joseph Beuys, Alighiero Boetti, Eva Hesse, Yves Klein, Joseph Kosuth, Jannis Kounellis, Gary B. Kuehn, Sol LeWitt, Richard Long, Mario Merz, Robert Morris, Bruce Nauman, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Richard Serra sono solo alcuni degli artisti partecipanti. E ad assistere, dietro al sua macchina fotografica, Balthasar Burkhard.
Una sorta di ‘pittore di corte’ che riprende con cronachistico impegno tutto ciò che accade. Dagli artisti all’opera fino ai momenti di svago e rilassamento. Lo sguardo realistico degli scatti si inserisce perfettamente nell’impaginazione e lascia emergere l’attenzione documentaristica che Burkhard imprimeva nei suoi primi lavori. Immagini di istanti irripetibili. Come Richard Serra intento ad allestire la sua opera negli spazi della Kunsthalle, oppure Michael Heizer che con l’aiuto di un demolitore distrugge l’asfalto delle strade di Berna. E ancora Mario Mertz che conversa tranquillamente con la sorella e Beuys che nel suo classico look siede in attesa del proprio momento. Un’attenta e costante riproduzione del reale, nel più semplice degli stile sul più semplice dei supporti nel più comune dei formati. Allo spirito di Burkhard questo non può bastare. Ritrarre l’opera di altri artisti, per un’artista, non è sufficiente.
Il primo elemento ad essere sacrificato è il supporto, seguito subito dal formato. Inizia così un periodo di sperimentazioni per Burkhard, che allarga le dimensioni dei suoi scatti e il materiale su cui svilupparli. Prima il legno, su cui stampa le foto scattate ad Esther Althofer, poi la tela, la cui versatilità da vita ad opere di grandi dimensioni come La carta e L’atelier. Poi l’isorel, un pannello in legno che sceglie come supporto per Il ginocchio. L’opera realizzata nel 1983 occupa un’intera sala dell’esposizione, sorreggendola come fosse un colonnato. Discrete nel loro bianco e nero, le gambe si proiettano verso l’alto e raggiungono idealmente il soffitto.
Attraversando questo loggiato di carne e ossa si accede alla sezione della mostra dedicata al rapporto di Burkhard con il corpo umano. Una passione questa, soprattutto volta al sesso femminile, diventata cifra poetica e stilistica per l’artista. Prova per Corpo I è il risultato di alcuni scatti realizzati ad una modella, tagliati e poi ricombinati a formare un’immagine confusa tra erotismo e ambiguità. La forma della donna appare intatta, ma seguendone le curve, forse troppo sinuose, se ne intravedono fratture, discrepanze dalla realtà. Come anche Prove per Corpo II, l’apparente semplicità di questi scatti cela un mistero sinistro, un’indagine quasi dolorosa della psiche umana.
Una visione più serena della dimensione fisica viene recuperata in Torsi, affiancati significativamente da Senza titolo (Impronte di pennello n. 50 ripetute a intervalli regolari) di Niele Toroni. Come il segno nero dello strumento pittorico si ripete meccanicamente sulla carta da lucido, così le linee dei corpi immortalati da Burkhard si susseguono in minime ma rilevanti variazioni. Il peregrinare flessuoso della carne confluisce poi nell’analogia con il mondo naturale. La forza prorompente di un’onda (La vague, Normandie I, 1995) viene associata all’energia voluttuosa delle gambe femminile, nel loro proceder ipnotico ed inesorabile. Pone in atto una sensualizzazione del dato visibile, ne analizza i risvolti oscuri: le ombre, le conche, le sfumature. Un sottile rimando semantico tra mondi diversi ma che a volte lasciano intuire celate corrispondenze.
Con gli scatti naturalistici, Burkhard ingrandisce ulteriormente il volume delle sue stampe, arrivando a necessitare di 2/3 pesanti cornici in ferro per reggere le opere, spesso separata in dittici o trittici. È accaduto così per Bernina (2004) e Città del Messico (1998). Si tratta della produzione matura dell’artista, giunto a trasmettere le proprie emozioni attraverso il confronto con il paesaggio naturale e cittadino. Come filo conduttore un’atmosfera densa e carica, di un mondo che respira, che allarga la propria influenza verso una connessione organica di forme e funzioni. Tra le nevi delle cime più alte e gli scenari metropolitani più caotici intercorre uno sviluppo sinergico, un movimento continuo.
Movimento che per Burkhard sembra destinato ad interrompersi, quando nel 2009 inizia a ritrarre fiori. Colorati, certo, ma di una vitalità che va spegnendosi, appassendo. Gigli e Papaveri su sfondo nero, inesorabile contenitore di tutto ciò che muore.
Per ulteriori informazioni consultare il sito ufficiale del museo.